Senza attraversare le frontiere
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Senza attraversare le frontiere

Le migrazioni interne dall'Unità a oggi

Stefano Gallo

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Senza attraversare le frontiere

Le migrazioni interne dall'Unità a oggi

Stefano Gallo

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La prima narrazione complessiva delle migrazioni interne al nostro paese, dall'Unità all'inizio del Terzo Millennio.Stefano Gallo racconta i mutamenti economici tra aree forti e aree deboli (città/campagna, Nord/Sud); indaga i soggetti e le norme che hanno riguardato la mobilità (anagrafe, prefetti, uffici del lavoro, enti ministeriali); spiega quali sono stati gli interventi dei comuni nel limitare l'accesso alla residenza legale e i progetti statali per trasferire le famiglie rurali nelle colonie.Una ricerca a tutto campo per evidenziare anche gli elementi in comune fra le migrazioni del secolo scorso e i flussi migratori odierni.

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Información

Año
2012
ISBN
9788858103593
Categoría
History

1. Mobilità interne, espatri e rientri

L’età liberale, per gli italiani, è stato il periodo della Grande Emigrazione. Negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il ritmo delle partenze verso l’estero, soprattutto in direzione del continente americano, assunse una intensità impressionante, provocando lo stupore (e spesso anche la preoccupazione) dell’opinione pubblica e dei ceti dirigenti. Il flusso delle persone che lasciavano la penisola triplicò nel corso dell’ultimo quarto del secolo, facendo pensare a una vera e propria emorragia: le 544.000 partenze del quinquennio 1876-1880 erano diventate oltre un milione e mezzo nell’ultimo lustro, tra 1896 e 1900. E continuarono ad aumentare. Nel 1912, in uno studio che faceva il punto dei cinquant’anni trascorsi dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, l’economista Francesco Coletti stilava un bilancio dai toni celebrativi: ciò che da molti era considerata una perdita netta per la nazione era in realtà un arricchimento, sosteneva Coletti. Chi partiva manteneva saldi i legami con la patria, come dimostravano le rimesse e gli alti tassi di rientro: di fronte alle molte insufficienze statali, grazie all’emigrazione si stava innalzando l’alfabetizzazione, il tasso di criminalità diminuiva, miglioravano le qualità fisiche degli italiani[25]. Come fossero stati incoraggiati da queste riflessioni, poco dopo, nel 1913, gli espatri raggiunsero la quota più alta mai registrata nella storia dello Stato italiano: in un solo anno vennero contati 827.598 emigrati, ovvero una quantità di persone maggiore di quelle che ospitava all’epoca il comune di Milano. Si trattò di un exploit non eguagliato in seguito.
Un tale fenomeno fu dovuto soprattutto alle grandi difficoltà attraversate in quegli anni dal comparto agricolo: difficoltà che rendevano la popolazione rurale estremamente sensibile al richiamo delle Americhe, dove dalla metà degli anni Ottanta si diresse la maggior parte dei flussi degli emigranti, partiti per lo più con l’idea di ritornare in patria ma destinati spesso a rimanere in pianta stabile all’estero. Ma anche mete più vicine, come l’Europa continentale, o più lontane, come l’Oceania, furono raggiunte da quantità di persone mai registrate prima. La disponibilità di trasporti a basso costo, fattore di assoluta novità rispetto al passato, rese accessibili in quegli anni luoghi lontani migliaia di chilometri, anche per chi non vantava redditi elevati[26]; inoltre un ciclo economico internazionale di espansione (in particolare negli investimenti per le infrastrutture) provocò una domanda enorme di manodopera scarsamente qualificata, pronta a spostarsi e a vivere in condizioni difficili pur di mettere da parte qualche soldo. I lavoratori italiani e cinesi, ha ricordato la storica statunitense Donna Gabaccia, furono tra i principali artefici (in quanto esecutori materiali) di questa stagione di avvicinamento tra i vari punti del globo, protagonisti di una tappa cruciale nel processo di formazione di un unico mercato mondiale, di una «globalizzazione del lavoro» che ha ripreso vigore negli ultimi decenni, fino a diventare un argomento estremamente dibattuto ai giorni nostri[27]. Ma non erano solo le ‘braccia’ a lasciare l’Italia: si sparpagliava per il globo alla ricerca di occasioni di profitto anche una piccola e irrequieta imprenditoria di self-made-men che avrebbe incontrato in America Latina gli esiti più gratificanti della sua intraprendenza: l’Italia, disse Luigi Einaudi, dopo secoli di decadenza stava conoscendo una nuova fase di espansionismo commerciale, grazie all’impulso dei suoi ‘principi mercanti’[28]. Si tratta di un aspetto importante: gli spostamenti ebbero dei protagonisti riconducibili a una larga varietà di tipologie sociali, e non collocabili solo in singoli gruppi o classi. Questo vale, lo vedremo, per l’estero come per l’interno.
Intanto in Italia si assisteva allo spopolamento di interi villaggi, e non solo; le partenze e i rientri continui di migliaia di persone stavano provocando mutamenti profondi nei rapporti sociali e nei quadri mentali della società. Fu soprattutto nel Mezzogiorno che il fenomeno assunse i caratteri più evidenti. Francesco Saverio Nitti, studioso e politico estremamente sensibile all’argomento, arrivò a sostenere che era impensabile descrivere la situazione sociale delle campagne meridionali senza fare riferimento a un prima e a un dopo la Grande Emigrazione, come per indicare uno strappo irrecuperabile, una vera e propria faglia nella storia del giovane Stato italiano. Dopo l’emigrazione, ad esempio, poteva succedere che le vicende politiche estere fossero molto più seguite rispetto a quelle nazionali: nel 1908, quando il candidato repubblicano William Howard Taft vinse le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, in molti paesi della Basilicata si fecero grandi feste con bande musicali, luminarie e fuochi d’artificio, poiché era considerato un politico vicino alla causa degli emigrati italiani. L’episodio confermava un distacco significativo tra popolo e governo: «qualunque avvenimento relativo a un personaggio politico italiano non avrebbe mai prodotto un simile entusiasmo», fu il commento di Nitti, scritto con l’amaro in bocca[29].
Esaltare nella Grande Emigrazione una frattura senza precedenti, creatasi all’improvviso, faceva ben comprendere agli italiani il carattere di irruenza che il fenomeno migratorio aveva assunto nel Sud. In maniera leggermente diversa erano andate le cose nel Centro-nord, dove, a esclusione del Veneto, le partenze avevano cominciato a prendere quota qualche anno prima ed erano seguite da un maggior numero di rientri, grazie anche al più importante ruolo giocato dalle destinazioni europee. In ogni caso si trattava di un evento grandioso, incontrollabile, dagli esiti imprevedibili, che tante conseguenze avrebbe avuto in avvenire per lo Stato italiano. Difficile dunque non rimanerne profondamente colpiti, non concepirne la vicenda in termini di rottura, non definirla come un fenomeno a seguito del quale tutto sarebbe stato diverso da prima.
Una simile impostazione rischia però di concentrare l’attenzione su questo cambiamento epocale lasciando nell’ombra ciò che cade al di fuori del fascio di luce principale; si possono perdere così per strada i legami con forme di mobilità meno appariscenti, ma più antiche e diffuse: in breve, di guardare solo al nuovo senza occuparsi di quello che c’era già. Il rapporto tra continuità e rottura è uno dei temi di dibattito più ricorrenti tra gli storici, proprio per i problemi che implica per una corretta valutazione dei fenomeni. In questo caso, a rimanere offuscati dalle luci delle navi transatlantiche o dai fari dei treni che portavano in Europa sarebbero i flussi migratori interni ai confini statali, tutt’altro che trascurabili per il periodo liberale, ma anche per i decenni precedenti l’Unità. Deve essere chiaro che la Grande Emigrazione non irruppe sulla scena di una società immobile, statica. Tutt’altro.
Nel corso del XIX secolo gli spostamenti di popolazione avevano riguardato soprattutto le migrazioni interne, rurali e periodiche; le rotte delle migrazioni erano contenute principalmente nelle campagne e nei boschi italiani. La grande maggioranza degli itinerari prendeva avvio e si svolgeva al di fuori delle mura cittadine, con movimenti, talvolta anche di massa, che seguivano il respiro dei lavori legati ai cicli della natura. L’attività principale della popolazione della penisola era legata ai prodotti della terra, e il lavoro agricolo, lo ha ricordato Piero Bevilacqua, «era per eccellenza un lavoro migrante»[30]. Ciò risultava particolarmente vero per i sistemi agrari italiani, in cui spesso le abitazioni dei contadini non si trovavano vicino ai campi, ma ne erano lontane ore e ore di cammino. La distanza tra casa e lavoro non era determinata dalla maggiore comodità di spostamento del lavoratore, ma da altre ragioni, come la sicurezza dalle malattie (la malaria prima di tutto) o dalle aggressioni, e la concentrazione in poche mani delle terre più fertili. Inoltre, in determinati momenti della stagione i bisogni del raccolto o delle lavorazioni agricole richiamavano grandi quantità di persone, per compiti da svolgersi in maniera puntuale e veloce. «I contadini hanno imparato quali sono i luoghi e le epoche in cui vi è bisogno dell’opera loro, e vi si recano a gruppi, sicuri di trovarvi lavoro. Partono portando la provvista di pane d’orzo, il loro cibo abituale; vivono frugalissimamente e ritornano con economie non piccole, che costituiscono l’entrata più rilevante del loro bilancio», si poteva leggere nei resoconti dell’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nel Mezzogiorno, svolta all’inizio del Novecento[31]; e ancora: «il lavoro della mietitura è faticoso, più che per l’atto stesso, per la rapidità e l’intensità con cui dev’esser compiuto. Le messi mature non possono restare molto tempo in piedi; ed anche i contadini hanno interesse a far presto per correre da altri padroni»[32]. Simmetricamente, nei momenti dell’anno di scarsa attività agricola, la manodopera si poteva rivolgere altrove, e offrire all’industria una forza lavoro a bassissimo costo, proprio per il carattere integrativo del salario richiesto. Se l’occasione di sbocchi migratori fuori dai confini statali fu colta con tanta rapidità e prontezza, soprattutto dai rurali italiani, tale da lasciare stupefatti gli osservatori, ciò avvenne grazie soprattutto a questa cultura della mobilità, a un animus migrandi estremamente sviluppato nell’Italia dell’epoca, le cui cause risiedevano in un peculiare rapporto tra l’uomo e la terra.
«3/4 dell’emigrazione resta in paese e 1/4 soltanto espatria». Questa era la stima che il censimento della popolazione del 1861, promosso in tutta fretta dal nuovo governo italiano, dava circa i rapporti numerici tra le persone che partivano per rimanere all’interno dei confini statali, e quelle che invece si dirigevano in terre straniere: ogni anno circa 185.000 cittadini italiani si guadagnavano da vivere grazie al ricorso agli spostamenti periodici, di cui più di 140.000 rivolti all’interno dei confini[33]. Anche le stime più accurate degli espatri disponibili per l’epoca, quelle di Leone Carpi, che valutavano una media di circa 121.000 emigrazioni dirette all’estero ogni anno tra il 1861 e il 1870, ammettevano la maggiore consistenza dei flussi rivolti all’interno. Insomma, ben prima della Grande Emigrazione, per tutta l’Italia era un brulicare di spostamenti interni, un mettersi in cammino scandito dalle stagioni e dal calendario agricolo, un esodo ripetuto ogni anno. Un quadro di turbolenza migratoria, se pur con i suoi equilibri, caratterizzato da un ampio ventaglio di tipologie di spostamenti. La prima indagine fatta in territorio italiano su questo fenomeno, eseguita durante il periodo napoleonico per evitare che gli uomini sfuggissero alla coscrizione obbligatoria, aveva già dato un’idea all’amministrazione francese circa i tipi di lavori che decine di migliaia di persone, il popolo delle campagne, svolgevano fuori dal luogo di abitazione. Tra i vari dipartimenti che dividevano il territorio del Centro-nord della penisola si verificavano ogni anno richiami incrociati di lavoratori, a seconda dei bisogni produttivi. In primo luogo, le attività legate alle coltivazioni agricole (soprattutto riso e grano) e alla pastorizia, poi quelle che sfruttavano le risorse del bosco (legna e carbone) e quelle dipendenti dall’edilizia e dalle costruzioni pubbliche (strade e fortificazioni). Esisteva infine, ed è stato il demografo Carlo Corsini a metterlo in evidenza nel primo studio condotto sull’argomento, «una folla eterogenea di piccoli artigiani, manifattori e commercianti che si muovono al seguito delle correnti maggiori, o che seguono proprie vie»[34]. Il ruolo di queste figure professionali sarebbe stato poi approfondito da una serie di ricerche che hanno raccontato l’autonomia dei percorsi migratori e l’importanza dei lavoratori specializzati e dei vari ‘centomestieri’ (tra cui venditori ambulanti, falegnami, figurinai, suonatori) per il mantenimento delle precarie economie montane. Ma il discorso è valido anche per le altitudini minori, per altri tipi di comunità. «Ciascun paese possiede, a così dire, tra gli emigranti una specialità industriale; ciascun’arte ha una sua propria tradizione. Gli stessi luoghi conservano e tramandano le loro professioni, ed i figli succedono ai padri nelle loro manualità». Così nel 1866 l’ufficio statistico del Ministero dell’agricoltura spiegava l’esistenza per le strade italiane di figure professionali legate a un dato ambito territoriale, come gli spazzacamini e i fonditori di stagno valdostani e della Val d’Ossola, i muratori e i vetrai di Como, gli arginatori e i marraioli genovesi, i fabbri calabresi e siciliani[35]. Le specializzazioni riguardavano anche il mercato del lavoro agricolo: per esempio, tra i braccianti che si recavano nelle campagne romane vi erano delle differenze che potevano essere collegate alle varie zone di provenienza. Lo notava il prefetto di Roma nel 1889: «ognuna di queste regioni dà una specie diversa di lavoratori: così gli Abruzzi forniscono operai adatti alle lavorazioni di terre come forme, scassi, arginature, ed inoltre alla coltivazione dei grani etc... La Toscana dà potatori di olivi, taglialegna e carbonai. Le Marche falciatori di fieni»[36]. La corrispondenza tra una determinata abilità professionale e una località geografica è poi passata nella lingua italiana, che ne ha conservato il significato tramandando un frammento di tempi passati: si utilizza ancora il termine «norcino» per indicare colui che si occupa di insaccare la carne di maiale, che si tratti o meno di un umbro, e gli addetti alle mucche da latte vengono chiamati «bergamini», anche se oggi le aziende, soprattutto nel Nord, utilizzano prevalentemente lavoratori provenienti dal subcontinente indiano.
Uomini e donne pronti a manovrare la carriola o la falce, pastori, lavoratori specializzati in attività artigianali o interventi agricoli, sapevano dove svolgere le proprie opere a chilometri di distanza da casa, per cercare un’integrazione al reddito. Oltre a quei movimenti che si svolgevano, per così dire, tra le campagne e le campagne, avevano luogo anche significativi trasferimenti di popolazioni urbane, legati alle dinamiche di assestamento di una rete di città investite da importanti cambiamenti di tipo politico e amministrativo, specialmente quelli conseguenti al processo di unificazione; gli spostamenti di élites possidenti e imprenditrici, così come quelli di gruppi di lavoratori specializzati, erano decisivi nello sviluppo dei centri urbani e delle economie locali. Cruciale, e portatore di ulteriori sviluppi negli anni a venire, era soprattutto il rapporto tra le città e il loro circondario: ogni centro aveva a disposizione un bacino demografico allargato, cui fare ricorso in caso di bisogno temporaneo di braccia. Un vasto settore di popolazione mobile nelle città era in parte costituito da persone ‘di fuori’ che prestavano i propri servizi per i ceti urbani (come le domestiche o i facchini) e nei lavori a bassa qualificazione (nell’edilizia o nei cantieri per gli impianti urbani), per integrare il reddito familiare. Nella Venezia del 1869, più di un quinto degli abitanti risultavano per le autorità cittadine dei forestieri, avventizi che per una ragione o per l’altra vivevano periodi della loro vita nel centro lagunare[37].
Un discorso analogo, pur nel...

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