La cucina italiana
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La cucina italiana

Storia di una cultura

Massimo Montanari, Alberto Capatti

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  1. 424 páginas
  2. Italian
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La cucina italiana

Storia di una cultura

Massimo Montanari, Alberto Capatti

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Información del libro

L'illustrazione esemplare di una ricerca e di una riflessione di storia totale che riesce a combinare idee, valori e pratiche. E anche una storia d'Italia e degli italiani spiegata con realismo concreto, sapienza e umorismo. Un bel libro. Jacques Le Goff Un libro gradevolissimo che ci guida a un ritorno all'amore per il convito come momento essenziale nella storia del vivere civile.Tullio Gregory

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Información

Año
2011
ISBN
9788858102084

Mangiare all’italiana

Sapori e profumi dell’orto

Il più antico ricettario italiano, il due-trecentesco Liber de coquina, comincia dalle verdure e lo fa di proposito, intenzionalmente: «Volendo qui trattare della cucina e dei diversi cibi, per prima cosa cominceremo dal genere delle verdure». E via con i cavoli: bianchi, verdi, all’uso di quaresima, all’uso dei romani, degli inglesi, dei francesi… dieci diverse ricette si susseguono, prima di passare agli spinaci, ai finocchi e alle «foglie minute», e più oltre alle preparazioni a base di legumi: ceci, piselli, fave, lenticchie, fagioli. Tutto ciò non è ovvio, anche se il Liber lo giustifica con l’opportunità di iniziare «dalle cose più facili». Non è ovvio perché le verdure non furono mai di gran moda nel Medioevo, sulle tavole dei potenti: il simbolo alimentare del potere era la carne1.
Ci troviamo forse di fronte a un libro di cucina «popolare»? Certo che no: quella del Liber – prodotto a Napoli negli ambienti della corte angioina – è una cucina destinata alla classe signorile: «prepara i cavoli delicati ad uso dei signori», vi leggiamo, oppure: «le piccole foglie odorose si possono dare al signore».
Si tratta allora di una particolarità regionale? Di un indizio – mettiamo – di «mediterraneità»? Se anche fosse, il modello sarebbe ampiamente condiviso nella penisola: la versione toscana del Liber non solo ne riprende lo schema (iniziando anch’essa dai cavoli) ma aggiunge molti nuovi piatti di verdura, allargando il repertorio delle erbe e delle radici: accanto a cavolo, finocchio, spinaci, bietole e rape compaiono porro e scalogno, zucca e asparagi, borragine e lattuga, navoni e «raponcelli». Gli aggiornamenti accolgono consuetudini territoriali, mostrandoci la concretezza e la rappresentatività di queste cucine «scritte»: il protagonista per eccellenza del Liber napoletano, il cavolo, arretra di fronte alle rape (per le quali si danno molte ricette in più) e al porro: «Togli porri bianchi, a uso di Toscana»2.
La cultura medievale, assai attenta a segnalare le differenze di ceto, mediante codici di comportamento che coinvolgevano in primo luogo i consumi alimentari, identificava senz’altro le verdure come cibi poveri, «contadini»: il fetore dell’aglio, della cipolla e dei porri che un vecchio pellegrino porta nel suo sacco assieme al pane è sufficiente a segnalarne lo stato sociale e a provocare la nausea del monaco Giovanni, affiancatosi a lui sulla via di ritorno da Roma. A questo episodio, riportato da un testo agiografico del X secolo3, cento altri se ne potrebbero affiancare, fino alla novella di Sabadino degli Arienti (XV-XVI secolo) che racconta una beffa giocata dal duca di Ferrara Ercole d’Este ai danni del contadino Bondeno, che presumeva, nientemeno, di essere fatto cavaliere: si fanno dunque i preparativi, ma al momento di scoprire lo scudo con le insegne del nuovo «nobile» ecco apparire, fra squilli di trombe e fra le risate generali, un capo d’aglio in campo azzurro, emblema di un’impossibile promozione sociale. Perché, commenta Sabadino, l’aglio «sempre è cibo rusticano, quantunque alle volte artificiosamente civile se faza, ponendose nel corpo de li arostiti pavari»4. La precisazione lascia intuire un contrasto fra l’ideologia e la pratica, fra i codici alimentari «pensati» – che lasciano l’aglio ai contadini – e gli usi quotidiani, che lo vedono impiegato anche nella cucina di corte. Contrasto forte, che necessita di «segni» altrettanto forti per essere risolto.
Il primo segno è quello prospettato dallo stesso Sabadino: gli accostamenti e le modalità d’uso chiariscono inequivocabilmente la destinazione sociale della vivanda. Il prodotto umile viene nobilitato facendolo partecipe di un diverso sistema gastronomico e simbolico, quale semplice ingrediente – non protagonista – di vivande di pregio. Nel momento in cui l’aglio è conficcato in un papero arrosto, la sua natura contadina «artificiosamente» si modifica. Perciò l’agliata, la salsa a base di aglio pestato nel mortaio, tipica della cucina contadina5, può comparire anche nei ricettari delle classi alte: il libro veneziano del Trecento la propone «a ogni carne»6. Allo stesso modo, la ricetta dei «cavoli delicati ad uso dei signori» contenuta nel Liber de coquina non manca di precisare che essi andranno serviti come contorno delle carni: cum omnibus carnibus7.
La separazione alimentare e gastronomica fra le classi, ribadita con asprezza dalla letteratura e dalla trattatistica, non esclude dunque la presenza di prodotti e sapori «rusticani» nella cucina «civile», fortemente segnata da un «retrogusto» popolare che, pur essendo in qualche modo prevedibile, non manca di stupire per le dimensioni che assume. Nei ricettari di corte trecenteschi colpisce il gran numero di piatti a base di verdure, l’uso sistematico dell’aglio e della cipolla nei condimenti e nei soffritti. Colpisce la semplicità di tante preparazioni, che ben potremmo immaginare sulla tavola di un contadino se non fosse per qualche ingrediente prezioso o per un tocco finale – l’aggiunta di spezie – che immediatamente ci riporta al clima del privilegio economico e sociale. È questo, oltre al gioco degli accostamenti, il secondo segno della nobilitazione. Per esempio: «Togli raponcelli, bene bulliti in acqua, e poni a soffriggere con oglio, cipolla e sale; e quando sono cotti et apparecchiati, mettivi spezie in scudelle»8. Oppure (ricetta toscana della insaleggiata di cipolle): «Togli cipolle; cuocile sotto la bragia, e poi le monda, e tagliale per traverso longhette e sottili: mettili alquanto d’aceto, sale, oglio e spezie, e dà a mangiare»9. Qui, solo le spezie segnalano la differenza. Si veda anche la Torta d’agli del libro veneziano: «Toy li agli e mondali e lessali; quando sono cocti metili a moglio in acqua freda e poy pistali» stemperando con uova e aggiungendo zafferano, formaggio fresco, lardo battuto, spezie dolci e forti, uva passa10.
Tutto ciò implica una base comune di cultura gastronomica, una «trasversalità» sociale – al di là delle opposizioni simboliche – di pratiche e di consuetudini alimentari. La commistione di cose preziose e comuni, la possibilità di scegliere le une o le altre è esplicitamente prevista dal ricettario toscano di fine Trecento, che lascia ogni decisione al gusto del signore: «in ciascuna salsa, savore o brodo, si possono ponere cose preziose, cioè oro, petre preziose, spezie elette, ovvero cardamone, erbe odorifere o comuni, cipolle, porri a tuo volere»11.
Non tutti, però, la pensano allo stesso modo: alla fine del XIV secolo, una versione settentrionale del Liber de coquina sopprime del tutto la parte consacrata alle verdure12. Ed è significativo – fa osservare Rebora – che numerosi elementi della cucina povera entrino «senza riserve» nella cucina di corte – nel Liber, appunto, e nella maggior parte dei suoi epigoni italiani – mentre i ricettari «borghesi» tendono piuttosto a escluderli: certo per la maggiore vicinanza sociale, che provoca un maggior desiderio di distinzione13. In generale, tuttavia, la condivisione di prodotti e sapori è notevole, e va qui sottolineata perché si tratta di un dato tipicamente – anche se non esclusivamente – italiano.
Nel contesto gastronomico europeo, la cucina italiana si segnala fin dal Medioevo per la ricchezza d’impiego dei prodotti dell’orto: non solo le verdure («domestiche, ovvero salvatiche, se d’orti non si potesseno avere»)14 ma le erbe odorose, che regolarmente si affiancano alle preziose spezie: maggiorana e menta (i due profumi caratteristici della cucina italiana medievale e rinascimentale: Scappi, nel Cinquecento, li proporrà con regolarità assoluta in gran parte delle ricette), rosmarino, prezzemol...

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