Vita e morte nel Terzo Reich
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Vita e morte nel Terzo Reich

Peter Fritzsche, Marco Cupellaro

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  1. 350 páginas
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Vita e morte nel Terzo Reich

Peter Fritzsche, Marco Cupellaro

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«Nuotare controcorrente non fa che peggiorare le cose»: fu la disincantata conclusione di uno degli anonimi testimoni ai quali queste pagine restituiscono la voce. Peter Fritzsche affronta il complesso tema del rapporto tra il nazismo e i tedeschi. In che modo il regime hitleriano stimolò i tedeschi ad agire come unità etnica cosciente di sé? Fino a che punto essi divennero, sia pure in maniera non sempre lineare, consapevoli nazisti capaci di compiere scelte intenzionali anche al di là dei limiti imposti dalle convenzioni morali? Federico Trocini, "L'Indice"

Un'opera che identifica i passaggi cruciali attraverso i quali i tedeschi introiettarono l'anatema antisemita e lo declinarono nei termini di un'esigenza salvifica, capace di giustificare pressoché tutto. Claudio Vercelli, "il manifesto"

Peter Fritzsche scruta la vita privata dei tedeschi, ne esamina le lettere, i diari, le conversazioni. Scopre i loro diversi punti di vista, il desiderio, il fascino e lo sgomento con cui affrontarono la rivoluzione nazista. Questo è l'agghiacciante racconto, magistralmente narrato, delle vicende di un regime che intendeva ricostituire una nazione e che, nel corso di questo processo, trasformò l'Europa in un campo di sterminio.

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Información

Año
2018
ISBN
9788858134412

IV.
Intima consapevolezza

Stazione ferroviaria

«Ancora una volta sul treno, e attorno a me le vite difficili di tutta questa gente! La coppia con bambini sfolla da Colonia, il marito è tornato dall’Africa in licenza e attende sul binario, a Kassel. Vicino a lui un soldato che ha perso la vista, diretto alla Scuola per ciechi di Marburgo, fuma avidamente la sigaretta che gli ha messo in bocca il compagno. Poi un soldato alto e grasso sulle grucce, senza scarpe e con i piedi fasciati, le dita amputate per congelamento. Vicino a lui due soldati che vengono dalle parti di Vjazma; in viaggio da una settimana, le rispettive case a Colonia sono andate a fuoco e le loro famiglie non hanno più un tetto sulla testa. Bambini dalle città dell’ovest sfollati in campagna. Giovani hitleriani, chiamati a un campo di addestramento militare, intenti a leggere manuali sull’uso di un mitra. Un ufficiale delle Ss appisolato vicino alla sua sposa diletta. Un ucraino in viaggio da dodici giorni per tornare nella sua terra in cerca dei parenti non riesce a tornarci – operazioni sul terreno, guerra partigiana. È sfinito, snervato, muore di fame; lavora in una fabbrica di munizioni»1.
La giornalista Lisa de Boor abbozzava così una scena della mobilitazione che vedeva ovunque attorno a sé. Dall’osservatorio di un treno locale in arrivo alla stazione di Marburgo, nel marzo del 1943, la guerra aveva inseguito le persone da un posto all’altro, in tutto l’impero. Dentro e fuori delle stazioni ferroviarie, reclute della Gioventù hitleriana e del Servizio del lavoro dirette a campi di addestramento. Andirivieni di soldati in licenza. Era un viaggio lungo, visto che ormai la Germania era tanto grande. Quando Willi Reese tornava al fronte – «ódz´, Varsavia, Orsha, Smolensk» – quasi mai era sobrio: «Bevevo giorno e notte: brandy, vodka, gin». Durante il viaggio il giovane incrociava treni-ambulanza diretti a ovest. Mentre la guerra andava a rilento, accadeva sempre più spesso ai civili di incontrare soldati feriti. I danni provocati dalla guerra appena un mese dopo la sconfitta di Stalingrado erano facilmente riconoscibili anche nel movimento di profughi: in questo caso, famiglie sfollate dalla città di Colonia, che nel maggio 1942 aveva subito un primo attacco di mille bombardieri ed era un bersaglio di primaria importanza, sebbene gli attacchi aerei più gravi alle città tedesche dovessero ancora arrivare. Mentre qualcuno tentava di tornare a casa per ritrovare i suoi familiari, l’organizzazione del partito fece sfollare migliaia di bambini inviandoli al sicuro nelle campagne. Durante gli anni di guerra la grande maggioranza dei tedeschi si spostò, dando vita a quella che Goebbels definì una «rotazione colossale della popolazione tedesca»2.
Nello stesso tempo, la Germania nazista aveva sempre più bisogno di lavoratori stranieri: alla metà del 1944 in totale erano 7,6 milioni, per la maggior parte fatti prigionieri in Polonia e in Unione sovietica e spediti in treno a lavorare come schiavi negli impianti industriali e sui terreni agricoli dell’impero. La maggioranza di questi lavoratori, che durante la guerra rappresentarono circa un quarto del totale della forza-lavoro nella Germania, lavorava in condizioni terribili, spesso sotto sorveglianza armata e con razioni alimentari insufficienti. Essi turbavano gli osservatori, che non sempre si accorgevano della loro condizione di schiavitù. Molti di loro la domenica erano liberi e girovagavano attorno alle stazioni ferroviarie e alle taverne. «Francesi, polacchi, ucraini, ragazze comprese, si accalcavano davanti alla stazione centrale. Sporchi, tremanti, quasi sempre senza giacca, le ragazze in abito estivo e foulard»: così li descriveva de Boor. «Un senso di tristezza infinita grava su queste persone che vivono tanto lontano da casa»3.
Vai e vieni. Per molti versi la mobilitazione della nuova organizzazione sociale che i nazisti aspiravano a creare si esprimeva nelle stazioni, che collegavano le persone con i campi e con il fronte ed erano punto d’arrivo e di partenza per migliaia di deportati ebrei e polacchi, di prigionieri, di lavoratori stranieri e di Volks­deutschen provenienti dall’est. La Reichsbahn portò verso la morte più di tre milioni di ebrei. I treni rappresentavano il punto di partenza dal noto all’ignoto. Come ha ricordato Primo Levi, «quasi sempre, all’inizio della sequenza del ricordo, sta il treno [...]»4. Treni e stazioni offrivano sia ai tedeschi che alle loro vittime degli scorci spaventosi sui diversi ambiti di vita e di morte nel Terzo Reich.
All’inizio della guerra, nel gennaio del 1940, il «bardo» delle Ss Hanns Johst si trovava alla stazione di Friedrichstrasse a Berlino, diretto agli avamposti dell’impero tedesco, e descriveva con versi trionfali varie «Scene di guerra»:
Treni in arrivo dal fronte occidentale...
Treni diretti a est...
Treni diretti a ovest...
Treni in arrivo dalla Polonia...
Senza interruzione... giorno e notte...
Un battito d’acciaio trascina i treni, uno dopo l’altro, in questa fragorosa rimessa...
Spinge i treni fuori, uno dopo l’altro, verso i fronti...
verso i fronti di ieri... verso i fronti di domani...
Soldati che scendono... soldati che salgono...5.
A quel tempo, però, le stazioni ferroviarie iniziavano ad andare in rovina per lo sforzo della guerra. Le esigenze della mobilitazione bellica mandavano in frantumi gli orari, e per i civili le attese erano più lunghe e i treni più affollati. «Tre ore di attesa» a Kassel lasciarono i viaggiatori «annoiati, ingrigiti, depressi». Persino i treni locali erano pieni fino all’ultimo posto; i bagagli ingombravano i corridoi. «Gli scompartimenti sono sudici, i sedili a brandelli, i finestrini arrugginiti», sintetizzava un visitatore svizzero nel suo reportage di guerra sulla «Germania segreta». René Schindler notava anche gli scomodi incontri che si facevano nelle stazioni: «si sente parlare in qualsiasi dialetto tedesco, e spesso in italiano e in francese; persino i Balcani sono rappresentati». Le conversazioni tra estranei vertevano sulla guerra e coinvolgevano anche i lavoratori stranieri come l’ucraino diretto a Marburgo. «La gente conversa ovunque, per strada, nei negozi, alla stazione», scriveva Lisa de Boor, «e dice che non si può più andare avanti ‘così’». Ma la guerra andò avanti proprio «così». «Bollettini sulle vittime, attacchi aerei, spavento mortale, fuga in campagna, paura del domani e del dopodomani: sono questi i temi delle conversazioni»6.
Tuttavia, nella primavera del 1943 si parlava ormai sempre meno degli ebrei tedeschi, e ancor meno li si incontrava nelle stazioni. Se dopo Stalingrado le sorti della guerra non fossero andate tanto male per la Germania, le vittime dei campi di sterminio sarebbero rimaste per sempre invisibili. Invece, le privazioni della guerra fecero scoprire i prigionieri non ebrei e i lavoratori stranieri al servizio del Reich in via di sgretolamento. I bombardamenti aerei portarono direttamente nelle città tedesche i siti satellite collegati ai principali campi di concentramento: intere brigate di prigionieri lavoravano sotto sorveglianza come vetrai, conciatetti e addetti ai lavori più umili di riparazione dei danni causati nelle città dai bombardamenti. Il campo di concentramento di Sachsenhausen inviò a Düsseldorf una brigata di 600 lavoratori e a Duisburg una di 400; Neuengamme fornì a Brema 750 uomini e a Osnabrück 250, mentre Buchenwald mise a disposizione di Colonia 1.000 lavoratori. Gli uomini erano prigionieri di guerra o politici, lavoravano dodici ore al giorno sette giorni su sette e dormivano in prigioni temporanee, spesso nel bel mezzo dei quartieri, visibili dalle case e dalle scuole. I civili tedeschi diffidavano di questi prigionieri in divisa e li scambiavano per criminali. Salutavano solo gli uomini delle Ss che li sorvegliavano, e solo gli operai belgi e francesi offrivano ai prigionieri dolci o sigarette. Nella sola Monaco esistevano 120 campi di lavoro per prigionieri di guerra e 268 per lavoratori stranieri; a Düsseldorf i campi erano in totale 155; a Berlino ce n’erano almeno 6667.
La francese Charlotte Delbo, prigioniera politica francese ad Auschwitz, ha narrato il viaggio che fece nel 1944 attraversando le stazioni ferroviarie della Germania in guerra. Non ebrea, con preparazione scientifica, ebbe la fortuna di essere trasferita da ­Ausch­witz a Ravensbrück per essere utilizzata in una stazione agronomica. Poiché il trasferimento riguardava solo qualche decina di prigionieri, il gruppo viaggiò sotto vigilanza su un treno normale. Attraversando diverse città, Delbo vide spesso all’opera, nelle vicinanze delle stazioni, brigate di lavoratori stranieri, ed entrando a Berlino vide le rovine della città. «Avvertimmo esattamente la stessa soddisfazione che avevamo vissuto spesso ad ­Ausch­witz quando vedevamo passare treni-ospedale interminabili, con una grande croce rossa dipinta sul tetto bianco, provenienti da est con il loro carico di soldati feriti». A Berlino il gruppo dovette cambiare treno. Le guardie delle Ss indirizzarono i prigionieri verso la metropolitana. Vedendo un’insegna di bagni pubblici le donne chiesero il permesso di entrare. Da Auschwitz alla toilette per signore della Schlesischer Bahnhof il salto era enorme. «L’anziana inserviente non si mostrò sorpresa quando ci vide entrare nel suo ambiente decorato a mosaico e odoroso di disinfettante. In quel periodo a Berlino si vedeva sicuramente di tutto, e il volto sfinito della vecchia non tradì il minimo stupore. ‘Poveri figli’, disse co...

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