Lasciò la Svizzera il 28 ottobre 1979. Dieci giorni dopo era in viaggio per l’America Latina. Partì con don Sergio Gualberti. Voleva rendersi conto della situazione per poter prendere una decisione. Aveva accantonato l’idea del Burundi. Stava per aprirsi una terza fase della sua vita, carica di incognite e di speranze. Si era documentato. Aveva anche preparato una lista di nomi di vescovi ai quali rivolgersi per capire le urgenze e le necessità pastorali. La prima tappa fu in Perù. Don Sergio Gualberti ricorda così quel viaggio:
Lo accompagnai nel primo viaggio del novembre 1979. Era in ricerca di una missione. Il Vescovo gli aveva indicato la Bolivia, dove la diocesi era impegnata. Don Sandro aveva però timore di trapiantare una nostra pastorale, anziché inserirsi in quella locale… Giunti a Lima, abbiamo visitato alcune diocesi del Perù. Cominciammo da Chimbote. Mons. Luis Armando Bambarén gli chiese di recarsi a Pariacoto, da quasi un mese senza sacerdote.
Un paese alla fine del mondo
Pariacoto era un paese lontano, tra le montagne andine, a 150 chilometri da Chimbote. C’era una piccola comunità di suore. Non parve vero alle suore che un sacerdote arrivasse da loro. Pregarono don Sandro di rimanere, ma egli non se la sentì di fermarsi, anzi, rientrò a Chimbote la sera stessa, lasciando sul posto don Sergio Gualberti. Era rimasto fortemente impressionato del luogo, tra aspre montagne, completamente isolato dal mondo.
Mons. Luis Armando Bambarén aveva grande bisogno di missionari. Ordinato vescovo nel 1968, da un anno era alla guida di una diocesi, vasta come la Lombardia, con oltre 350 mila abitanti e 24 parrocchie che riunivano ciascuna molti villaggi. Ma i preti e i religiosi erano soltanto 34. Confidava che don Sandro potesse accogliere il servizio di quella lontana e sperduta parrocchia. Non fu così. Il Vescovo raccontò la reazione di don Sandro, quando ritornò da quei luoghi desolati e abbandonati.
Aveva viaggiato sei ore nel deserto da Lima a Chimbote, ma il percorso di sole due ore, sulla pista che porta a Pariacoto lo impressionò tantissimo. Mi disse: Pariacoto è alla fine del mondo! Ho bisogno di tempo per riflettere e valutare la scelta da fare. Mi domandò di fargli conoscere altre località.
“ Vieni al più presto!”
Don Sandro e don Sergio visitarono altre località del Perù, poi raggiunsero la Bolivia, don Sergio per rimanervi, mentre don Sandro proseguì da solo per l’Argentina e l’Uruguay. Al ritorno in Italia trovò una lettera da Chimbote. Era datata 20 novembre 1979, scritta pochi giorni dopo il suo passaggio da mons. Bambarén. Il Vescovo gli prospettava la possibilità di lavorare a Santa, la parrocchia più antica e più estesa di Chimbote, punto di riferimento di una trentina di villaggi, distante 12 chilometri dalla costa, con strade sterrate, senza neppure un metro di strada asfaltata.
Nei mesi successivi, don Sandro raccolse ulteriori informazioni. Scrisse a don Antonio Caglioni, da diversi anni in Bolivia. Da lui ebbe conferma che il ministero in America Latina richiedeva un radicale cambio di mentalità:
La missione in America Latina è un po’ strana. La popolazione e la stessa Chiesa latino americana sono imprevedibili. Imbarcarsi in una missione in America Latina significa accettare un tipo di mentalità completamente diversa.
Verso la Pasqua del 1980, diede al Vescovo di Chimbote la propria disponibilità. Don Carlo Iadicicco, 35 anni, sacerdote fidei donum della diocesi di Capua e membro del Centro ecclesiale per l’America Latina, da qualche mese a Santa, si mise in comunicazione con lui. Gli scrisse:
Alcuni giorni fa il Vescovo mi parlò della tua lettera. BENE! Ecco la mia proposta: VIENI AL PIU’ PRESTO. Qui a Santa c’è da lavorare duro.
Gli offrì anche un saggio e intelligente suggerimento:
Vieni qui a Santa, per ora, solo tu. Io ti posso ospitare. La casa è ampia e accogliente. In un paio di mesi potrai personalmente darti conto della complessità dei problemi sociali della parrocchia e della diocesi. Se pensi di poterti impegnare, lo potrai fare con una conoscenza della realtà, migliore di quella che posso darti io. In un secondo momento, potresti mandare a chiamare la tua collaboratrice.
Passarono sei mesi prima della partenza. Il tempo necessario di fare il corso di preparazione a Verona e di apprendere le basi della lingua. Partì da solo. Era il 14 novembre 1980. Ad accoglierlo a Lima c’era don Carlo, un prete dal temperamento aperto, gioviale e solare. Quell’accoglienza gli slargò il cuore e fu il lasciapassare per un rapporto di stima e di collaborazione fraterna. Nella circolare agli amici dirà:
Padre Carlo è molto intelligente. Vive la causa dei poveri e sa leggere la realtà con chiarezza. Nei momenti più acuti di sofferenza e di lotta sociale è presente. Ha un cuore grande per il prossimo. Queste doti di base sono quelle che mi aiutano.
Póera cà sènsa tècc
A Santa si trovò subito immerso in un mondo “altro”. Nulla a che vedere con il contesto ordinato, metodico, programmato della Svizzera. Se vuoi capire una terra, la devi abitare, saperne la vita, misurarne gli spazi sentirne il profumo. La parrocchia nella valle percorsa dal Santa, fiume che scende dalle Ande, è costituita da cinque rioni: in realtà è un agglomerato di povertà, ricostruito sulle macerie di un terremoto che, pochi anni prima, aveva distrutto ogni cosa. Attorno alla parrocchia si distende uno spazio smisurato di territori deserti e il tempo scorre senza orologio
Fu un vero shock. Ci volle tempo per assimilare il nuovo ritmo. L’impatto con la nuova realtà e i sentimenti che premevano nell’animo di don Sandro sono stati ben tratteggiati don Antonio Caglioni, che a Santa ci fu diverse volte.
Davvero a Santa provi cosa vuol dire la frase bergamasca póera cà sènsa tècc (povera casa senza tetto): file di case senza tetto, perché non piove mai, e con semplici soffitte di canne che riparano dai polveroni del deserto che circonda le oasi create dalle acque del Santa. Aggiungi l’odore del pesce marcio che viene dalla fabbrica all’imbocco del paese principale e ti si rovescia non solo la vista ma anche lo stomaco. Mi immagino che, nei primi tempi di missione, nessuno o quasi abbia potuto capire quell’ometto di poche parole, sbalordito dall’assurdità di una situazione generale sfiaccata da tutti i punti di vista. E mi pare di vederlo trangugiare saliva e ritirarsi in se stesso, ogni volta che la chiacchiera cadeva nel vuoto impossibile, dove muore la benché minima volontà di cambio.
Mi sto allenando
Don Sandro si trovò a fronteggiare il proprio senso di insufficienza davanti alla vastità dei problemi e a reimparare la lezione evangelica del seme evangelico che sfida la paura. In quella povertà gli furono di conforto e di sostegno le parole viatico di don Fortunato Benzoni:
Non siate ansiosi di successi immediati… Voi seminate e lasciate poi al Signore di irrorare con la sua benedizione. Sappiate attendere l’ora della Provvidenza. Il Signore agisce silenziosamente.
Capì che per stare al passo della sua gente, lui abituato a salire la montagna con passo svelto e sicuro, doveva imparare a stare fermo. Cominciò a parlarne alla collaboratrice Camilla, nella lettera che gli spedì il 4 dicembre 1980, venti giorni dopo il suo arrivo a Santa.
Qui mi sto allenando un poco e penso che occorra tanta pazienza. È un ambiente di missione. Occorre sapersi integrare, altrimenti si rimane al di fuori di questo mondo che desideriamo servire. Chiaramente lo sforzo per compromettersi, l’impegno per vivere a fianco dei poveri e partecipare seriamente alla vita dei poveri è condizione indispensabile per sperare di fare un lavoro che può produrre frutti. In questo senso non possiamo farci illusioni.
Don Sandro, 49 anni, stava per iniziare un nuovo viaggio, con in mano una sola valigia, carica soltanto di contenuto evangelico.
Quello che ci costa di più
Vivere la gioia della semina in un contesto di miseria non è facile. Se il prete non torna alle sorgenti della vocazione, rischia l’affanno e lo sfinimento pastorale e la deriva lenta, ma progressiva, nelle sabbie mobili di una desolante tristezza, che pregiudica la fecondità del ministero. Don Sandro si rese subito conto che il primo lavoro da fare era su di sé. Il profumo della gioia di una vita, spesa per il regno di Dio e il bene del suo popolo, non si diffonde se si spegne nel pastore la fiamma dell’amore per l’unico e sommo pastore; se nel cuore si blocca la passione e crolla l’entusiasmo; se si esaurisce la “grinta” per il Vangelo.
Cominciò a “lucidare” non più le casse degli orologi svizzeri, ma l’interno dell’anfora del proprio mondo interiore, per lasciare affluire limpida l’acqua che lo Spirito del Signore vi riversa dentro. La porta di accesso dell’abitazione dei poveri più poveri è in discesa, ed è l’unica capace di sbloccare le esistenze chiuse nella propria autosufficienza e di mettere a soqquadro le sicurezze di una vita che non va oltre il proprio io. Lo confidò, dopo 15 mesi di allenamento, agli amici delle sue lettere circolari:
Quel che ci costa di più non è lasciare una famiglia, una patria o gli amici, ma lasciare noi stessi.
Don Sandro intuì al volo l’opera di abrasione che ogni missionario è chiamato a fare per servire veramente il Vangelo.
Il missionario non è un conquistatore, ma un servitore e un amico. Non può presentarsi con una stupida superiorità che impedisce di mettersi accanto agli altri come uguale e come servitore. Se la gente non si accorgesse che veniamo da un’altra nazione, sarebbe meglio. Ciò vale soprattutto per la gente umile e provata dalla fatica e dalla povertà.
Il cristiano progredisce quando si abbassa e sta nella via dell’umiltà che, tanto più porta in alto, verso Dio, quanto più si abbassa: è la strada percorsa dal figlio di Dio ed è la regola d’oro del cristiano per andare a Dio e avere accesso al cuore del fratello.
Lo sapeva che l’“io” è veramente se stesso quando si depone, non quando si impone. Lo aveva appreso bene alla scuola di don Benzoni. Ora era tempo di passare alla pratica, perché senza umiltà, l’amore resta bloccato. Solo con l’umiltà si è cristiani credibili, donne e uomini veri, capaci di carità.
Per essere missionari occorre essere umili, per questo si parla di scambio e di servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa...