Le guerre del Barbarossa
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Le guerre del Barbarossa

I comuni contro l'imperatore

Paolo Grillo

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Le guerre del Barbarossa

I comuni contro l'imperatore

Paolo Grillo

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Paolo Grillo si sofferma con precisione da storico e con verve di romanziere su battaglie, papi, sogni bizantini, epidemie, violenze sui civili e mastri costruttori di macchine d'assedio. Bruno Ventavoli, "Tuttolibri" Federico Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero, vuole riacquisire il controllo perduto sul Regno d'Italia per poi assoggettare il Mezzogiorno normanno. Ma durante l'assenza del potere imperiale le città italiane sono cambiate: sono città ricche, militarmente potenti, che pensano a se stesse come collettività di uomini liberi. Quando l'esercito teutonico cala sulla penisola si trova a fronteggiare i comuni italiani. Sarà uno scontro fisico ma anche ideologico tra due società agli antipodi. È la guerra, durata oltre vent'anni – dal 1154 al 1176, prima di giungere a una pace definitiva nel 1183 – che vede Federico Barbarossa tentare di piegare i comuni italiani. Una aristocratica cavalleria teutonica contro masse di fanti comunali appiedati. Un ambizioso progetto di governo universale contro l'autogoverno di città libere. Una società fortemente gerarchizzata contro comunità di uomini eguali in grado di autodeterminarsi.

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Información

Año
2018
ISBN
9788858135044

VI. Guerra di posizione

1. Roncaglia

Ottenuta la resa di Milano, Federico intraprese un’ambiziosa opera di riforma che doveva mutare profondamente i rapporti di potere in Italia. L’11 novembre 1158 venne radunata nella piana di Roncaglia una grande assemblea alla quale vennero convocati tutti i plenipotenziari del Regno, ecclesiastici, nobili e rappresentanti delle città. A loro si aggiunsero quattro esperti di diritto romano, fatti giungere da Bologna, dove la nascente Università si era specializzata negli studi sulla legislazione imperiale classica. Essi non ebbero probabilmente un ruolo decisivo nella definizione delle leggi proclamate a Roncaglia, ma la loro presenza fu determinante dal punto di vista ideologico: la dieta, infatti, riguardava il Regno d’Italia, ma Barbarossa vi operò non da re, ma da imperatore. L’organismo di governo specifico della penisola veniva in tal modo dissolto nella più ampia realtà dell’Impero (nulla di simile, si noti, Federico tentò mai di fare con il Regno teutonico).
Federico, dunque, intendeva governare l’Italia non come re, ma come imperatore. Questo implicava che il suo potere si situava su un livello incommensurabilmente superiore: non solo il sovrano universale era esplicitamente prescelto da Dio, ma si riallacciava a una tradizione di imperatori santi e sacri, quali Costantino il Grande, Giustiniano o lo stesso Carlo Magno (che Federico fece effettivamente canonizzare nel 1165). In questa grande costruzione ideologica aveva un ruolo determinante l’arcivescovo di Colonia, Rainaldo di Dassel, che, quale capo della cancelleria imperiale, sovrintendeva alla redazione di tutti i documenti prodotti da Federico. Sotto la sua guida, a partire dal 1157, nei diplomi si adottò la formula «Sacro Romano Impero», per definire lo Stato, richiamandone esplicitamente il legame con la divinità. Rainaldo era un radicale, convinto della totale supremazia del potere germanico su tutti gli altri, che si trattasse del pontefice o degli altri sovrani europei, che egli nelle sue opere sprezzantemente chiamava «reucci» o «re provinciali». All’inizio della dieta, Federico stesso espresse tale altissimo concetto della maestà imperiale pronunciando un discorso che quasi certamente fu scritto da Rainaldo. Eccone l’incipit:
Poiché è stato stabilito per ordine divino, dal quale discende ogni potere in cielo e in terra, che noi teniamo le redini dell’Impero Romano non senza merito devono essere note le cose che sono pertinenti al mantenimento della sua dignità. Giacché non ignoriamo che questo è uno dei compiti della maestà imperiale, ossia che grazie all’opera della nostra vigilanza e al timore delle pene i malvagi e gli inquieti siano trattenuti e i buoni abbiano sollievo e possano restare in pace e in tranquillità, ecco che vogliamo conoscere quali diritti e quali onori siano stati attribuiti al culmine della regale eccellenza dalle leggi, tanto divine quanto umane20.
Questo potere sacro e supremo aveva dunque delle prerogative ineludibili e inalienabili, le cosiddette «regalie», che costituivano l’«onore dell’Impero», l’honor Imperii. L’esercizio di questi diritti pubblici – gli incarichi di governo, la riscossione di tasse e pedaggi, l’amministrazione della giustizia, la produzione di moneta, l’uso delle acque – spettava esclusivamente al potere sovrano. In realtà Federico era disponibilissimo a concederne l’usufrutto a signori e città in cambio del pagamento di consistenti somme di denaro. Doveva però rimanere ben chiaro che la fonte di tali poteri rimaneva l’imperatore stesso: egli dunque li attribuiva ai suoi fedeli sotto forma di investiture feudali. Secondo un meccanismo che andava affermandosi in tutte le grandi monarchie europee, i vassalli ricevevano la gestione di diritti pubblici quale ricompensa della loro fedeltà verso il sovrano. Tutti i nobili e i cittadini dunque dovevano presentare all’imperatore un giuramento, promettendogli obbedienza e aiuto.
Le istituzioni comunali venivano riconosciute soltanto se accettavano a loro volta di essere investite e legittimate dal sovrano. Le loro capacità di azione venivano drasticamente limitate. In particolare, si proibì di stabilire alleanze intercittadine e si sciolse qualsiasi tipo di patto giurato, anche quelli che legavano fra loro i cives. Insomma, la rivendicazione all’Impero della titolarità di tutte le giurisdizioni disarticolava i rapporti consolidati e scardinava il controllo urbano sul contado, privandolo di legittimazione. La sottomissione dei centri urbani trovava infine una visibile concretizzazione nel fatto che tutte le comunità civiche dovevano mettere a disposizione di Federico un palazzo entro le mura.
Di fatto, le leggi di Roncaglia sconvolgevano profondamente il Regno d’Italia. Il mondo articolato, socialmente aperto e policentrico strutturatosi a cavallo fra XI e XII secolo veniva rimpiazzato da una struttura fortemente gerarchizzata, a capo della quale si poneva un imperatore che si proponeva quale fonte prima e assoluta della legge, soggetto solo a Dio. Certo, nella prassi Federico era disposto a delegare localmente tali poteri e a fare concessioni di volta in volta diverse, ma sempre ribadendo che egli, e non altri (soprattutto il popolo dei liberi cittadini!), rappresentava l’unica radice del potere legittimo. Ancora, assumendo il controllo sui beni pubblici, sui pedaggi e sul fisco, la corte acquisiva un’enorme fonte di reddito. Secondo la testimonianza di Rahewino, a Roncaglia furono stabiliti pagamenti pari a 30.000 lire d’argento l’anno, una somma enorme per gli standard tedeschi, che avrebbe consentito al Barbarossa di porsi nuovi e ancora più ambiziosi obiettivi.

2. La situazione precipita

Terminata la dieta di Roncaglia, l’imperatore si mise all’opera per concretizzare le decisioni prese nell’assemblea. Mentre passava le feste natalizie in Piemonte, ad Alba, egli inviò suoi messi nell’Italia centrale per raccogliere il fodro, attribuì all’Impero i beni appartenuti mezzo secolo prima alla casa di Canossa (aprendo così un nuovo conflitto con il papa, che li rivendicava per sé in base al testamento di Matilde di Canossa) e fece nominare consoli e podestà imperiali in tutte le città lombarde.
In particolare, nonostante il trattato di pace appena concluso, Federico si era comunque adoperato per colpire Milano con un susseguirsi di iniziative che gli abitanti dovevano guardare con crescente preoccupazione. In un primo momento egli indusse i nobili del Seprio e della Martesana (due regioni del contado milanese coincidenti grosso modo l’una con l’attuale provincia di Varese e l’altra con la Brianza) a ribellarsi al governo urbano accettando invece un rettore imperiale; poi insediò a Trezzo una guarnigione teutonica i cui comandanti, Corrado de Monte e Redegerio, incominciarono a molestare i cittadini che possedevano terre nella regione dell’Adda; infine, nel gennaio del 1159, inviò a Milano una delegazione capeggiata dallo stesso Rainaldo di Dassel per nominarvi un podestà tedesco al posto dei consoli. Questo atto, coerente con le decisioni di Roncaglia, era però una clamorosa violazione di quanto lo stesso Federico aveva garantito pochi mesi prima in occasione della resa del comune: la popolazione dunque si rifiutò di accogliere un governante esterno e aggredì i messi imperiali.
La vicenda è raccontata con una certa verve da Vincenzo da Praga, che si trovò coinvolto nel tumulto, al quale conviene lasciare la parola, per gustarne l’efficacia narrativa:
I milanesi risposero di non poter fare ciò che chiedevamo loro, ma piuttosto promisero che si sarebbero attenuti al privilegio imperiale che io, Vincenzo, avevo scritto a nome dell’imperatore e del re di Boemia, cioè che essi avrebbero liberamente eletto i consoli che volevano e che gli eletti si sarebbero presentati all’imperatore o a un suo rappresentante per giurare fedeltà. Di contro, i nunzi imperiali replicarono che essi stessi a Roncaglia avevano dato consiglio all’imperatore di nominare podestà a suo nome in tutte le città della Lombardia; si attenessero dunque a tale consiglio: essi scegliessero chi volevano, li chiamassero a piacere consoli o podestà, ma accettassero che fossero eletti dai nunzi imperiali. Quando questa decisione fu annunciata al popolo e agli altri, radunati nel monastero di Santa Maria Vergine, subito si levò un clamore «fora! fora! mora! mora!», che nel loro dialetto vuol dire «li si tiri fuori e muoiano!». Noi sbarrammo le porte del palazzo, ma essi tiravano pietre attraverso le finestre. Finalmente giunsero i loro consoli, che calmarono il popolo e sedarono il tumulto21.
I messi imperiali ovviamente lasciarono la città il più rapidamente possibile, senza avere ottenuto alcun risultato.
L’imperatore al momento non era però intenzionato a colpire di nuovo Milano e, dopo aver fatto sosta a Como, si mosse a sud-est, verso la Romagna. Egli celebrò la Pasqua a Modena e si diresse poi a Bologna. Qui, però, lo raggiunsero cattive notizie: con un colpo di mano, infatti, i milanesi avevano assalito Trezzo e dopo un breve assedio avevano costretto alla resa la guarnigione teutonica, composta da un centinaio di cavalieri, di cui una ventina caddero durante i combattimenti assieme a numerosi alleati lombardi. Il castello fu poi distrutto e abbandonato. Federico dovette tornare indietro, ma egli impiegò un certo tempo per ripiegare sui suoi passi.
Quando l’imperatore giunse a Lodi, Milano e le sue alleate erano all’offensiva su tutti i fronti. Un’incursione dimostrativa nel territorio milanese, effettuata il 18 maggio, non portò ad alcun risultato. Mentre Federico sostava a Pavia, gli avversari si ritennero abbastanza forti da tentare un nuovo attacco a Lodi. L’11 giugno essi effettuarono una manovra a tenaglia, muovendo all’assalto da ovest, mentre i cremaschi aggredivano Lodi da est, ma la resistenza dei lodigiani fu tale da scoraggiare gli aggressori, che dopo poche ore di combattimenti si ritirarono. I bresciani a loro volta condussero una pesante offensiva contro il territorio di Cremona, anche se la reazione dei cremonesi fu veemente e portò alla cattura di alcune decine di cavalieri avversari.

3. La battaglia di Landriano

Nelle pagine dei cronisti contemporanei che narrano le operazioni militari degli anni 1159-1160, la sequenza degli eventi appare totalmente caotica e disordinata. Per tentare di ricostruire la logica che guidava le azioni dei due avversari è necessario cercare di comprenderne i reciproci atteggiamenti strategici. In primo luogo è dunque opportuno analizzare il comportamento dell’imperatore e dei suoi alleati.
Il Barbarossa non poteva puntare direttamente alla conquista di Milano. L’impresa si era già rivelata problematica l’anno precedente, quando l’imperatore aveva a disposizione parecchie migliaia di cavalieri teutonici, tanto più sarebbe stata impossibile ora che con lui era rimasta solo una frazione di quella immensa forza. Bisognava puntare invece su una strategia di logoramento, utilizzando al meglio le truppe dei comuni alleati per limitare la libertà di azione dei nemici, favorire le aspirazioni autonomistiche della nobiltà signorile del Seprio e della Brianza e preparare il terreno per quando, richiamati nuovi rinforzi dalla Germania, sarebbe stato possibile sferrare il colpo finale.
In questa prospettiva, il primo obiettivo delle operazioni imperiali divenne la conquista del grosso borgo di Crema, che, originariamente sottoposto all’autorità di Cremona, si era reso di fatto indipendente grazie all’appoggio politico e militare di Milano. I cremonesi avevano fatto forti pressioni in favore dell’attacco a Crema, dato che avrebbe favorito la loro ambizione di sottomettere tutto il territorio fra Adda e Serio, comunemente noto come Isola Fulcheria: a tal fine essi si impegnarono a versare una fortissima somma a Federico, ammontante, a seconda delle fonti, a 11.000 o 15.000 lire. L’imperatore aderì prontamente alla proposta, dato che l’eventuale conquista del borgo avrebbe avuto anche un grosso rilievo strategico: in tal modo infatti si sarebbero tagliati tutti i collegamenti fra Milano e la sua fedele alleata Brescia.
Per poter operare senza rischi contro Crema, occorreva però neutralizzare almeno momentaneamente il rischio di contrattacchi milanesi. A tal fine, Federico organizzò una complessa operazione, che rappresenta un bell’esempio di come non fosse affatto vero che nel Medioevo i comandanti rifuggissero le battaglie o le affrontassero solo quando, casualmente, due eserciti venivano a cozzare fra loro. Il Barbarossa infatti cercò esplicitamente di attirare i milanesi fuori dalle mura al fine di infliggere loro una sconfitta determinante, che impedisse loro di soccorrere efficacemente Crema.
Il 13 luglio, Federico con 300 cavalieri tedeschi e altri rinforzi lodigiani prese posizione nei pressi del villaggio di Landriano, a sud di Milano. Qui fu raggiunto dai militi di Pavia. Un centinaio fra questi ultimi si mosse verso Milano, devastando le campagne e uccidendo gli sventurati contadini che incontravano sul loro cammino. Il loro compito era provocare i difensori cittadini e farsi inseguire fino a Landriano, portandoli così nelle braccia di Federico e dei suoi uomini. Come previsto, i milanesi inviarono una parte consistente della loro cavalleria a fronteggiare gli aggressori, che si ritirarono tentando di condurli verso il resto delle truppe imperiali in agguato.
Inizialmente il piano non funzionò: vuoi che i pavesi si fossero spinti troppo avanti, vuoi che la reazione milanese fosse stata più rapida e veemente del previsto, i cento aggressori furono circondati e si videro tagliata la strada della ritirata: tentarono allora di sganciarsi verso Pavia percorrendo una via che non passava da Landriano. Privo di notizie, Federico inviò in esplorazione il resto del contingente pavese, che era appostato con lui. Costoro riuscirono a intercettare i milanesi, ma vennero a loro volta sconfitti e messi in fuga. Si mosse allora Federico in persona, che piombò di sorpresa sul reparto ambrosiano ormai sulla via del ritorno. Le sorti dello scontro così si capovolsero: i tedeschi erano freschi e organizzati, mentre i milanesi venivano da due combattimenti precedenti ed erano stanchi e probabilmente sbandati. Rapidamente dispersi, secondo la testimonianza di Ottone Morena lasciarono nelle mani dei nemici 300 uomini e 400 cavalli.
L’operazione era stata estremamente confusa e aveva rischiato di concludersi con un clamoroso insuccesso, ma alla fine l’obiettivo strategico preventivato fu raggiunto. Per ottenere un risultato positivo fu decisiva la supremazia numerica degli imperiali, grazie alla quale essi poterono condurre ben tre attacchi differenti, unita allo spirito di iniziativa di Federico, che non esitò a gettare in campo le sue truppe anche dopo aver constatato il fallimento dell’agguato.
Curiosamente, la battaglia di Landriano è stata praticamente dimenticata dagli studiosi contemporanei, che ne parlano di norma come di una scaramuccia. Lo scontro vide invece impegnati un migliaio e più di cavalieri per parte, cifre sufficienti a renderla paragonabile a molti dei grandi affrontamenti combattuti all’epoca in Europa. Lo stesso Federico fu conscio della portata del suo successo e si affrettò a darne notizia ai principi tedeschi con una lettera che, gonfiando un po’ le cifre, riferiva che
Dio ha posto nelle nostre mani un’immensa moltitudine di milanesi, cosicché il 15 di luglio abbiamo catturato 600 dei loro e almeno 150 sono rimasti uccisi nei campi o ai bordi delle strade e non possiamo contare quelli annegati e feriti. Dopo la vittoria siamo ritornati a Lodi Nuova22.
Per i milanesi il colpo fu durissimo, dato che le perdite furono estremamente pesanti. Forse il 20% della cavalleria cittadina era caduto in mani imperiali e non meno difficile da colmare doveva essere la mancanza di 400 cavalli da guerra. Per svariati mesi, la città non fu più in grado di condurre operazioni offensive. Federico ora poteva dedicarsi all’assedio di Crema senza il timore che i suoi nemici ne approfittassero per attaccarlo alle spalle o aggredire settori rimasti sguarniti.

4. L’assedio di Crema

Dopo la vittoria di Landriano, dunque, il Barbarossa, che fino ad allora era rimasto a Lodi, pronto a reagire ad eventuali attacchi milanesi, poté portarsi con tutte le sue forze all’assedio della cittadina, dove per il momento le operazioni, a dir poco, languivano. I cremonesi, da soli, non avevano infatti prodotto un grande sforzo e si erano limitati ad arruolare una banda di briganti, detti per scherno «figli di Arnaldo», forse con un riferimento al predicatore fatto ardere da Federico quattro anni prima. Essi, armati approssimativamente con pietre e roncole, avevano corso le campagne intorno al borgo per spaventare i contadini. Ben più efficaci, i milanesi avevano inviato a Crema un forte contingente di 400 fanti e alcune decine di cavalieri, guidati dal console Manfredo di Dugnano, che dovevano contribuire non poco alla difesa delle mura.
Crema, tecnicamente, non era una città, dato che soltanto le sedi episcop...

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