Sceglietela 1 di qualsiasi colore purché sia nero
[Henry Ford]2
Non è raro che si cerchi di alienare la propria responsabilità rispetto a vicende di cui si è indiscutibilmente partecipi e protagonisti individuando colpe e colpevoli che non esistono. È un umano processo di rimozione, quando ciò accade in buona fede. Il più delle volte diventa un processo di reazione. Le ragioni di certe chiusure e prese di posizione rispetto ai processi di cambiamento e di riforma partono spesso da un vizio di analisi, ci si scosta da quello che io amo definire il principio di realtà.
Per spiegarmi voglio riportare un episodio, che è inerente ad un ambito completamente diverso, ma che ci può aiutare a comprendere questo concetto. Durante un dibattito sul referendum sulla legge 403, mentre intervenivo sul tema, sostenendo che l’embrione fosse portatore di diritti soggettivi, intervenne interrompendomi, palesando tutte le sue rimostranze alla mia tesi, un giovane militante comunista premettendo “io non sono cattolico”. Io risposi che la sua affermazione non corrispondeva al vero, che non era vero che non fosse cattolico e ne trovai subito riscontro. Rimase perplesso e rispose infatti affermativamente alla mia successiva domanda in cui chiedevo se fosse battezzato. Chi è battezzato infatti, dal punto di vista del diritto canonico e anche dal punto di vista dei diritti civili, in Italia è Cattolico, a prescindere dal fatto che pratichi, che non pratichi o che non si riconosca nel cammino di fede della comunità cristiana. Bene, il giovane era battezzato, era cresciuto in una famiglia cattolica per cui, anche se sprovvisto del dono della fede (questo dato esperienziale non si può mettere in dubbio) non poteva dire di essere estraneo ai presupposti di contesto e culturali, di parte, sui quali io avrei fatto certe affermazioni. L’occasione di riflettere, di dibattere e di individuare risposte su un tema importante come la vita non può schiacciarsi solo sull’identità e l’appartenenza. Ci sono delle questioni di merito, ad esempio quando si mette al centro del dibattito il tema della vita, nella sua origine o nella sua fine, dove le posizioni non possono trovare ragione esclusivamente solo nel riconoscersi in un determinato ambito culturale, politico o religioso. Le grandi questioni umane, sociali e politiche richiedono sempre il coraggio di riconoscere il contesto in cui accadono e di entrare nel merito.
Con lo stesso meccanismo una delle affermazioni che viene rivolta più di frequente in Italia è che il centro sinistra, in particolare in particolare l’area dei cosiddetti riformisti4, sia gli l’artefice della flessibilità e con essa di tutti i guai che milioni di persone devono sopportare quotidianamente.
È come se si stesse affermando che fino al 1997 tutte le persone avevano un buon lavoro in un mercato del lavoro che offriva ampie possibilità a tutti e poi, improvvisamente, a causa di una legge, si sono trovate a solcare le acque scure e agitate della precarietà.
Sarebbe troppo bello e semplice se così fosse. Perché basterebbe cambiare le regole di nuovo per eliminare la flessibilità. Basterebbe abolire il numeroso plotone delle forme flessibili di lavoro introdotte dalla legge 30/2003 e dal pacchetto Treu, per ritornare ad essere tutti lavoratori stabili con un futuro certo e sereno.
Il problema è che la vera ragione della flessibilità siamo noi, che con le nostre modalità di consumi, sempre più complesse e specializzate induciamo una trasformazione rapidissima del sistema produttivo, che non è più standardizzato come nella catena di montaggio che è finalizzata a produrre una tipologia di prodotto quasi unica in grande quantità, ma è fortemente specializzato e adatto a rispondere alle nostre esigenze personali. È per questa ragione che i contenuti innovativi, culturali, intellettuali e informati a dei processi produttivi, ne segnano in tempi rapidissimi il successo e l’obsolescenza. Alla flessibilizzazione dei processi produttivi, che sono spinti sempre alla ricerca del massimo successo, della più rapida evoluzione e del costo più basso, corrisponde drammaticamente la precarizzazione del lavoro. Può sembrare un paradosso, ma più cerchiamo di migliorare la nostra vita, di rispondere nel modo più efficace, più rapido e più consono al nostro senso estetico alla gamma dei nostri bisogni, più peggioriamo la condizione di lavoro nostra e di quelli che condividono con noi la vicenda terrena.
Un esempio su tutti: l’automobile. Hanry Ford, nei primi del 1900 sosteneva di essere in grado di dare a tutti gli americani la propria automobile, purchè fosse nera, della stessa cilindrata e con la stessa dotazione. In altri termini concepiva l’efficienza e l’economicità produttiva della catena di montaggio nella possibilità di creare un prodotto standard. Qualche anno fa la Lancia dette vita a una campagna pubblicitaria per il lancio del nuovo modello Lancia Y con lo slogan “555 possibilità”, poiché le varie combinazioni di colori e dotazioni consentivano al consumatore di avere la propria autovettura quasi su misura.
L’esperienza di questa modalità di approccio ai consumi fa parte del nostro quotidiano che è fortemente condizionato al contenuto estetico, tecnologico e informatico dei beni e dei servizi che ci accompagnano nel nostro percorso di vita. Un approccio che proprio in virtù della componente intellettuale delle cose che ci circondano, ci porta ad alienarle prima della fine naturale delle stesse.
Può sembrare superfluo, ma anche in casa mia ho vissuto e vivo tutt’ora questa differenza di relazione con le cose e con i consumi, che è maturata in sole poche generazioni. A ricordarmelo ci sono, appesi sul soffitto della casa dei miei genitori, due vecchi secchi di rame, che nella casa di campagna dei miei avi servirono per mungere il latte, per attingere l’acqua dal pozzo, e chissà per quali altre funzioni domestiche. Non sono due secchi preziosi, ma mia nonna, ultima che li ricevette in consegna e che li usò, non volle mai disfarsene perchè non erano forati. Potevano servire ancora. Era così per scarpe, pentole, bicicletta, elettrodomestici, strumenti da lavoro e quant’altro poteva essere utile nella vita domestica e professionale. Ma anche nell’epoca dell’industrializzazione, non solo nella civilità agricola, il rapporto con le cose e con i consumi era di questo tipo. Basti pensare al tornio che è rimasto tornio fino all’introduzione della componente informatica che portò, oltre alla difficoltà ad usarlo da parte di chi l’aveva usato una vita, anche maggiore efficacia, precisione, rapidità e sicurezza.
Il miglioramento progressivo delle nostre condizioni di vita e la crescita delle nostre esigenze, è la vera causa della profonda e radicale trasformazione dei modelli produttivi che ha imposto alle imprese italiane e in particolare ai sistemi impresa dei paesi moderni e industrializzati, di avviare una trasformazione strutturale che consentisse loro di adeguarsi alla nuova flessibilità del mercato.
È questa l’origine di un cambiamento che non è solo organizzativo ma anche culturale. Viene scardinata completamente la concezione del tempo, inteso nella classica concezione bipolare tempo di lavoro-tempo di riposo. Ma se da una parte la maggiore fluibilità temporale consente alla persona di interagire maggiormente con il tempo di lavoro per quanto concerne il soddisfacimento di alcune aspirazioni e di alcuni bisogni personali, dall’altra un lavoro senza tempo invade inesorabilmente quello che un tempo era la soglia delimitata del riposo, ovvero del tempo per sé in cui far crescere le proprie aspirazioni, dedicarsi ai propri affetti. Da una parte c’è un maggior vantaggio attraverso diritti, congedi, aspettative, modulazioni dell’orario, tempo per la formazione, ma dall’altra vi è un’invasione sistematica del tempo libero attraverso il lavoro domestico, il lavoro con gli strumenti di comunicazione e informatici, il lavoro a chiamate.
Questo piccola rivoluzione porta a modificare gran parte dei ragionamenti intorno al lavoro. La situazione in cui abbiamo operato ci ha abituati a ragionare esclusivamente attorno alla dimensione del lavoro (agricolo, industriale e piccoli imprenditori) e ad interpretare il sociale come un insieme di ceti e classi sociali. Tutto questo sta cambiando e più rapidamente di quello che noi pensiamo. Questi cambiamenti ci costringono a stravolgere il nostro modo di ragionare sulle problematiche legate al lavoro, al sociale, alla famiglia e alle forme dell’aggregazione.
L’assetto che le nuove tecnologie vanno assumendo sempre più prevede la formazione di “catene di montaggio immateriali”, il cui “comando” è invisibile ma ben presente.
I confini della fabbrica sono stati spostati, ma questo non significa che è venuta meno la subordinazione. Crediamo d’essere autonomi perché non lavoriamo più in fabbrica, ma in realtà siamo ancora più subordinati al sistema economico.
La centralità non è nel lavoro, né del lavoro per l’uomo, come nella “Gaudium et Spes”. È l’uomo consumatore che detta le regole all’uomo lavoratore.
La nostra è una società che sembra indicare il lavoro come valore fondamentale. È una civiltà che dovrebbe lavorare per produrre beni di consumo ed al tempo stesso ridurre i tempi di lavoro, per permettere il consumo. Eppure l’orario di lavoro non diminuisce, anzi. In una situazione di stagnazione economica, come quella attuale, la battaglia per le 35 ore è diventata già “vecchia”, anche perché scava un confine tra chi ha un lavoro subordinato (timbro il cartellino e finisco) e chi ha un lavoro parasubordinato, che nella gestione senza vincoli del tempo trova la ragion d’essere contrattuale.
Il sistema legislativo italiano, con i limiti di cui facevo cenno nell’introduzione nasce quindi in uno scenario in cui il sistema impresa italiano richiedeva di potere “scaricare” sulla flessibilità di una parte della forza lavoro quella quota parte di rischio d’impresa legato alla flessibilità o al mutamento dinamico e repentino dei mercati.
Quindi, se si vuole prendere in esame il problema della precarietà o della flessibilità in Italia, bisogna partire da questo punto. Se responsabilità ci sono nei confronti di coloro che non hanno un lavoro o non hanno un buon lavoro, ebbene queste, con gradualità diverse, sono ripartibili, se non tra tutti, almeno tra i molti.
L’altro eccesso rispetto a questo tema sono quelli che io definisco i “negazionisti” ovvero quelli che dicono.... disoccupazione? Non esiste! Precarietà? Sono solo quelli che non hanno voglia di lavorare! Mobbing? Sono dei paranoici! E via così dicendo.
Dei negazionisti ne avevo sempre sentito parlare, ma per la mia straordinaria opportunità di aver frequentato ambienti “positivi” non ne avevo mai conosciuti. Poi nel settembre 2005, pochi mesi dopo la mia elezione all’interno del Consiglio Regionale del Veneto, venni attaccato da un collega durante un intervento in commissione Lavoro, in cui stavo chiedendo maggiore attenzione nel lavoro legislativo rispetto alla condizione dei giovani precari. Il collega, accusandomi di sottrarre tempo ed energie alla commissione, affermava con decisione che i miei dati (sulla precarietà in Veneto) non corrispondevano a realtà e che le eventuali difficoltà dei giovani nell’inserimento nel mercato del lavoro erano più attribuibili a comportamenti personali che non a condizioni strutturali dell’economia della regione.
Mentre prosegue l’eterno dibattito tra i nostalgici di un buon lavoro che non c’è più e i negazionisti che si sbrigano ad affermare doti e virtù del mercato del lavoro italiano, la trasformazione dei processi produttivi avanza inesorabilmente e cambia in maniera radicale il nostro modo di lavorare.
A volte si è ritenuto di poter offrire un termine oggettivo di confronto fornendo i dati del mercato del lavoro. Ciò nel caso del Veneto avviene ad esempio attraverso l’agenzia Venetolavoro5, che si premura di stilare un rapporto annuale costruito sui dati ufficiali, ovvero quelli che vengono forniti attraverso la complessa rete dei Centri per l’Impiego in collegamento con le amministrazioni provinciali.
I numeri, per quanto oggettivi possono sembrare, spesso danno esiti contraddittori. In Italia ad esempio, nonostante dal 2000 al 2005 l’economia abbia rallentato la propria corsa, ottenendo delle performance sicuramente più modeste del quinquennio precedente, l’occupazione complessiva è cresciuta e la disoccupazione ha toccato livelli minimi storici (6,4% in giugno del 2007). Vi è stato quello che Maurizio Sacconi6 ha definito “il fenomeno della crescita dell’occupazione senza crescita economica”. Eppure, nonostante i dati quantitativi che riguardano l’occupazione, estrapolati da un analisi di tipo qualitativo, presentino un rassicurante segno “più”, la percezione della gente è che sia sempre più difficile trovare lavoro, che non si possa escludere di trovarsi in difficoltà perché coinvolti in qualche crisi aziendale, che sia, per i giovani, scontato accedere al mercato del lavoro attraverso lavori flessibili sottopagati e spesso dequalificanti, e ancora più difficile cambiare in meglio la propria condizione di lavoro.
C’è da chiedersi se questa sia una semplice percezione oppure se vi siano alcuni indicatori di questa situazione.
Prendendo in esame la situazione di una macroarea che può però essere indicativa per l’economia del Paese, i dati recenti dei principali rapporti degli osservatori più autorevoli delle tendenze economiche e del mercato del lavoro in Veneto, evidenziano per la prima volta un cambiamento significativo delle tendenze generali. Infatti, per la prima volta dal 1999 si assiste ad un calo dell’occupazione complessiva di fronte ad un trend di crescita economica che continua ad essere caratterizzato dalla “stagnazione”. Questo primo dato raffredda infatti l’ipotesi che ci potesse essere per inerzia un proseguimento illimitato della crescita occupazionale anche in un contesto evidente di difficoltà competitiva dell’economia di un’area. Il Veneto infatti, stando ai dati7, si attesta tra le ultime regioni d’Italia per l’incremento del prodotto interno lordo (pil), con una stima al 31 dicembre 2005 inferiore all’1,2%. Dal 1999 al 2004, nonostante le performance della crescita economica non fossero state esaltanti, ma in tendenza con gli indici generali della crescita italiana e di quella mondiale, l’occupazione, seppure caratterizzata da un tasso sempre crescente di flessibilità, aveva avuto, fino al 2004, un segno sensibilmente positivo. Il fenomeno occupazione senza crescita del Veneto si attestava quindi sulle tendenze del resto del Paese.
Il processo di internazionalizzazione per effetto della globalizzazione dell’economia, ha imposto al sistema produttivo veneto, che è costituito per la maggior parte da un sistema diffuso di piccole e medie imprese, una rapida e traumatica trasformazione, caratterizzata nel corso del 2004 dalla contrazione della domanda di lavoro nei settori manifatturieri, non solo di quelli tradizionali della moda e del tessile, della lavorazione del legno e dei mobili, della meccanica. Il fatto che vi siano dei luoghi, nel mondo, dove i processi di lavorazione e trasformazione delle materie prime, possono avvenire in un quadro complessivo di costi inferiori, garantendo comunque un buon livello di qualità, pone in condizione di grande difficoltà il settore manifatturiero della regione, che oggi si attesta intorno al 40% del valore complessivo della produzione, contro una media del 20%, rappresentato dallo stesso settore in altri paesi sviluppati dell’emisfero occidentale.
Nel corso del 2005, come evidenziano i dati sul ricorso agli ammortizzatori sociali presenti nel rapporto di Veneto Lavoro, il sistema industriale Veneto ha dovuto far fronte a vere e proprie crisi aziendali, caratterizzate da chiusure a seguito di cessazione di attività, riorganizzazioni aziendali e processi di delocalizzazione.
Le persone che si trovano maggiormente coinvolte in queste dinamiche di trasformazione, sono lavoratori adulti over 40 che a causa dell’età, dell’alta specializzazione acquisita nella mansione di competenza, dell’entità del costo del lavoro, si trovano ad affrontare un mercato del lavoro caratterizzato da una forte presenza di lavoro irregolare, da un’elevata mobilità e precarietà, da un fortissimo mismatch tra domanda e offerta.
Il costo umano del processo di trasformazione industriale del Veneto rischia di gravare interamente su decine di migliaia di persone che fino a poco tempo fa non avrebbero mai pensato di vedere messe in discussione progressione di carriera, continuità di lavoro e cont...
