capitolo 1
La democrazia è il meno peggiore dei sistemi politici?
È lapalissiano che le società occidentali moderne siano pluralistiche. Discutiamo di tutto e non siamo mai d’accordo su nulla. Anzi, in verità c’è una cosa che mette tutti d’accordo: che dovremmo scegliere i nostri leader politici attraverso il meccanismo “una persona, un voto”. La democrazia elettorale è divenuta quasi sacra nelle società occidentali moderne. Possiamo mettere in dubbio la fede in Dio senza essere accusati di aver perso la bussola morale, ma la stessa tolleranza non viene estesa a chi mette in dubbio la fede nel sistema “una persona, un voto”; chi lo fa viene quasi inevitabilmente accusato di apologia di “cattivi” regimi autoritari.
In più, è opinione largamente condivisa che la democrazia elettorale sia un bene politico universale. È un bene non soltanto per noi, ma anche per il resto del mondo. Perciò, quando un “cattivo” regime autoritario cade, dovrebbe essere rimpiazzato da una forma di governo scelta col meccanismo “una persona, un voto”. Quasi nessuno contempla anche soltanto che ci sia un’alternativa. Da un punto di vista normativo, la democrazia è considerata il regime politico migliore possibile. Più precisamente, è una condizione necessaria perché si instauri il miglior regime possibile. Le elezioni libere ed eque di leader politici necessitano il supporto di altri benefici politici – e qui esistono dispute infinite su quali dovrebbero essere questi benefici (società civile, giustizia sociale, democrazia sul posto di lavoro, forum di discussione, modi aggiuntivi per monitorare il potere, ecc.) – ma tutti concordano sul fatto che (qualsiasi essi siano) dovrebbero prendere le mosse dalle fondamenta di una democrazia elettorale.
Ciò detto, i “realisti” politici ci avvertono che in paesi poveri e in via di sviluppo non può instaurarsi subito la democrazia. Nell’opera Ordine politico e cambiamento sociale, pubblicata nel 1968, Samuel Huntington presenta la tesi controversa che per lo sviluppo economico e sociale sia necessario un ordine politico. Nel mondo in via di sviluppo, un aumento prematuro di partecipazione politica – anche le prime elezioni – potrebbe destabilizzare sistemi fragili. Perciò, potrebbe rendersi necessaria una dittatura rinnovatrice che dia ordine politico, lo Stato di diritto, e le condizioni perché si compia uno sviluppo economico e sociale. Huntington non intendeva giustificare la dittatura come soluzione permanente. Una volta posati i primi mattoni, i tempi diventano maturi per introdurre la democrazia e non è più giustificato da un punto di vista morale rimandarla oltre.
In altre parole, la disputa tra “idealisti” e “realisti” è principalmente una disputa sui tempi; nessuna delle due posizioni intende mettere in dubbio l’ideale della democrazia elettorale. Guerre etniche, estrema povertà, corruzione dilagante e mancanza di istruzione possono costituire degli ostacoli all’instaurarsi e al consolidamento della democrazia, ma vengono visti come sfortunate (auspicabilmente temporanee) calamità che ritardano quel che Francis Fukuyama (allievo di Huntington) definiva “la fine della storia”: quando la democrazia finalmente trionfa sui suoi rivali. È assunto ampiamente condiviso che la democrazia sia qualcosa che ciascun individuo razionale vorrebbe, se potesse ottenerla.
Sorprendentemente, forse, l’opinione che la democrazia elettorale sia il miglior regime politico possibile è presente (ma ben lungi dall’essere unanime) anche in Cina. A prescindere da quel che sentiamo sulle “differenze tra le civiltà” tra Cina e Occidente, molti pensatori politici cinesi condividono l’opinione che la democrazia sia il miglior sistema politico possibile. In Cina è pericoloso organizzare un movimento per proporre elezioni competitive a più partiti – è quel che ha portato Liu Xiaobo in carcere – ma i pensatori politici cinesi possono sostenere l’ideale della democrazia elettorale nelle pubblicazioni accademiche e così fanno. Una tesi ricorrente tra gli intellettuali cinesi è che non sia questo il momento giusto per proporre la democrazia, per la prevalenza di contadini “di bassa qualità”, ma diventerà più praticabile quando la popolazione cinese sarà più istruita e urbanizzata. Il riformatore politico Yu Keping ha scritto un famoso saggio intitolato Democracy is a Good Thing chiedendo maggiore competizione elettorale a diversi livelli di governo. Secondo Yu Chongqing il primo mattone di fondamenta democratiche sono elezioni competitive con più candidati – che si tratti di governo centrale o locale – e non ha senso parlare di altre forme di democrazia (come quella interna al partito, consultazioni democratiche, o democrazia a livello locale) senza queste fondamenta. Ling invece va più cauto e ritiene che il compito immediato della Cina è quello di mettere in atto una “supervisione democratica”, aggiungendo però che questa dovrebbe essere seguita da elezioni democratiche. Anche in questo caso, la disputa è maggiormente incentrata sul momento opportuno per introdurre la democrazia elettorale, più che sulla sua desiderabilità.
È apparentemente difficile comprendere perché la democrazia elettorale sia giunta ad avere tanto richiamo. Prima di tutto, la pratica di scegliere i principali leader di un paese attraverso elezioni competitive libere ed eque ha una storia relativamente breve (meno di un secolo in quasi tutti i paesi, rispetto a – per fare un esempio – i milletrecento anni del sistema degli esami imperiali in Cina). Come ogni altro sistema politico, ha svantaggi e vantaggi, e sembra troppo presto affermare che sia il migliore sistema di tutti i tempi. In modo più sostanziale, sembra peculiare assumere una posizione quasi dogmatica in favore di un sistema che non richieda ai propri leader esperienza (e competenza). Ci sono molti modi di esercitare il potere – sul posto di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, e così via – e in quegli ambiti l’assunto naturale è che sia necessaria l’esperienza prima che i leader esercitino il potere. Nessuna azienda o università sceglierebbe un leader senza una sostanziale esperienza di leadership di qualche sorta, preferibilmente nello stesso campo. Eppure, il potere politico costituisce un’eccezione: è accettabile scegliere un leader che non abbia precedente esperienza politica, purché scelto/a con il meccanismo “una persona, un voto”.
Quindi perché, esattamente, siamo giunti a credere che la democrazia elettorale costituisca le fondamenta necessarie per un sistema politico moralmente desiderabile? Sono in pochi ad avere il tempo e la voglia di leggere i dibattiti nelle riviste di scienze politiche, perciò la spiegazione chiave non può emergere da un sostegno di riflesso a tesi avanzate nella letteratura accademica. Il valore che si pone sull’uguale diritto al voto può essere il risultato delle prolungate lotte politiche da parte di settori (un tempo) marginalizzati della comunità, come le donne e le minoranze. Un’altra ragione può essere la crescente importanza delle identità nazionali nel Ventesimo secolo: visto che sempre più persone pensano che la loro principale identità sia quella della loro nazione, considerano l’avere ugual diritto a partecipare alla politica nazionale come una chiave della dignità umana. Un’altra ragione può essere l’egemonia economica, politica e ideologica degli Stati Uniti nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, soprattutto dopo il collasso del blocco sovietico. Gli Stati Uniti promuovono la democrazia elettorale come “la sola possibilità”, e il resto del mondo sta seduto ad ascoltare. Per parafrasare Karl Marx, le idee del paese dominante sono le idee dominanti. Forse l’idea che siamo uguali davanti a Dio è stata trasmutata nell’idea che siamo uguali politicamente davanti al governo, e diventa nell’opinione popolare una (erronea) convinzione che l’uguaglianza politica debba prendere la forma del suffragio universale. C’è qualcosa nell’atto di votare che trasmette un certo potere psicologico: sento di avere voce in capitolo nella scelta del mio governante (anche se il mio voto non è determinante), e custodisco gelosamente il diritto al voto, un senso di autorità che può anche estendersi ad altre aree della vita sociale. Qualsiasi tentativo di modificare o abolire il suffragio universale sarà profondamente controverso perché chi viene privato di un voto uguale si sentirà “perdente” e verrà ufficialmente bollato come inferiore in termini di capacità di avere un giudizio politico consapevole. Forse l’idea di scegliere i leader attraverso elezioni competitive è facile da comprendere e da mettere in atto. E forse il voto è un rituale comune che produce e rafforza un senso di solidarietà civica: quando votiamo ci sentiamo parte di una comunità. In tutta probabilità, diverse combinazioni di questi fattori operano in gradi diversi e in contesti diversi.
Qualsiasi sia la storia e i meccanismi psicologici sui cui poggia il sostegno al voto, vale la pena indagare se le tesi a favore della democrazia elettorale siano moralmente difendibili. I filosofi tendono a distinguere tra due tipi di argomentazioni a favore della democrazia. Alcuni sostengono che il diritto al voto e a concorrere per una carica pubblica siano intrinsecamente preziosi per gli individui, che conducano o meno a conseguenze collettivamente desiderabili: procedure democratiche come quella dell’uguale diritto al voto e al processo decisionale della maggioranza sono l’espressione di beni intrinsecamente preziosi come l’uguaglianza, la giustizia, la dignità, l’autonomia, la partecipazione, la solidarietà e la fiducia reciproca, il cui potere morale non dipende da conseguenze desiderabili. Tali argomentazioni però sono state energicamente contestate, e i principali filosofi angloamericani, da J.S. Mill a John Rawls e Ronald Dworkin tendono a difendere l’uguaglianza politica nella forma del suffragio universale su basi strumentali. E se lo scopo è quello di promuovere la democrazia elettorale in Cina, argomentazioni a favore della democrazia che facciano appello al valore intrinseco del voto non saranno molto efficaci, perché i sondaggi politici rilevano che i cittadini di società dell’Asia orientale comprendono tipicamente la democrazia in termini sostanziali più che procedurali: vale a dire, tendono a stimare la democrazia per le conseguenze positive a cui conduce piuttosto che stimare le procedure democratiche di per sé.
Perciò la domanda politicamente rilevante è se le elezioni democratiche portino a conseguenze positive. Chi coglie forse meglio la questione pro-democratica in termini di conseguenze è Winston Churchill nella sua famosa battuta: “La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. Questa frase viene di continuo ripresentata in difesa della democrazia, molto spesso per mettere a tacere il dibattito sui pro e i contro della democrazia. Qualsiasi siano i difetti della democrazia, le a...