CAPITOLO 1
L’ITALIANO IN TRIBUNALE
La lingua italiana è finita di fronte alla Corte Costituzionale per colpa dell’Università. La vicenda è cominciata nel 2012, quando l’allora rettore del Politecnico di Milano, il prof. Azzone, fece approvare una norma in base alla quale si avviava l’eliminazione dell’italiano nei corsi avanzati della laurea magistrale e nei dottorati. Un colpo di mano del genere, messo in atto in una scuola grande e famosa, provocò molte discussioni. Un centinaio di professori dello stesso Politecnico si ribellarono, rivolgendosi al TAR, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, e nel 2013 il TAR diede loro ragione. Nel frattempo, dopo le polemiche giornalistiche molto vivaci, era anche uscito un bel libro a cura dell’Accademia della Crusca, che proponeva in maniera equanime tutti i punti di vista possibili sulla questione (conteneva anche qualche intervento un po’ vivace, a dire la verità: così quello dello scrittore e docente universitario di letteratura tedesca Claudio Magris, giustamente spazientito da quella che gli pareva “una gag” del Politecnico, più che una proposta seria). Il titolo del libro era segnato dal vistoso punto interrogativo: Fuori l’italiano dall’università? I vari saggi e interventi raccolti in quelle trecento pagine contenevano qualche “sì” alla riforma di Azzone, ma anche molti “no”, talora recisi1.
La nostra storia comincia qui, con il provvedimento del Politecnico di Milano e con il volume curato dall’Accademia della Crusca. Come ho detto, il tentativo di eliminare la lingua italiana da vari corsi di laurea del Politecnico fu bocciato fin dal 2013 dal TAR. La giustizia amministrativa prevede, come ovvio, la possibilità dell’appello: non si diedero per vinti, il rettore di Milano e, con lui solidale, l’allora ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Si rivolsero al Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, nel gennaio del 2015, con l’ordinanza n. 242, si rivolse alla Corte Costituzionale per verificare se alcune norme della riforma universitaria, sulla quale si era basato il rettore di Milano per la sua scelta pro-inglese, fossero legittime. La sentenza della Corte Costituzionale venne resa pubblica circa due anni dopo, nel mese di febbraio del 2017 (porta il numero 42/2017), e questa è stata l’occasione per questo mio intervento di fronte ai colleghi giornalisti toscani.
La Corte Costituzionale ha dichiarato legittime le poche righe della riforma universitaria “Gelmini” sottoposte alla sua attenzione (art. 2, comma 2, lettera l, legge 30 dicembre 2010, n. 240). Si tratta dell’articolo che prevede un “rafforzamento dell’internazionalizzazione” attraverso una serie di modalità, tra le quali gli “insegnamenti”, i “corsi di studio” e le “forme di selezione”, attivabili “in lingua straniera”. La legge, per la verità, non afferma che la lingua straniera sia una sola. A rigore, il problema avrebbe potuto porsi anche per i corsi in francese o in tedesco; ma naturalmente non è stato così: la lite si è scatenata solo per l’inglese. La Suprema Corte, comunque, non ha dichiarato illegittime le indicazioni della legge, le quali restano perfettamente valide, ma le ha interpretate. Ora tutti si dovranno attenere a quest’interpretazione. La partita, però, non è ancora finita. La questione è destinata ad agitare ancora le menti e quasi certamente il dibattito tornerà all’onore delle cronache.
Veniamo tuttavia al merito della questione: al rapporto tra la legge di riforma universitaria, la cosiddetta “legge Gelmini”, e le decisioni della Corte. Gran parte della discussione gravitava attorno al peso e valore di una sola parola-chiave presente nella legge, la parola “anche”. L’internazionalizzazione – dice la legge Gelmini – si deve conseguire “anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”. Che cosa significa quell’“anche”? Come dobbiamo interpretarlo? Vuol dire che i corsi in inglese possono soppiantare completamente quelli in italiano, o vuol dire che essi si devono aggiungere a quelli in italiano? La Corte Costituzionale ha stabilito che “anche” significa un’aggiunta, e che mai e poi mai una lingua straniera può rimpiazzare la lingua italiana.
La sentenza della Corte Costituzionale è molto bella, molto ben scritta. Contiene principi dettati da un profondo senso dello Stato, trasmessi con tutta l’autorevolezza necessaria. Eppure, quando nel mese di febbraio del 2017 la sentenza n. 42 è stata resa nota, si è scatenata sui giornali una polemica caratterizzata dalla sordità e dal disprezzo per la lingua italiana, con una determinazione quale mai si era vista prima. Secondo coloro che protestavano contro la Corte, l’unica possibilità di sopravvivenza della scienza e della cultura nelle università italiane era affidata proprio all’abolizione dell’italiano. Noi italiani siamo indubbiamente molto propensi a confondere l’internazionalizzazione con l’abolizione di qualunque sentimento di identità nazionale. Sabino Cassese, in un’intervista sul “Foglio” del 7 marzo 2017 legata alle polemiche sulla sentenza 42, arrivò a sostenere che la proposta ...