La democrazia della stampa
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La democrazia della stampa

Storia del giornalismo

Oliviero Bergamini

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Storia del giornalismo

Oliviero Bergamini

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La tecnologia, il mercato editoriale, la dialettica tra libertà di stampa e poteri economici e politici, il lavoro del giornalista nelle sue eccellenze e meschinità. La storia del giornalismo è tutto questo, ma è anche e soprattutto storia di uomini e donne che nell'arco del tempo, attraverso i loro articoli, fotografie, riprese televisive e più recentemente materiali digitali, hanno raccontato eventi epocali e fatti minimi, contribuendo a modellare abiti mentali e fantasia dei lettori, talvolta manipolandoli, talvolta portando alla luce notizie scomode e verità nascoste.Con ritmo appassionante, Oliviero Bergamini racconta l'evoluzione del giornalismo dagli albori dell'era dell'informazione nel Cinquecento sino alle ultimissime innovazioni digitali. Con particolare attenzione alla contemporaneità, la trattazione spazia tra Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, le nazioni dove il giornalismo ha avuto i suoi maggiori sviluppi, tocca la Russia e i paesi del socialismo reale, dove la libera informazione è stata più a lungo negata, ma si concentra soprattutto sull'Italia, dove il giornalismo è storicamente segnato da limiti e carenze strutturali, ma anche da eccellenze di livello europeo.

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Información

Año
2013
ISBN
9788858110836
Categoría
Filología
Categoría
Periodismo

VII. Il giornalismo nell’era dei totalitarismi

Nel 1938 un giovane attore di nome Orson Welles annunciava all’emittente radiofonica americana Cbs che gli extraterrestri erano atterrati sul suolo degli Stati Uniti. La notizia provocò un’ondata di panico; la gente si riversò per le strade dando vita a scene di isteria collettiva. Solo dopo ore si capì che si era trattato di un passo della riduzione radiofonica di un romanzo di fantascienza, intenzionalmente proposto con i toni di una cronaca autentica: in sostanza, un clamoroso scherzo mediatico, nella tradizione degli hoaxes ottocenteschi. Canale di trasmissione, però, non erano più i giornali, che proprio in questo periodo avevano raggiunto la loro massima diffusione, bensì la radio, che rivelava così tutta la sua potenza comunicativa.

1. Giornalismo e società di massa

1.1. Radio, «newsmagazines», fotogiornalismo: la guerra dei mondi

Nel periodo tra le due guerre il mondo dell’informazione conobbe una nuova cesura tecnologica con l’avvento della radiofonia. La prima stazione commerciale fu attivata nel 1920 negli Stati Uniti; nel 1922 in Gran Bretagna nacque l’emittente pubblica Bbc (British Broadcasting Corporation); sempre nel 1922 anche in Unione Sovietica il regime bolscevico diede vita a regolari trasmissioni radiofoniche. Nel giro di pochi anni apparecchi riceventi diventarono una presenza comune nella gran parte delle abitazioni. Già a metà degli anni Venti, grazie all’ascolto collettivo, l’85% degli inglesi poteva seguire programmi radiofonici. Nel 1938, negli Stati Uniti il 90% delle famiglie di città e il 70% di quelle di campagna possedeva una radio. Sotto il profilo dell’informazione (e non solo), la radio fu un’innovazione radicale. Essa non comunicava attraverso la scrittura, ma attraverso la voce, cosa che conferiva ai suoi messaggi un impatto emotivo molto maggiore e apriva la strada a un nuovo stile informativo di matrice «orale», più vicino al parlato. Diventava possibile produrre notiziari in tempi rapidi, anche più volte al giorno, e persino trasmettere cronache «in diretta». Si apriva l’era della comunicazione in tempo reale.
Ma la radio consentiva anche l’instaurarsi di un nuovo rapporto diretto tra governanti e governati. Attraverso di essa milioni di cittadini potevano ascoltare simultaneamente la viva voce di un capo politico. Quello che Max Weber definì «potere carismatico», basato sulla personalità intensa e magnetica del leader, aveva trovato uno strumento formidabile. Insieme agli altoparlanti, che consentivano di tenere discorsi davanti a grandi folle (anch’essi si diffusero negli anni Venti), la radio sarebbe diventata il mezzo di comunicazione prediletto dai totalitarismi del Novecento. Senza radio e microfoni, fascismo, nazismo e comunismo difficilmente sarebbero potuti nascere.
Altre caratteristiche della radio erano la sua capacità di raggiungere un pubblico ben più ampio di quello dei giornali e di varcare i confini nazionali. Proprio per imbrigliare le sue grandi potenzialità, molti paesi si affrettarono a imporre un regime di monopolio pubblico delle trasmissioni radiofoniche. Con l’eccezione degli Stati Uniti, questo impedì per molto tempo lo sviluppo di una pluralità di testate giornalistiche radiofoniche. Ma per quanto centralizzato e controllato dal governo, il sorgere di un giornalismo radiofonico ebbe un impatto inevitabile sul giornalismo scritto, contribuendo a orientarlo verso forme espressive più dinamiche ed emotive.
Un altro importante genere di comunicazione che godette di grande popolarità nel periodo interbellico fu quello del cinegiornale. Proiettati nei cinema prima o dopo lo spettacolo principale, articolati in varie parti filmate, che presentavano notizie di vario genere, in un’epoca in cui il cinema raggiunse le massime vette di popolarità, i cinegiornali venivano visti ogni giorno da milioni di persone. Avevano prevalentemente un taglio spettacolare e celebrativo, si concentravano su eventi ufficiali e sontuosi (inaugurazioni di piroscafi, esposizioni universali, marce militari). Nei paesi totalitari essi furono immediatamente piegati alle esigenze del regime; non ebbero un carattere giornalistico in senso proprio, bensì funsero da efficaci strumenti di propaganda.
Quando la Germania hitleriana era ormai prossima alla sconfitta militare, i cinegiornali tedeschi continuavano a mostrare sfilate di truppe fresche e trionfanti e la vita serena di prosperi villaggi popolati da bambini biondi: una realtà virtuale che mai prima sarebbe stato possibile realizzare.
Altre fondamentali innovazioni del periodo interbellico investirono il settore della fotografia; si perfezionò e diffuse l’utilizzo del colore, migliorò la qualità dello sviluppo, gli apparecchi si fecero più maneggevoli, le tecniche di riproduzione più economiche ed efficaci. Negli anni Trenta, poi, fu messa a punto la cruciale novità della telefoto: una tecnologia che consentiva di trasmettere via etere immagini a distanza. Tutto questo concorse a far sorgere un genere nuovo, quello del fotogiornalismo, e alla nascita della nuova figura del fotoreporter (tra cui spiccarono da subito alcune straordinarie personalità come quella di Robert Capa), capace di condensare intere drammatiche vicende in scatti che diventavano icone, penetrando a fondo nell’immaginario collettivo.
Importante, inoltre, fu la messa a punto della tecnica di stampa in «rotocalco», che consentiva di stampare fotografie con buoni risultati anche su una carta poco pregiata. Ciò aprì la strada ad un nuovo genere di periodici, i «rotocalchi» appunto, che potevano ritrarre fatti di vita quotidiana e mondana con vividezza e immediatezza prima sconosciute. Tale produzione si divise essenzialmente in due rami: nuove riviste di attualità (i newsmagazines), con fotografie ed articoli di elevata qualità su guerre, problemi sociali, eventi internazionali; e riviste dedicate a costume, pettegolezzi e scandali riguardanti soprattutto il mondo del cinema e dello spettacolo.
Dopo la vera esplosione del periodo precedente, le vendite dei quotidiani continuarono a crescere, raggiungendo il loro picco massimo, ma la grande novità fu soprattutto la rapida affermazione dei nuovi settimanali illustrati. Complessivamente, nel ventennio tra la Prima e la Seconda guerra mondiale la carta stampata raggiunse la sua massima diffusione e penetrazione sociale: alla fine degli anni Trenta si vendevano 376 copie di quotidiano ogni 1000 abitanti in Gran Bretagna, 309 negli Stati Uniti, 274 in Francia e 102 in Italia. A parte alcune variazioni temporanee, questi dati non sarebbero più stati superati negli anni seguenti: al contrario, in molti casi sarebbero diminuiti.

1.2. Reportage e «interpretative reporting»

Sul piano dei contenuti e della «confezione» dei giornali, la rivoluzione innescata dalla stampa di massa nata a cavallo del 1900 proseguì, si estremizzò e si impose in maniera definitiva. La grafica dei giornali si rinnovò ulteriormente soprattutto grazie ad una diffusione generalizzata dell’immagine e alla nuova attenzione per gli aspetti visuali-comunicativi. Il retaggio dei giornali ottocenteschi, costituiti da fitte colonne indistinte, si estinse per sempre. L’impaginazione si fece più mossa e vivace; i grandi titoli sperimentati dalla yellow press diventarono comuni e si arricchirono di sottotitoli, sommari, «catenacci» (brevi testi di raccordo tra titolo e articolo vero e proprio); la pagina divenne un insieme adattabile di testi, fotografie, illustrazioni, elementi grafici di vario genere, calibrati di volta in volta utilizzando il «menabò» (una pagina modello). I quotidiani (ma anche le riviste) assunsero l’aspetto che conservano in sostanza ancora oggi. Si formalizzarono alcune tipologie di articolo: l’«apertura» (articolo di prima pagina in alto a sinistra), la «spalla» (articolo che affianca un articolo più importante), il «corsivo» (breve articolo polemico), l’«articolo di fondo» e l’«editoriale» (articoli di opinione scritti dal direttore o da grandi firme del giornale), le rubriche fisse di commento e analisi dei fatti del giorno, talvolta, soprattutto negli Stati Uniti, riprodotte in syndacations su più testate e lette da milioni di lettori.
La professionalizzazione del giornalismo proseguì e si accentuò; si moltiplicarono le scuole per diventare giornalisti, si intensificarono i rapporti con le università. In molti paesi nacquero o si rafforzarono le associazioni di categoria. Nel 1926 fu fondata l’Associazione internazionale dei giornalisti, una federazione di venticinque associazioni nazionali, con il compito di difendere la libera informazione, aggiornare e promuovere la deontologia professionale.
La professione si diversificò internamente; si delinearono meglio diverse figure e diversi ruoli: il giornalista di desk o di line, «caposervizio» o «caporedattore», con compiti di progettazione e coordinamento, svolti prevalentemente in redazione; il giornalista «che scrive», sia dedicandosi alla «cucina redazionale» (la rielaborazione dei dispacci di agenzia o di comunicati) sia uscendo a caccia di notizie, possibilmente in esclusiva; l’«opinionista», autore di qualificati commenti; il «collaboratore» esterno occasionale e così via. Si delinearono percorsi diversi per chi scriveva su grandi quotidiani e chi su riviste femminili, per chi si occupava di politica e chi di sport. La vecchia figura del giornalista generico e tuttofare scomparve una volta per tutte, almeno nei giornali più importanti.
Il mondo dell’informazione si fece ancora più vasto e internamente articolato. La carta stampata non era più sola, e anzi subiva ora la concorrenza della radio. La parola scritta perdeva l’assoluto predominio del passato, mentre aumentava il peso dell’immagine e della voce; il giornalismo si irradiava in nuove direzioni.
Il termine francese «reportage», presto adottato in tutto il mondo, nacque in questo periodo (comparve, per la prima volta, nei dizionari francesi nel 1929 e in quelli inglesi nel 1931) per indicare quella che a lungo fu considerata come l’espressione massima del mestiere. Un lungo articolo (o anche una serie di articoli), normalmente illustrato da fotografie, in cui il giornalista racconta – quasi sempre in chiave soggettiva – una esperienza vissuta personalmente: il viaggio in un paese lontano (materia regina dei reportage), l’incontro con un grande personaggio, la visita al luogo dove si sono svolti eventi importanti, la ricostruzione di una vicenda; fatti, comunque, che avvengono preferibilmente in paesi stranieri, meglio se esotici, o in luoghi insoliti e poco conosciuti. Normalmente slegato dalla stretta attualità, molto più esteso di un articolo normale, scritto con cura stilistica, il reportage mira a dare un’immagine approfondita e coinvolgente di un ambiente, di una situazione.
Divenne una delle forme principali del giornalismo, terreno privilegiato dell’«inviato speciale», figura romantica e quasi mitica di giornalista sempre in viaggio per il mondo alla ricerca di storie e avventure da raccontare ai lettori. Esso segnava però anche il superamento di una concezione «fredda» dell’obiettività dell’informazione. Ormai più sicuro del suo ruolo e della sua identità professionale, stimolato dai nuovi media radiofonici e fotografici, il giornalista giungeva a «raccontare» le vicende di cui era testimone, non solo mettendo in fila dati e fatti, ma anche cercando di trasmettere sensazioni, emozioni, atmosfere, giudizi. Negli Stati Uniti si giunse a teorizzare legittimità ed efficacia di un nuovo interpretative reporting, un giornalismo «interpretativo» che superasse l’«oggettività» e lo stile rigorosamente referenziale per comunicare in modo più efficace con il lettore. Gli intellettuali comunisti, specialmente in Unione Sovietica, esaltarono il reportage come nuova forma espressiva in cui il valore di intrattenimento della narrazione si fondeva con quello informativo della cronaca; una formula alternativa ai prodotti dell’industria culturale di massa che la sinistra considerava «oppio dei popoli».

1.3. L’informazione alla sfida della propaganda di massa

La Prima guerra mondiale stimolò una prima vasta riflessione sui mezzi di comunicazione di massa. L’efficacia della propaganda, la capacità dei giornali – in sinergia con i centri di potere nazionale – di imporre una visione deformata della realtà, di mobilitare le masse, di condizionare i comportamenti collettivi e, al tempo stesso, il delinearsi di un’informazione basata su stereotipi e semplificazioni, a fronte di una realtà complessa e contraddittoria, colpirono gli osservatori del tempo.
Walter Lippmann, che oltre a essere uno dei giornalisti più celebri della sua epoca fu anche studioso della politica e dei media, scrisse la sua fondamentale opera intitolata L’opinione pubblica nel 1922, proprio come riflessione critica sul rapporto tra stampa e pubblico nelle moderne società di massa, condotta alla luce di quanto aveva visto accadere durante la Grande Guerra. Le sue conclusioni furono pessimistiche: al mito liberale ottocentesco della stampa come strumento per la costruzione di un’opinione pubblica razionale, equilibrata, adeguatamente informata sulle questioni su cui doveva assumere decisioni (un mito che in realtà riguardava una élite ristretta), si sostituiva la visione di un’opinione pubblica «di massa», composta da folle poco istruite, facilmente esposte a condizionamenti e manipolazioni basate su pulsioni irrazionali e istinti primari. Una prospettiva tragicamente profetica, che si rafforzò con l’avvento di nuovi mass media come la radio.
Indubbiamente, uno scenario mediatico sempre più ricco e complesso fu contesto imprescindibile per l’affermarsi delle dittature del Novecento. In Italia, in Unione Sovietica e – più di tutte – in Germania un aspetto strutturale del regime dittatoriale fu la propaganda. Il termine ha origini ecclesiastiche: nel Seicento papa Gregorio XV aveva istituito la Sacra congregazione di Propaganda Fide, arma strategica della battaglia controriformistica. Nel Novecento i nuovi mezzi di comunicazione di massa diedero alla propaganda una potenza storicamente nuova. Per il nazista Joseph Goebbels, essa doveva essere «al centro di tutti i contatti tra il Governo e il popolo, anzi, al centro dell’intera attività politica»; la sua funzione era di promuovere l’adesione attiva del popolo tedesco alle politiche naziste; la verità doveva essere rispettata solo se serviva agli scopi dello Stato, nel nome della supremazia razziale tedesca; altrimenti andava sacrificata senza alcuna remora. Si trattava, ovviamente, di uno scontro fondamentale di valori tra la cultura liberal-democratica e la cultura totalitaria. I mezzi di informazione del periodo tra le due guerre vissero nello scontro tra queste due concezioni: furono vittime, ma anche complici delle peggiori forme di oppressione mai conosciute dall’uomo.

2. Dal «Daily News» all’avvento dei «newsmagazines»

In nessun altro paese la nuova fase di trasformazione dell’editoria giornalistica si manifestò in modo così ampio, rapido e profondo come negli Stati Uniti, che da questo momento assunsero definitivamente la leadership dell’innovazione nel campo dell’informazione.
Il periodo tra le due guerre risultò per il pubblico americano diviso in due parti ben diverse: prima i «ruggenti anni Venti», periodo di boom economico, euforia consumistica, grande sviluppo del cinema e dello spettacolo, proibizionismo e gangsterismo; poi, dopo il crollo di Wall Street del 1929, gli anni Trenta, la Grande Depressione, con il dilagare della crisi economica e della disoccupazione, e quindi la faticosa risalita del New Deal di Roosevelt. Ad unire questi due periodi fu la popolarità della nuova musica jazz, tanto che si parla di un jazz journalism, esuberante e tumultuoso.
Un fenomeno evidente fu l’imporsi della fotografia come elemento strutturale della popular press. Apparve infatti una nuova generazione di quotidiani americani «popolari», di formato tabloid, caratterizzati da una prima pagina interamente (o quasi) occupata da una o due fotografie di grande effetto, corredate da titoli «gridati» con cui entravano in potente sinergia. La comunicazione giornalistica, più che decifrata razionalmente dalla lettura, agiva ora attraverso la forza visiva dell’immagine e di poche parole chiave. Era un giornalismo che faceva appello a forti emozioni primarie prima che alla ragione; un giornalismo più che mai sensazionalistico e semplificato.
Con questa formula, nel 1919 gli editori del «Chicago Tribune» (che avevano conosciuto e studiato la tabloid press inglese) lanciarono a New York un nuovo quotidiano: «L’Illustrated Daily News», poi semplicemente «Daily News». Il successo fu immediato: 200.000 copie nel 1920, 400.000 nel 1922, 750.000 nel 1924; sarebbero arrivate a 2 milioni nel 1940, rendendolo di gran lunga il primo giornale del paese. Altre testate simili seguirono poco dopo, come il «Daily Mirror» lanciato da Hearst per arginare la concorrenza di cui risentiva il suo «Journal» e il «Daily Graphic» fondato dall’ex culturista Bernard Mac Fadden.
Rivolti a un pubblico di basso livello culturale, i nuovi tabloid erano una versione estremizzata e semplificata della vecchia yellow press, che in larga misura soppiantarono (le vendite del «World» crollarono, anche in seguito alla morte di Pulitzer). Essi davano larghissimo rilievo alle foto, avevano articoli brevi e semplici, sempre a tinte forti, puntavano moltissimo sulla cronaca nera (materia di cui, negli anni di Al Capone, non c’era mai scarsità), sugli scandali che coinvolgevano i divi del cinema, sullo sport (che occupava mediamente circa un quinto delle pagine), su giochi e fumetti. Rispetto ai tempi di Pulitzer la componente di inchiesta e analisi sociale era praticamente azzerata, mentre la polemica politica si riduceva prevalentemente a campagne scandalistiche a danno di singoli uomini politici, non di rado legate a interessi economici o elettorali: «90% intrattenimento, 10% informazione» era la composizione teorizzata dagli editori. Alla ricerca spasmodica dello scoop da sbattere in prima pagina dava un contributo fondamentale il nuovo tipo umano e professionale del fotoreporter, che, con la sua macchina dal grande flash a bulbo gironzolava giorno e notte tra stazioni di polizia e locali equivoci. Omicidi, processi, rapine erano il piatto forte, con deliberata insistenza sugli aspetti più scioccanti e morbosi. Le foto dei cadaveri insanguinati delle vittime della criminalità erano all’ordine del giorno. Nel 1928 il «Daily News» giunse a pubblicare l’immagine raccapricciante di una donna che era appena stata giustiziata sulla sedia elettrica, Ruth Snyder, ottenendo un’impennata delle vendite.
Con la Grande Depressione anche i tabloid virarono parzialmente, tornando a occuparsi delle difficoltà drammatiche della gente comune. Del resto, pur essendo fondamentalmente apolitica, la stampa di massa americana conservava un certo spirito autenticamente «popolare», nel senso dell’inclinazione a seguire e assecondare senza alcuna remora pedagogica o intellettualistica gli interessi e i sentimenti (anche più bassi) d...

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