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Informazioni su questo libro
Affascinante affresco letterario che percorre la vita, tra Medioevo e Rinascimento, del nobile Fortebraccio da Montone, "umbro doc" e capitano di ventura. Diventato signore di Perugia, coltiva "il Grande Sogno": diventare il primo re d'Italia, cacciando le presenze straniere e limitando il potere papale alle anime. Conquista, quindi, tutta l'Italia centrale, spingendosi fino a Roma.
Il sogno sta per realizzarsi, ma il nuovo Papa Martino V (della famiglia romana Colonna, nemica dell'Umbria) simulando un negoziato, ingaggia una guerra all'ultimo sangue, che porterà alla cattura quindi alla condanna definitiva di Fortebraccio da Montone.
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Informazioni
«Profanare un sepolcro. Capisci, amica mia? Quei senza Dio scoperchiarono la tomba a due mesi dalla morte, tirarono fuori quella povera salma, la legarono alle caviglie con una cordaccia di canapa e la trascinarono per le vie fino in piazza! Lì, rimase esposta alle ingiurie del volgo per ben tre giorni, bersaglio di sputi, di sassi, frutta marcia. Era il padre di mio padre, Andrea Montemelini, uomo probo, stimatissimo e dotto. Per giustificare quell’atroce sacrilegio, diffusero ogni tipo di calunnia sul suo conto.»
Mentre donna Giacoma si lascia andare così, qualcuno è in ascolto: dietro la spessa tenda di velluto rosso tirata sull’ingresso del salone, c’è Andrea, uno dei figli, di undici anni. Lei stessa ha voluto dargli il nome di quel Montemelini dissepolto e oltraggiato.
Il ragazzino ascolta, immobile, contratto, quasi senza respiro, la piccola mano aggrappata al bordo della tenda. Nei suoi occhi grigi non ci sono lacrime né traccia d’incanto; le parole della madre li attraversano come nubi scure e veloci; occhi sgranati, in cui il pensiero vorrebbe raggelare l’emozione.
È il 1380. Donna Giacoma, da tre giorni vedova di Oddo Fortebracci, si sfoga così con Berenice, un’amica venuta a portare le sue condoglianze. Nel rievocare quell’infamia, sul pallido viso trapela tutta la fierezza della famiglia d’origine, una schiatta che i governi popolari perugini hanno combattuto con ogni mezzo, un cognome costantemente annotato nel libro rosso dei nobili banditi.
«Ma non bastò. Cacciarono via dalla città come cani arrabbiati anche i due figli ancora piccoli. Quindi, per completare l’opera, dettero alle fiamme e rasero al suolo il nostro amato castello di Montegualandro. Tutto per un’accusa priva di fondamento: aver tradito la parte guelfa e i concittadini per intendersela di nascosto con l’Imperatore.»
Giacoma sa che l’odio arde ancora come la sterpaglia a tramontana, un odio che minaccia e contamina pure lei. Al pari dei Montemelini, anche i Fortebracci sono costretti a fare i conti con pericoli quotidiani e micidiali, nella natia Montone come a Perugia, loro patria adottiva.
«La verità è che ce l’hanno con noi aristocratici, vogliono soppiantarci per tenere le mani sul potere, un potere che non sono capaci né degni d’amministrare. Beccherini, ci chiamano con disprezzo, paragonandoci ai falconi rapaci per la caccia. La verità è che disprezzano la buona educazione e la cultura, il gusto, la grandezza d’animo. Tu stessa puoi giudicare, adesso che sono al potere questi popolari, questi bottegai mercanti strozzini, gente convinta di poter comprare tutto col denaro. Sì, oggi comandano quelli del popolo grasso, i Malacoccia, gli Zeppa, i Pocciarelli. Che grandi nomi! Gentaglia che ha preso il posto dei Montesperelli e Della Corgna, delle grandi famiglie nobilitate dal valor militare e dal culto del diritto. Questi settari li hanno perseguitati e spogliati, non pochi ne hanno consegnati alla scure del boia, moltissimi esiliati, com’è accaduto più volte al mio povero marito.»
Berenice ascolta con gli occhi sbarrati, bevendo quelle parole come una pozione. Fra sé e sé le rimastica incredula, ma tace, con prudenza. Vuol bene a Giacoma, anche se diffida del suo orgoglio troppo ardente, del desiderio di vendetta che cova in fondo a quell’anima senza pace. Fa cenni accorati col capo, si guarda intorno, la invita a controllarsi con uno sguardo implorante. Quindi posa la mano un po’ tozza su quella diafana dell’amica, che prosegue imperterrita.
«A Perugia, molti nobili preferiscono tacere, lasciar fare, subire, per paura e per calcolo. Li chiamano gli accomodanti. Tra loro c’è chi ha comprato il titolo facendo il commerciante, come i Boncambi, un nome che già la dice lunga.»
Giacoma sottrae la mano alla carezza della visitatrice, infastidita da quella che considera nient’altro che vigliaccheria. Sospira, occhi al cielo, e ripiglia con stizza.
«Questi nuovi padroni, per giunta, opprimono anche il popolo minuto, l’autentico ceto popolare, li trattano ben peggio di quanto abbiamo mai fatto noi. Ma non è detta che gli andrà sempre bene, che i lavoranti continueranno ad abbozzare. Basta pensare a quel che hanno combinato i Ciompi a Firenze, non più di due anni fa, quando le prepotenze dei mercanti di lana hanno passato il limite della cristiana sopportazione.»
Nel dire questo si fa il segno della croce con un gesto nervoso. Guarda con severità Berenice, che si segna a sua volta lentamente, con comica circospezione.
Donna Giacoma è chiusa nel mantello nero del lutto vedovile. Parla a bassa voce, ma assai concitata, quasi sibilante, i grigi occhi accesi e stanchi. Siedono una di fronte all’altra, sui gradoni prospicienti la sua finestra preferita, nella grande sala a pianterreno del palazzo di Montone. Da lì ha atteso tante volte il ritorno del marito, scrutando la strada in lontananza, tendendo le orecchie al suono degli zoccoli o a quello del corno.
Oddo è morto di crepacuore a meno di cinquant’anni. Un ottimo soldato e insigne giureconsulto, secondo la tradizione di famiglia. Nel 1372 è stato persino Capitano del Popolo a Firenze, città da tempo amica dei Fortebracci. Lignaggio e qualità, tuttavia, non gli hanno risparmiato i colpi della vita. Di carattere altero e impetuoso, ha sempre difeso a oltranza le proprie posizioni e le prerogative familiari, s’è battuto strenuamente per la causa dei nobili, fino a distinguersi tra i più facinorosi e ribelli. Più volte l’hanno bandito, per poi riammetterlo a condizioni pesantissime. L’ultima volta che l’hanno scacciato da Montone è stato nel 1378, un colpo fatale per il suo cuore già provato: era appena stato riammesso, ma a condizione che consolidasse a proprie spese le difese della Rocca d’Aries, un impegno da prosciugare tutto il patrimonio di famiglia.
Giacoma sa che avrà vita dura, con sei figli ancora infanti o adolescenti. Le fazioni e le famiglie avverse ai Fortebracci non risparmieranno i colpi, ora che li sanno deboli e indifesi. Rabbrividisce e sospira.
«Berenice mia, lo sai anche tu quanto si accaniscono contro di noi, qui a Montone. Non sono ancora passati cento anni da quando Faziolo dei Ranieri ordì la più infame delle congiure e fece strage degli antenati di mio marito.
Raccontano che accadde nel mese d’agosto, in una notte afosa e senza luna. Entrarono nel palazzo dalle finestre aperte, come diavoli invisibili, e li sgozzarono uno a uno mentre dormivano tranquilli. Toccò a Fortebraccio, a sua moglie Platina, a Rubeo, Baldello e Gezzolo. Sparsero tanto di quel sangue da inzuppare i muri e i pavimenti, da inondare anche il lastrico della strada.»
Berenice sgrana gli occhi, si porta una mano alla bocca, poi si segna.
«Gesù, che orrore! Avevo sentito dire qualcosa, ma non immaginavo… Nessuno della famiglia si salvò?», chiede con una voce rotta dall’orrore.
«Solo i tre figli piccoli di Rubeo: Oddo, Braccio e Griffolo. Povere creature! Qualche anima caritatevole li portò a Perugia in un carretto, nascosti sotto un carico di oliva. Furono fatti cittadini e affidati dai Priori a un tutore che dava buone garanzie. Con le sostanze che s’era riusciti in qualche modo a salvare, fu comprata una casa.
Quasi cento anni da quel fatto orrendo; anni di paure, di lotte, di minacce senza interruzione. Nulla è cambiato, il tempo non ha sanato nulla; anzi, l’odio è sempre più crudo, devastante.»
***
Montone è inerpicata fra due colli, a mezza via tra Perugia e Città di Castello. A levante c’è il fiume Carpina, a sud il Tevere, a nord gli Appennini. Una posizione strategica, proprio sulla via che collega la Val Tiberina con la Flaminia. L’aria è temperata e secca, la campagna ben disegnata, la terra fertile. Sul Monte, il maggiore dei due colli, ci sono la Fortezza, dimora del Castellano, e la Collegiata, sede dell’Arciprete. L’altro colle è chiamato Castel Vecchio, con la chiesa di San Francesco e il convento. La piazza sta più in basso, proprio in mezzo alle due alture.
A quel tempo la cittadina era divisa in tre rioni: il Monte, il Borgo e il Verziere. Tra quelli si distribuivano circa centocinquanta focolari. Proprio per la sua ottima posizione, Montone era contesa fra Città di Castello e la guelfa Perugia, che aveva il potere in quel momento, nominando sia il Castellano che il Podestà.
Per i Fortebracci Perugia costituiva una seconda patria, perché ne erano cittadini da molto tempo e possedevano un bel palazzo, registrato al catasto nel quartiere di Porta Sant’Angelo, parrocchia San Donato. Anche per questa ambivalenza, venivano osteggiati da alcune famiglie di Montone legate a Città di Castello, tra le quali spiccavano gli Olivi.
Quanto a Perugia, ormai da moltissimi anni era teatro di aspri scontri fra nobili e popolari, chiamati anche Raspanti dal loro animale simbolico, il gatto. Di fatto gl’interessi dell’aristocrazia erano incompatibili con quelli degli artigiani e dei mercanti, organizzati in robuste associazioni di mestiere. La Mercanzia e il Cambio prevalevano sulle altre, come Lana, Taverna e Macello, condizionando la politica del Comune. Una città senza pace, di gente bellicosa e grifagna, ottimamente addestrata alle armi, che spesso vedeva il nemico più nel vicino di casa che nell’invasore. Come se non bastasse, i Perugini erano assai insofferenti nei confronti del dominio papale, nonostante le cinquantaquattro parrocchie e gl’innumerevoli conventi, Minori, Camaldolesi, Templari, Dominicani, senza contare le suore di clausura.
Nel 1376 Beccherini e Raspanti s’erano alleati nella sommossa contro l’Abate di Montemaggiore, detestato rappresentante di Roma. Dopo aver buttato giù la rocca di Porta Sole, sua sede, si erano proclamati liberi e indipendenti. L’accordo, tuttavia, era durato quanto una farfalla a febbraio. Ben presto i popolari, ricchi e organizzati, s’erano impadroniti in esclusiva del governo, anche a costo di fare nuovi atti di sottomissione al Papa, e avevano mandato in esilio i maggiori rappresentanti dell’aristocrazia.
In quel periodo, peraltro, tutta l’Italia vedeva gruppi e fazioni contendersi con ogni mezzo la supremazia, città per città, contrada per contrada. Qualcuno aveva tentato d’approfittare di quella frammentazione per affermare il proprio potere su tutta la penisola, ma senza successo. Persino Federico II aveva fallito nel sogno di edificare e reggere un Regno Italico. Proprio quella sconfitta, il venir meno d’una grande minaccia esterna, aveva riacceso le lotte intestine.
Per non parlare dei soldatacci che, dopo lo scioglimento dell’esercito imperiale, s’aggiravano sbandati nel Paese in cerca d’ingaggi e prede. Ben presto iniziarono ad aggregarsi e organizzarsi, nacquero le condotte, compagnie di soldati di ventura della cui opera violenta molti s’avvalevano senza scrupolo, alimentando un vero e proprio mercato della guerra. Fossero Bretoni, Svevi, Boemi, Provenzali o Ungheresi, questi figuri s’ingrassavano coi soldi delle fazioni italiane. Qualcuno li associava alle grandi calamità, come la peste nera a Napoli, i crolli bancari di Firenze, il terribile inverno del 1339, che tutte insieme sembravano manifestare un violento malumore del cielo. Contro le “peregrine spade” ci fu una campagna spontanea e appassionata, a cui parteciparono anche Francesco Petrarca e Caterina da Siena.
La Chiesa, per parte sua, passava seri guai, non certo indenne dal male del particolarismo. Erano gli anni dell’antipapa, quel Clemente V eletto dai cardinali francesi, che aveva fissato la propria residenza ad Avignone. Senza scordare che l’unità dei cattolici veniva messa a dura prova in varie parti d’Europa da movimenti eretici fitti e bellicosi come sciami di vespe.
Quando muore Oddo Fortebracci i mercenari italiani un po’ alla volta stanno soppiantando gli stranieri. Questi nuovi professionisti della guerra sono cadetti di grandi famiglie, nobili esiliati o anche criminali sfuggiti alla giustizia. Uomini senza stato, votati all’avventura, figure suggestive e inquietanti, che in breve tempo accumuleranno ricchezze e credito, diventeranno il simbolo del valore e dell’avventura, eredi delle grandi tradizioni cavalleresche.
***
Negli occhi di donna Giacoma non ci sono lacrime, ma solo un’ombra lunga, che sembra proiettarsi verso il tempo futuro. Come ipnotizzata dalla luce opaca che entra dai vetri, senza volgere il viso, riprende quella specie di soliloquio, nel quale la presenza di Berenice è solo un pretesto.
«Guardo i miei figlioli intenti al gioco e subito mi si spegne il sorriso sulle labbra. Che accadrà di loro, povere anime innocenti? Non saranno mai al sicuro. In troppi bramano i nostri beni, la nostra posizione. Qui a Montone, gli Olivi; a Perugia i più avidi e facinorosi dei Raspanti. Che può fare una madre in questa situazione? Adesso che Oddo non c’è più, dovrò temere l’agguato in ogni momento del giorno e della notte. Non so nemmeno a chi potrei chiedere protezione, e quanto mi costerebbe. Senza contare che diffido di quei soccorsi che hanno solo le sembianze della misericordia.»
«Siete ancora giovane, signora.», quasi balbetta Berenice, «Una bella donna, colta, elegante. Si potrebbe pensare…».
«Per l’amor del Cielo! I miei figli sono dei Fortebracci!», la interrompe la vedova come se avesse udito una bestemmia.
Quando sua madre conclude quelle angoscianti dissertazioni per affidarsi con indulgenza al conforto di Berenice, Andrea si stacca dalla tenda di velluto rosso e s’allontana in punta di piedi.
Gennaio, il palazzo è gelido, investito dalla tramontana. Le mura gli sembrano ostili anche da dentro, incapaci di offrire vera protezione. Freddi anche i suoni che arrivano dal cortile e dalla strada. Andrea attraversa col cuore in gola le stanze buie, nel buio dei suoi sentimenti, di pensieri ancora senza ordine, cupi e dolorosi, che lottano per conquistare un po’ di chiarezza. Va da una stanza all’altra, come se volesse perlustrare gli spazi dove i suoi cari vivono nella clausura del lutto.
Monalduccia e Giovanna pregano sotto gli occhi di suor Caterina e neppure s’accorgono del fratello che passa. Carlo legge: Andrea lo scorge di spalle, nel vestibolo, isolato dal resto della famiglia. Nel salone d’onore un servo sta passando la spazzola sopra un arazzo, mentre dalle stalle arriva il suono del maniscalco che ferra a fuoco. Il fanciullo si ferma per qualche istante, non sa dove andare. Un odore inopportuno d’arrosto viene su dalle cucine. Stella e Giovanni, i fratelli più piccoli, giocano ai cavalieri, ignari del male che li sovrasta.
Stella. La sua strana, ardente sorellina, che rifugge dalle bambole e gli trotterella sempre appresso.
La casa è troppo chiusa, troppo triste, somiglia a una prigione. Il ragazzo esce nel sole, nel vento freddo che viene da nord-ovest. S’allontana verso un punto che non sa, senza mantello, senza espressione nel volto. Cammina veloce, non guarda nulla e nessuno, a testa china, gli occhi divenuti due lunghe fessure. Uscito dalla porta nord, si butta verso la campagna, si mette a correre, correre, correre. Corre in mezzo ai campi di grano ancora verde, verde come ogni cosa che nasce, come la maledetta speranza che vuol sempre mostrare le cose migliori di quanto sono. Corre fino a sfiatarsi, poi crolla in terra sotto una quercia gigantesca, le guance rosse e i capelli scarmigliati.
Da lì si vede nitida la piana del Tevere, larga sotto il colle di Montone, i campi coltivati a perdita d’occhio, giù giù verso Città di Castello. Dietro, in direzione delle Marche, i monti severi dell’Appennino, ancora immobili, immersi nell’inverno.
Col suo piccolo corpo, Andrea sta al centro di quello spazio enorme, ma rimane asserragliato in sé stesso, nella dimensione angusta del dolore e della rabbia, dell’inadeguatezza. Vorrebbe capire, trovare la strada, ma la testa sembra sul punto di esplodere e allora torna a correre, per allontanarsi sempre più.
Si ferma davanti a una catasta di legna: quei tronchi di quercia gl’ispirano qualcosa. Inizia a costruire una specie di fantoccio, il tronco, la testa, una lancia. Raccoglie dei sassi e li raduna con calma. Con calma, con violenza e costanza, li scaglia contro quella sagoma, colpendo con una precisione quasi magnetica. Ogni volta che la grande testa cade, lui la rimette sul tronco, per un’interminabile serie di volte. Alla fine afferra un ramo pesante, lo impugna come fosse una mazza e colpisce con furia fino a piagarsi le mani, fino a cadere in terra stremato. Ansima e raspa la terra con le unghie. Ma non piange.
Solo dopo aver ripreso fiato, il viso affondato nella terra smossa, Andrea alza il capo. Lo sguardo s’allarga al paesaggio che lo circonda, come se uscisse da un pozzo nero a riscoprire il mondo. Il sole di gennaio, il vento, ogni cosa gli appare talmente bella da risultare crudele, così consueta e cara da somigliare a un inganno. Le mura alte di Montone, il campanile, la torre, le piagge d’olivi tutte intorno, uno stormo di tordi.
All’improvviso sa, conosce il suo destino, ha deciso:...
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