Riprendiamoci il cibo
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Riprendiamoci il cibo

Inchiesta e proposte per un'alimentazione responsabile

Piero Riccardi

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Riprendiamoci il cibo

Inchiesta e proposte per un'alimentazione responsabile

Piero Riccardi

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In tema con il titolo di Expo Milano 2015 "Nutrire il Pianeta, Energia per la vita", un reportage che si legge tutto di un fiato sullo stato del settore agroalimentare in Italia, sui tanti paradossi, sulle difficoltà per chi ci opera e sullo strapotere delle multinazionali. Ma anche una proposta per "ritornare alla terra", che vuol dire guardare al futuro e significa pure lavoro, prodotti di qualità, tutela dell'ambiente, ritorno al vero senso dell'economia. Autore del volume è il giornalista Piero Riccardi, artefice per il programma Report di Raitre di importanti inchieste, imprenditore agricolo e consigliere di una Banca di Credito Cooperativo.

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2.

Paradossi e pentole

Patrick Viveret – filosofo ed economista francese – nel suo Ripensare la ricchezza, ragiona sulla tirannia del Prodotto interno lordo (Pil), il bizzarro indice del benessere, che ci spiega, con dovizia di teoria economica, che il cancro che ci uccide – perché magari abbiamo mangiato una mela con un pochino di pesticida che comunque era nei limiti di legge – ci fa più ricchi, perché prima ha fatto vendere il veleno, poi fa ammalare il contadino che lo spruzza, poi fa lavorare ospedali e medici e infine compensa il becchino che fa la cassa e ci mette sottoterra.
Il Pil è il nostro dio, da quando nasciamo a quando moriamo. Il Pil ci governa. Il Pil ci sveglia la mattina e veglia sul nostro sonno. Il Pil quando va su ci elargisce qualche briciola, quando va giù si riprende tutto, con gli interessi.
Scrive Viveret: “È per questo, lungi dal fatto che l’economia mercantile si accompagni alla generalizzazione del ‘dolce commercio’, che constatiamo che essa si inscrive, al contrario, nella logica di guerra economica, che condanna all’esclusione, alla miseria e spesso alla morte i perdenti di questo gioco pericoloso. […] Una cifra fornita dall’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), riassume da sola il problema: le spese annuali di pubblicità rappresentano dieci volte l’ammontare delle somme che sarebbero necessarie per sradicare la fame, permettere l’accesso all’acqua potabile a tutti gli esseri umani, alloggiarli decentemente, combattere le grandi epidemie”.
Il paradosso del Pil è che è talmente avido e cieco nel suo gioco pericoloso da innescare continuamente un auto da fé sempre più totale in cui il perdente, la vittima ultima – con gli umani già trasformati in consumatori – è la Terra stessa, il cui sacrificio include aria e acqua. Ma il pianeta, la Terra, non morirà, con un blip si trasformerà, magari diventando un Marte, torrido o gelato, ma non morirà. Diverrà altro. Saremo noi umani a non essere più inclusi. Saremo noi a scomparire, non la Terra. L’agricoltura che vive di terra, di acqua e di aria è il paradigma di questi paradossi. L’agricoltura e il suo prodotto: il cibo.
L’altro giorno incontro un conoscente di un paese vicino. Non so perché finiamo a parlare di riscaldamento in casa. Mi dice che lui ha trasformato la caldaia del suo impianto in una alimentata con quei bastoncini di segatura pressata che si chiamano pellet. Si trova bene. La casa è calda. Lui risparmia. Poi mi butta lì: “Anzi quest’anno sto risparmiando ulteriormente, sai, invece del pellet, uso il mais”. Mi dico, forse non ho capito bene. Me lo faccio ripetere. “Sì, uso il mais, brucia bene e mi costa meno del pellet.”
A casa apro una rivista del settore. Nelle ultime pagine le quotazioni della Borsa agricola, scorro con lo sguardo: animali da macello, frutta, ortaggi. Cereali. Leggo che il mais è quotato intorno ai 14 euro al quintale. È così da qualche mese ormai. Quattordici euro per cento chili. Che fanno 14 centesimi al chilo. Quattordici euro al quintale. Nulla, una miseria. Talmente basso il suo valore che vale la pena bruciarlo. Un sacchetto di 25 chili di pellet costa 4 euro e 50. Cento chili fanno 18 euro: 4 euro in più del prezzo di cento chili di mais. Risultato, molti, dalle mie parti, di quelli che hanno le stufe a pellet, risparmiano usando come combustibile il mais.
Il pellet, segatura di legno, vale più del mais, che è un cibo. Un paradosso, ma l’agricoltura di oggi è piena di paradossi.

Paradosso n.1: le uova

Nel 2009, dovevo realizzare un’inchiesta per Report dal titolo “Carne”. Un viaggio dentro quello che viene considerato “il cibo per eccellenza”, simbolo di benessere, di una società ricca, rapido da cucinare, pratico, moderno. Ideale per chi vuole dimagrire: eliminare pane e pasta e al loro posto un petto di pollo scottato ai ferri. Olio, un filo. E incrocio questa storia.
Si svolge in Veneto, in quella parte di Veneto dove si sono concentrati tra polli, tacchini e ovaiole qualche milione di volatili. Qualche altro milione sono in Emilia Romagna e Lombardia, tutti e tre a formare quel triangolo ideale dove le tre regioni si toccano. Perché qui? Perché vicino c’è il porto di Ravenna che è il più grande attracco per le navi silos che sbarcano cereali da mezzo mondo e poi perché intorno ci sono i mangimifici che contano, che fanno i grandi numeri. La parola magica è “economia di scala”, ovvero se i ricavi diminuiscono ti devi ingrandire e abbassare così i costi, diventare sempre più grande per avere lo stesso reddito. E così intorno al porto e ai mangimifici sono sorti i grandi agglomerati di polli, di galline, di tacchini che sfornano carne e uova per l’Italia intera, Sicilia compresa. Qualche tempo fa, durante un viaggio in Sicilia appunto, ho potuto verificare che nei supermercati nove uova su dieci venivano dal triangolo del nord, ovviamente trasportati via tir per mezza Italia. Con quanto gasolio bruciato? copertoni e asfalto consumati? Questo l’economia di scala non lo conta. Lo conta però il magico numerino della slot machine del Pil che fa guadagnare punti.
Ma torniamo all’inchiesta da filmare, dunque se nel nostro triangolo d’Italia ci sono milioni di polli, galline e tacchini che mangiano, ce ne sono altrettanti, gli stessi, che producono escrementi. Centinaia, migliaia di quintali di escrementi quotidiani che non possono più essere sparsi nei terreni circostanti. Produrrebbero un apporto di nitrati tale che renderebbe inquinati terreni, fiumi e falde profonde. La soluzione? Farne energia elettrica.
Prima delle riprese faccio le mie solite ricerche e trovo la storia giusta. Da una parte un grande allevatore di galline ovaiole in provincia di Padova. Ne ha 280.000. Non è enorme, Altri ne hanno anche milioni di galline, ma insomma è grande, di letame ne ha parecchio, troppo, e vorrebbe mettere su un impianto di pirogassificazione per farne energia elettrica. Dall’altra gli abitanti del paesino, atterriti dall’impianto. Sostengono che i fumi appesterebbero l’aria, ricadrebbero sulle loro case, sui giardini, sugli orti. Si sono organizzati in comitato e cercano così di ostacolare il progetto.
Studio la pirogassificazione del letame di gallina. In pratica, gli escrementi gassificati ad altissime temperature alimentano un generatore che a sua volta produce energia elettrica.
Detto così sembra semplice. E sostenibile. Ma quando mi mostrano il progetto vero e proprio, la realtà risulta diversa. Il letame è semiliquido, mi spiegano, e prima della pirogassificazione deve essere essiccato. Nell’operazione, poi, c’è bisogno di un grande quantitativo di cippato (legna, cioè, ridotta in scaglie) e dunque una parte degli ettari aziendali, invece del mais per alimentare le galline, deve produrre pioppi da legna. Inoltre, l’impianto di pirogassificazione, per quanto questa possa essere considerata una tecnica pulita, emetterà 186 grammi orari di polveri contro i 6 di un grande camion, e questo significa che il pirogassificatore in funzione equivarrà a 31 Tir, fermi sul posto con i motori accesi al massimo, 24 ore su 24. E ancora: 6 Tir saranno di monossido di carbonio e 3 Tir di ossidi di azoto – gli ossidi di azoto producono gas serra 211 volte più dannosi della CO2 –. Bisogna anche calcolare mezzo chilo l’ora di ossidi di zolfo, potente inquinante perché è pesante e tende a ristagnare al suolo, a legarsi con le molecole d’acqua dell’umidità e della nebbia della Pianura padana diventando così acido solforico, che brucia i polmoni se respirato e che è causa delle piogge acide. Insomma, non è proprio un gran bel respirare stando a questi dati, visto che intorno ci sono appunto le case abitate con bambini, giardini, orti.
Ma non eravamo partiti da uova? E non è finita. Produrre energia elettrica con la pirogassificazione del letame di gallina ha dei costi tre volte superiori a quella venduta sul mercato elettrico. Dunque per far sì che qualcuno la produca deve essere pagata ancora di più, per esempio quattro volte tanto. La soluzione: far rientrare gli escrementi semiliquidi di un allevamento super intensivo di galline come combustibile che usufruisca degli incentivi statali per l’energia prodotta da fonti alternative. Vale a dire che chi la produrrà avrà un incentivo di prezzo quattro volte quello delle energia elettrica di mercato.
Il giorno delle riprese, oltre ai due attuali titolari, era presente il vecchio capofamiglia, colui che aveva fondato l’allevamento. Mi racconta che molti anni prima aveva dato vita all’attività con qualche centinaio di galline. All’inizio funzionava, ma ben presto si scontra con quello che gli spiegano si chiama la legge della domanda e dell’offerta. In pratica, lui che produce le uova non può stabilirne il prezzo di vendita, il prezzo lo fissa chi compra, in ultima analisi la Gdo, la Grande Distribuzione Organizzata. Insomma, quando i prezzi delle uova scendono gli dicono “sei piccolo, devi crescere, altrimenti andiamo a comperare le uova da qualcun altro”. E lui cresce. Impara presto: i prezzi scendono e lui aumenta il numero di galline, poi aumenta anche le ore di luce, così che le galline, vivendo in giornate che non hanno mai fine, mangiano in continuazione e depongono più uova. “Oggi però, anche con 300.000 galline”, mi spiega uno dei figli, “sei piccolo”. E c’è il letame, non sappiamo più dove spargerlo.
“Qual è il prezzo di vendita di un uovo?” chiedo.
“Le uova non si vendono a numero” risponde.
“E come si vendono?”
“A chilo.”
Non l’avrei mai detto, noi consumatori generalmente comperiamo le uova in confezioni da 6 o da 4, negli Usa – che fanno le cose in grande – ho visto nei supermercati confezioni da venti e anche più, ma comunque sempre in numero fisso.
“Un chilo di uova ce lo pagano circa 1 euro. I margini sono all’osso, troppo rischioso pure pensare di fare nuovi investimenti”.
“È per questo che volete fare energia elettrica?”
Mi portano in ufficio, tra disegni di progetti, impianti, analisi di impatto ambientale e grafici, mi mostrano alcuni calcoli e qui avviene la sorpresa: se con la produzione di uova andavano quasi in pari tra costi e ricavi, con l’energia elettrica avrebbero guadagnato un bel mucchio di soldini, sovvenzionati ovviamente.
Stessa storia del mais: il mais vale meno della segatura del pellet, le uova delle galline valgono di meno della cacca prodotta dalle stesse galline.
Qual è la razionalità di questo modello? E soprattutto perché noi siamo disposti a pagare pochissimo per quelle uova e tantissimo per la cacca delle loro galline? Questo è il punto. Potremmo rispondere che non lo sappiamo, che noi stiamo comperando solo delle uova e se costano poco tanto meglio per il nostro portafoglio, che il resto non ci riguarda, che è un altro problema. Forse bisognerebbe capire che è tutto connesso. Che il portafoglio con cui pago troppo poco le uova è lo s...

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