Mito
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Jean-Pierre Vernant

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Mito

Jean-Pierre Vernant

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Abbiamo tutti bisogno del mito. Non solo e non tanto perché ci piace o perché addirittura ne siamo appassionati, ma perché abbiamo tutti bisogno di una cornice in cui inquadrare noi stessi e il nostro presente. Il mito seduce l'immaginazione, meraviglia, ma soprattutto offre radici al nostro pensiero perché, ci insegna Vernant, quello che a prima vista sembrerebbe «un guazzabuglio di favole strampalate» poggia piuttosto su fondamenta profondissime, che hanno consentito ai Greci di costruire il loro mondo spirituale e materiale. Insomma, sebbene nessuno creda, e probabilmente abbia mai creduto anche nell'antichità, che le storie di eroi e dèi siano vere, che sia realmente esistita un'Afrodite uscita dalle acque o un'Atena nata dalla testa di Zeus, tutta la civiltà occidentale continua a figurarsi all'interno dell'orizzonte intellettuale tracciato quasi tremila anni fa dal mito greco. Come sostiene Andrea Marcolongo nella sua illuminante prefazione, «il mito greco si rivela ancora oggi il perimetro entro il quale pratichiamo l'esercizio del pensiero - e con cui misuriamo il grado raggiunto o mancato della nostra civiltà».

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Información

Editorial
Treccani
Año
2021
ISBN
9788812008957
MITO

1
INTRODUZIONE

Per la sua origine e la sua storia la nozione di mito, che abbiamo ereditato dai Greci, appartiene a una tradizione di pensiero peculiare dell’Occidente, nella quale il mitico è definito attraverso ciò da cui si differenzia: in un doppio rapporto di opposizione con il reale da una parte (il mito è finzione) e col razionale dall’altra (il mito è assurdo). Appunto in questa linea di pensiero, nel quadro di questa tradizione bisogna collocare, per poterlo comprendere, lo sviluppo degli studi moderni sul mito. Ricercando procedimenti interpretativi e tecniche di decifrazione capaci di conferire un senso a ciò che poteva sembrare a prima vista un guazzabuglio di favole strampalate, siamo stati condotti a mettere in questione le antiche concezioni e a interrogarci sulla vera natura di ciò che veniva designato col nome di mito. Qual è lo status sociale e intellettuale di questo genere di racconto? In che misura costituisce un modo specifico di espressione, avente una lingua, un pensiero e una logica particolari? Come collocare il mito nell’insieme della vita collettiva di una società e differenziarlo dalle credenze e dai riti religiosi, da tutti i fatti della tradizione orale: fiabe, proverbi, folclore, finzioni propriamente letterarie? E ponendoci in una prospettiva antropologica, quale posto gli assegneremo nell’individuo e nel gruppo, quale dimensione umana gli riconosceremo?

2
MYΘOΣ E ΛOΓOΣ

In greco μῦθος designa un’espressione verbale formulata, si tratti di un racconto, di un dialogo o dell’enunciazione di un progetto. Μῦθος appartiene quindi allo stesso ordine di λέγειν, come indicano i composti μυθολογεῖν, μυθολογία, e inizialmente non è in contrasto con i λόγοι, termine i cui valori semantici sono vicini, riferendosi alle diverse forme di ciò che viene detto. Anche quando le parole posseggono una forte carica religiosa, che trasmettono a un gruppo di iniziati sotto forma di racconti riguardanti gli dei o gli eroi (un sapere segreto proibito al volgo), i μῦθοι possono essere qualificati altrettanto bene come ἱεροί λόγοι, discorsi sacri. Perché la sfera del mito si delimitasse rispetto ad altre, perché, attraverso l’opposizione di μῦθος e λόγος, ormai separati e posti l’uno di fronte all’altro, si delineasse la figura del mito peculiare dell’antichità classica, c’è stato bisogno di tutta una serie di condizioni il cui gioco, tra l’VIII e il IV secolo prima dell’era volgare, ha prodotto all’interno dell’universo mentale dei Greci una molteplicità di distanze, di fratture, di tensioni interne.

A) PAROLA E SCRITTURA

Un primo elemento da tener presente, in questa prospettiva, è il passaggio dalla tradizione orale a diversi tipi di letteratura scritta. Questa trasformazione ha avuto sullo status del mito in Grecia ripercussioni così forti che parecchi mitologi contemporanei si pongono il problema di sapere se gli stessi metodi interpretativi possano essere validi sia nel caso di un corpus di racconti orali, come quelli su cui lavorano gli etnologi, sia nel caso dei testi scritti, di cui si occupano i grecisti: e ci si è persino chiesti se si abbia il diritto di annoverare i due ordini di documenti in una sola categoria.
La scrittura non si è imposta nei differenti campi della creazione letteraria in Grecia con lo stesso ritmo e secondo le stesse vie di sviluppo. Non si tratta per noi di fissare le tappe di un progresso il cui corso non fu né lineare né univoco. Vorremmo soltanto isolare gli aspetti che, nell’emergere della letteratura scritta, interessano più direttamente il mito, la sua elaborazione, la sua trasmissione, il suo posto nella cultura antica.
Anzitutto, qualche osservazione generale. La redazione scritta, com’è noto, obbedisce a regole più variate e duttili che la composizione orale, di tipo formulare. La scrittura in prosa segna un ulteriore gradino. Come ha ben visto A. Parry (1970), nei primi grandi prosatori greci esiste una stretta correlazione tra l’elaborazione di un linguaggio astratto e la piena padronanza del proprio stile. Rispetto alla tradizione orale e alla creazione poetica, la redazione in prosa – trattati di medicina, racconti storici, arringhe di oratori, dissertazioni filosofiche – rappresenta non soltanto un nuovo modo espressivo, ma una forma nuova di pensiero. L’organizzazione del discorso scritto va di pari passo con un’analisi più serrata, un ordinamento più rigoroso della materia concettuale. Già in un oratore come Gorgia o in uno storico come Tucidide, il gioco bilanciato delle antitesi nell’equilibrio retorico del discorso scritto, col suo suddividere, distribuire, porre in opposizione termine contro termine gli elementi fondamentali della situazione da descrivere, funziona come un vero strumento logico, capace di conferire all’intelligenza verbale una presa sul reale. L’elaborazione del linguaggio filosofico va oltre, sia per il livello di astrazione dei concetti e per l’uso di un vocabolario ontologico (si pensi alla nozione dell’essere in quanto essere o a quella dell’Uno), che per l’esigenza di un nuovo tipo di rigore nel ragionamento: alle tecniche di persuasione dell’argomentazione retorica, la filosofia oppone i procedimenti dimostrativi di un discorso il cui modello è fornito dalle deduzioni dei matematici, operanti su numeri e figure. E. Benveniste ha certamente ragione quando osserva che Aristotele, cercando di definire lo status logico di tutti i possibili predicati dell’essere, non fa nient’altro che ritrovare le categorie fondamentali della lingua in cui pensa (Benveniste, 1958). Le categorie che il filosofo isola, e di cui stabilisce la validità nell’ordine del pensiero, si rivelano come la trasposizione, sul piano noetico, delle categorie linguistiche del greco. Bisognerebbe forse aggiungere che un siffatto tipo di riflessione, nel quale le strutture della lingua servono da base a una definizione delle modalità dell’essere e a una esplicitazione dei rapporti logici, è stato reso possibile soltanto dallo sviluppo delle forme di lingua scritta che la Grecia aveva conosciute. La logica di Aristotele è certo legata alla lingua in cui il filosofo pensa; ma il filosofo pensa in una lingua che è quella dello scritto filosofico. Nella letteratura scritta, e a cagion d’essa, s’instaura quel tipo di discorso in cui il λόγος non è più semplicemente l’espressione verbale, ma ha assunto il valore di razionalità dimostrativa, e su questo piano si oppone, per la forma come per la sostanza, all’espressione verbale del μῦθος.
Riguardo alla forma, il λόγος si oppone al μῦθος per lo scarto tra la dimostrazione argomentata e la trama narrativa del racconto mitico; e, riguardo alla sostanza, per la distanza esistente tra le entità astratte del filosofo e le potenze divine di cui il mito narra le avventure drammatiche.
Le differenze non sono minori se, rovesciando i punti di vista, ci poniamo non più nella prospettiva di colui che redige uno scritto, ma in quella del pubblico che ne viene a conoscenza. Per le possibilità che offre di ritornare al testo per una sua analisi critica, la lettura presuppone un atteggiamento mentale diverso, più distaccato e a un tempo più esigente di quello che caratterizza l’ascolto di discorsi pronunciati. Gli stessi Greci ne erano pienamente coscienti: alla seduzione che la parola deve suscitare per tenere l’uditorio sotto l’incantesimo, essi hanno opposto, per lo più dandole la preferenza, la serietà un po’ austera ma più rigorosa della lingua scritta. Da un lato hanno collocato il piacere inerente alla parola: essendo incluso nel messaggio orale, tale piacere nasce e muore col discorso che l’ha suscitato; dall’altro, dal lato della lingua scritta, hanno collocato l’utile, che è l’obiettivo di un testo che è possibile tenere sotto gli occhi e che serba in sé un insegnamento di valore durevole. Questa divergenza funzionale tra lingua parlata e lingua scritta interessa direttamente lo status del mito. Se l’espressione orale è orientata verso il piacere, ciò accade perché opera sull’ascoltatore come un incantesimo. Accompagnata dalla forma metrica, dal ritmo, dalle consonanze, dalla musicalità, dai gesti e talora dalla danza, la narrazione orale suscita nel pubblico un processo di comunione affettiva con le azioni drammatiche che formano la materia del racconto. Questa magia della parola, che Gorgia celebrò e che conferisce ai vari generi di declamazione – poesia, tragedia, retorica, sofistica – uno stesso tipo di efficacia, costituisce per i Greci una delle dimensioni in virtù delle quali il μῦθος si oppone al λόγος. Rinunciando volontariamente al drammatico e al meraviglioso, il λόγος esercita la propria azione sullo spirito a un livello diverso da quello dell’operazione mimetica (μίμησις) e della partecipazione emotiva (συμπάθεια). Il λόγος si propone di stabilire la verità dopo indagini scrupolose e quindi di enunciarla adoperando un modo di esposizione che, almeno in linea di diritto, faccia appello soltanto all’intelligenza critica del lettore. Soltanto quando ha rivestito con forma scritta il discorso, spogliato a un tempo del suo mistero e della sua forza di suggestione, perde il potere di imporsi agli altri con la coercizione, illusoria ma irreprimibile, della μίμησις.
Per questa via lo status del discorso muta; diventa “cosa comune” nell’accezione che i Greci davano a questo termine nel loro vocabolario politico: non è più il privilegio esclusivo di chi possiede il dono della parola; appartiene nella stessa misura a tutti i membri della comunità. Scrivere un testo significa deporne il messaggio ἐς μέσον, al centro della comunità, metterlo apertamente a disposizione del gruppo. In quanto scritto, il λόγος è portato in mezzo al pubblico; allo stesso titolo dei magistrati che cessano dal loro incarico, deve rendere conto dinanzi a tutti, deve rispondere alle obiezioni e alle contestazioni che ognuno ha il diritto di muovergli. Si può dire allora che le regole del gioco politico, così come funzionano in una città democratica retta dall’ἰσηγορία (il diritto di parola eguale per tutti), sono diventate anche le regole del gioco intellettuale. Nella propria organizzazione interna, il discorso scritto si conforma a una logica che ormai implica una forma di dibattito in cui tutti, con la discussione e l’argomentazione contraddittoria, lottano ad armi pari. Non si tratta più di vincere l’avversario stregandolo o affascinandolo con la superiore potenza del proprio eloquio; si tratta di convincerlo della verità, conducendo a poco a poco il suo discorso interiore, che segue la propria logica e i propri criteri, a coincidere con l’ordine delle ragioni espresse nel testo che gli viene sottoposto.
Da questo punto di vista, ciò che dava alla parola la sua forza d’urto, la sua efficacia sugli altri si trova ormai abbassato al rango del μῦθος, del favoloso, del meraviglioso, come se il discorso potesse guadagnare nell’ordine del vero e dell’intelligibile soltanto perdendo nell’ordine del piacevole, del commovente e del drammatico.

B) DAL MITO ALLA STORIA E ALLA FILOSOFIA

Di questo mutamento testimonia già il discorso storico di Tucidide, il quale prende le distanze rispetto a un passato troppo remoto perché si possa raggiungerlo in maniera diversa dalla forma mitica in cui la tradizione lo ha fissato e si limita, al di fuori dei paragrafi consacrati all’“archeologia”, ai fatti della storia recente, abbastanza vicini perché sia possibile esserne stati personalmente spettatori o indagare su ciascuno di essi con tutta l’esattezza necessaria. Preoccupazione della verità nello stabilire i fatti, esigenza di chiarezza nella narrazione dei mutamenti che si verificano nel corso della vita delle città (guerre e rivoluzioni politiche), conoscenza della “natura umana” abbastanza precisa per rintracciare, nella trama degli eventi, l’ordine che consenta all’intelligenza di far presa su di essi: tutti questi tratti sono associati in colui che, malgrado Erodoto, si è tentati di chiamare il primo vero storico greco, a un rifiuto altero del meraviglioso, τό μυθῶδες, considerato come un ornamento adatto al discorso orale e al suo carattere circostanziale, ma fuor di posto in un testo scritto, il cui apporto deve costituire un acquisto permanente. «Forse la mia storia» afferma Tucidide, «spoglia dell’elemento fantastico accarezzerà meno l’orecchio; ma basterà che la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo e acquistare ancora preveggenza per il futuro, che potrà quando che sia ripetersi, per la legge naturale degli uomini, sotto identico o simile aspetto. Sicché quest’opera è stata composta perché avesse valore eterno (κτῆμα ἐς αἰεί), più che per l’ambizione dell’applauso dei contemporanei nelle pubbliche recite» (I, 22). La critica che, tre secoli dopo, Polibio dirige contro Filarco, accusato di voler suscitare la pietà e la commozione del lettore dispiegandogli sotto gli occhi scene di terrore (τά δεινά), costituisce il miglior commento al testo di Tucidide: «Lo storico non deve utilizzare la storia per suscitare l’emozione dei lettori raccontando portenti, […] ma menzionare alla luce della rigida verità i fatti e le parole, anche se siano completamente comuni». Lo scopo che la storia si propone, infatti, non consiste nello «sbalordire e allettare momentaneamente gli ascoltatori» ma «nell’insegnare e convincere per sempre gli studiosi, con le azioni e le parole che corrispondono a verità» (Polibio, II, 56, 7-12).
È significativo che la stessa opposizione tra il μυθῶδες – il meraviglioso proprio dell’espressione orale e dei generi poetici – da un lato (Platone, Repubblica, 522 a 8; Timeo, 26 e 5) e l’ἀληθινός λόγος – il discorso veridico – dall’altro si ritrovi nei filosofi, suscitando un atteggiamento mentale analogo riguardo al mito che, nella sua forma narrativa, viene assimilato alle favole delle vecchiette (μῦθος γραός; Gorgia, 527 a 4), simile a quelle che le nutrici raccontano per distrarre o spaventare i bambini. Quando Platone, nel Sofista, vuole squalificare le tesi dei suoi predecessori eleati o eraclitei, rimprovera loro d’aver adoperato, a guisa di dimostrazione, il racconto di avvenimenti drammatici, di peripezie e di sconvolgimenti imprevisti: «Ciascuno di questi mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini; uno dice che l’essere in quanto tale è tre cose e talvolta alcune di queste combattono fra loro in qualche modo, talaltra divengono amiche e fanno nozze, generano figli e altro che sia ai figli nutrimento» (242 c-d). Discordie, battaglie, riconciliazioni, matrimoni, procreazioni: tutta questa messa in scena della narrazione mitica potrà certamente sedurre degli spiriti infantili; ma a chi cerca di comprendere, nel senso proprio del termine, non apporterà nulla, poiché l’intelletto si riferisce a una forma di intelligibilità che il mito non comporta e che soltanto il discorso esplicativo possiede. Se si raccontano a proposito dell’essere disavventure analoghe a quelle che la leggenda attribuisce agli dei o agli eroi, nessuno in tali racconti potrà distinguere l’autentico dal favoloso. I narratori, nota ironicamente Platone, non si sono curati di “abbassare lo sguardo” sulla folla di coloro che, al pari di lui, per distinguere il vero dal falso esigono un discorso che sia in ogni momento capace di dare spiegazioni a chi ne chieda o, ciò che è lo stesso, capace di dar ragione di se medesimo, facendo intendere chiaramente di che cosa parli, in che modo ne parli e che cosa ne dica.
Su questo punto Aristotele segue da presso Platone. Chiedendosi nella Metafisica se i principi degli esseri corruttibili e quelli degli esseri incorruttibili siano o no i medesimi, egli evoca la tradizione di Esiodo e di coloro ch’egli chiama “teologi” – cioè gli autori di miti riguardanti gli dei – per sottolineare il sussistere, tra questi e se stesso, di una distanza che, prima ancora che temporale, è d’ordine intellettuale: «Quei del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono, pensarono soltanto a dir cose conformi alle loro credenze, e delle difficoltà che travagliano noi non si curarono. Essi dei principi facevano Dei e dagli Dei facevano venir tutto,...

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