MEMORIA E MEMORIE
Le memorie. Perché, per chi si scrivono. Per vanità, suggerì Giuseppe Prezzolini che a 94 anni se ne sentiva crescere delusi rimorsi; mi aveva mandato nel 1976 l’appena suo stampato carteggio con don Giuseppe De Luca: «L’autobiografia è l’ultimo dei generi letterari, sorge quando si finisce per pensare a se stessi, l’egoismo dei vecchi non è un vizio, è un’autodifesa come l’incoscienza dei bambini. Ora, tu lo vedi, mi piace parlare di me».
La dedica di Prezzolini insisteva: «Carissimo amico, autore, ancoratore», la parola desueta mi rammentava il ruolo di rammentatore del suo passato che tante volte avevo tenuto con lui, «d’uno che fissa il vascello perché presenti una fiancata al vento e si possa cannonare meglio», e ora ribatteva il dovere che m’ero assunto, ventenne, di strappare dalla spoglia del latinista mio padre, che intanto era morto a Venezia il 15 Febbraio 1949, la condanna per “concorso morale in omicidio” che una corte d’assise di partigiani bolognesi aveva emesso nel 1946. Questa sozzura era stata, come allora si diceva, cassata, ossia buttata nel pattume, molti anni più tardi, con le sozzure compagne. Il suo grado di professore di “latino e greco” era già stato restituito al Babbo nel licei classici, anzi, nel virgiliano sommo, di Mantova.
Erano favole e progetti nati nel ministero amico, non vendicativo, ma privo di forze e di mezzi. La famiglia si sgretolava, un pezzo dopo l’altro; il Babbo, rinchiuso in uno dopo l’altro di carceri diversi. A Bologna, erano in dodici in una sola cella fatta per cinque; col Babbo erano pigiati tre generali dell’Esercito repubblicano e della GNR, un colonnello tedesco e poi questori, prefetti; l’ex direttore del “Carlino” Giorgio Pini, che presto rivelò d’essersi distaccato dai compagni vinti e incline ad un passaggio coi “vincitori” del PSI.
La mamma, valentissima insegnante d’inglese, era “epurata”: guadagnava in decine di lezioni la vita per tutti noi, liberi e carcerati. La casa che lei e il Babbo avevano eretto nel 1936, ci era stata tolta per metà, la mamma costretta a lavare le stoviglie in una stanza qualunque, donne di servizio non ne avemmo più, non si poteva permettere che la sposa di un carcerato avesse aiuti dal popolo lavoratore. Rimase sola con la Paola, la mia sorella dolce e fragile, nel mezzo appartamento che la “Commissione degli alloggi” ci aveva lasciato.
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La Roma “liberata” in cui lo zio Mario De Bernardi mi condusse alla fine del Maggio 1945 era uno spettacolo sguaiato e insieme affascinante, una fetta di cattivo partitismo variante, rissoso, trafficone. E lui tentava di cavare fuori da quel ch’era ridotta l’aviazione italiana qualche rottame, si esibiva nella sua bravura di progettista acrobata e collaudatore; riuscì a progettare e a far volare una coppia di monoplani da turismo, sognava di rimettere nel cielo una nuova modesta Italia. Fu ucciso di gioia, molti anni più tardi, il giorno di presentare a una piccola folla la sua conquista: che rimase intatta, a terra il motore ben avviato mentre l’aviatore, dopo anni di fatica, chinava la testa ucciso dall’infarto su comandi ormai inutili.
Mi portò in volo, negli anni che seguirono, con sua figlia Fiorenza, tuttora vivente, che aveva guadagnato i gradi di “comandante”.
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I De Bernardi abitavano dove la via Panama, confinaria del quartiere ch’era detto di Villa Savoia, raccoglieva la più breve via Lima e si slanciava verso la via Salaria nella corsa al piccolo aeroporto ch’era detto ancora “del Littorio” e ora s’intitola a lui, il mio comandante.
Dalla parte opposta, da via Veneto a via Piave, alla fine di via Sicilia (non so se sia dopo sessant’anni uguale) sorgeva la mole azzurrina del liceo Tasso che aveva dovuto prendersi anche i nomi e le funzioni di quel che s’era chiamato “Regina Elena” in viale Parioli, trasformato dai liberatori americani in un loro rumoroso deposito.
La mia “prima Liceo” era un curioso e bizzarro agglomerato di quattro ragazze e una quarantina di maschi. Il più anziano era fuggito dalla Lombardia dov’era stato nella Guardia nazionale. Facevamo lunghe passeggiate a piedi, nostro ritrovo divenne il convento di San Giuseppe in via Nomentana, covo di fascisti latitanti e tedeschi, e, dall’altra parte della grande via, l’ampia casa accogliente dell’ingegner Landi, e poi di suo figlio Pietro. Preside del “Regina Elena” era un professore di greco, siciliano tutto scatti, che si chiamava Beniamino Stumpo. Benché “epurata”, la mamma volle conoscere questo mio preside che la ricevé, mi pare, in una delle feste di Natale. Il preside Stumpo risultò lettore e estimatore del Babbo, ricordò subito Il Libro di Didone e altri titoli, apprese con una costernazione, «prossima alle lagrime», disse poi la mamma, quel destino politico che aveva colpito il Babbo. Una visita ai registri della scuola, che il preside fece portare, la persuasero che nella casa degli zii non facevo proprio niente.
In un raduno romano del 1996, dedicato alla spudorata persecuzione che questa repubblica infame tenne lungo quattro decenni col quasi centenario Erich Priebke, venne a conoscermi il professor Silvio Vita, figlio di una ragazza ch’era stata una delle mie quattro compagne della prima liceale di quella scuola, e mi raccontò le imprese, dall’autore dimenticate, di colui ch’era chiamato, nei dintorni di via Sicilia, “il terrore del Tasso”.
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Né al preside Stumpo, né a mia madre avrei mai potuto raccontare che cos’era stata, che cosa rappresentava per me, non ancora quindicenne, la scoperta di Roma, ché tale conoscenza era diventata la mia sola occupazione quotidiana. Il binario del “4” a Piazza Ungheria era la mia stazione dei prodigi. Viale Parioli e via Panama erano sbaragliati da un tratto di “circolare”, ora rossa, ora nera, che con trenta centesimi e tanti altri antichi e nuovi convogli saliva sui colli, lambiva i fiumi, accarezzava le guance degli antichi poeti, sfiorava le terme, rivelava prodigiose femmine e basiliche ascose.
Baroni o Barone si chiamava l’insegnante di greco, Razzetto avevamo ribattezzato il velocissimo saltellante insegnante di italiano e latino; Chellini o Chellino, zoppo, coi baffoni neri e la faccia di un buon mangiafuoco, c’istruiva, quando ci riusciva, nelle matematiche; della “Bonifazi” che c’insegnava la storia dell’arte tutti mormoravano che fosse prediletta allieva di un prodigio di rivelazione chiamato Longhi; una grande scuola, insomma, che dell’animo mio s’era preso un angolo così piccolo, che l’estate del 1946 provocò nella mamma la decisione di privarmi di quel museo unico al mondo e riportarmi tra le pietre e i sassi d’Imola orribile.
La decisione di ricondurmi alle aggredite e sbocconcellate dimore trovò in quei giorni una curiosa concordia del Babbo allora dimorante nelle galere di San Giovanni in Monte, con la mamma, libera disperata e forse sperante in un impossibile appoggio di famiglia. «Gaetano Pieraccini è da molto tempo Sindaco di Firenze», scrisse il Babbo in una lettera alla mamma che, chissà da quanto tempo rimuginava la tentazione di chiedere un aiuto allo zio.
Già, perché il nuovo Sindaco socialista di Firenze, Gaetano Pieraccini (n. 1864), poi senatore, aveva sposato l’amatissima sorella di sua madre. Mandare me a conoscerlo in Palazzo Vecchio, in una sosta dei viaggi tra Roma e casa, non mi sembrò allora e non mi sembra neppure oggi un’idea geniale. Nulla ricordo di quanto tentai per accontentare la mamma, neppure la salita sulla stretta scala che menava allo studio del medico e sindaco famoso («Ha una testa beethoveniana», ammiravano). Fui introdotto nello studio da due dignitari con le brache corte; «E così, tu saresti Pierino, il figliuolo dell’Anna», cominciò confidenziale, quasi motteggiando; si fece confermare che il Babbo «ora è in prigione»; rievocò soddisfatto i litigi che gli avevano imposto “i fascisti”: «Oh, se n’avete fatte, se n’avete fatte...» mi guardava di sotto le lenti, di tanto in tanto, e non s’accorse a tempo che il nuovo nipote (non ricordo se avessi ancora, quel giorno, i calzoncini corti) sfilava fuori dal seggiolone dove l’avevano issato e, inseguito, invano, dalle grida degli uscieri «O che fa, o che fa, ritorni subito dal Sindaco» ecc., scendeva svelto la stretta scala, senza neppur smettere di correre in Piazza della Signoria.
«È stato il tuo incontro con la democrazia», mi consolò mezz’ora dopo la voce d’un altro zio, Giorgio Falorsi, già governatore di Derna dopo la prima conquista; «Coraggio, Pierino, ti ci vorrà d’averne, ma tieni duro».
Glielo promisi, tenni duro. Del grande Sindaco nessuno più parlò in casa nostra.
Tenni duro mezzo secolo, fino a questa vecchiaia.
LETTERA A UN ”PRESIDE”
Venne l’ora d’iscriversi alla scuola, la seconda del Liceo Classico “Benvenuto Rambaldi” che mio padre aveva fondato. Il fascistone orribile e rosso che la governava dichiarò che mai avrebbe accettato nel suo Liceo quel giovane fascista. E la mamma gli scrisse:
«Egregio Signor Preside,
sono ormai avvezza a lottare in ogni modo e spero di poter resistere finché la necessità lo richiede! Il vedermi in questa dura mia lotta ostacolata da chi per la sua posizione potrebbe aiutarmi, mi addolora e per questo non trovai parole da rispondere a tutto quello che Ella mi disse l’ultima volta che venni al Liceo: oggi, dopo aver meditato sulla conversazione che ebbi con Lei sabato scorso, Le confermo che non rinuncio a iscrivere mio figlio alla II classe del nostro Liceo; di quel Liceo che mio Marito sedici anni fa ottenne di costituire, nonostante le contrarietà dei tanti che lo ritenevano inutile a Imola. Ne godeva pensando che suo figlio non sarebbe stato esposto un giorno ai pericoli che correvano i ragazzi fino allora costretti al viaggio quotidiano a Bologna o a Faenza. Se Lei avrà le sue ragioni per rifiutare l’iscrizione di Piero, vorrà avere la cortesia di comunicarmele per scritto. Non sono mossa da un puntiglio stupido in questo mio proposito.
Considerazioni di carattere morale ed economico e ragioni di affetto mi indurranno, credo, a tale iscrizione.
Lei mi ha fatto considerare il pericolo che esiste per il mio figliuolo e, fin qui, non avrei potuto altro che esserle grata: ma che cosa devo pensare quando Lei dice di esser pronto a tirar fuori dai cassetti della presidenza, al primo disturbo che il ragazzo possa recare, i documenti che comprovano i suoi sentimenti fascisti? Documenti che Lei conserva, dunque, come ricatto e minaccia? Io non posso, né voglio negare che quella fu la fede sincera del mio ragazzo: se lo negassi, offenderei lui e offenderei suo padre che da sedici mesi sconta, come Lei sa, la sua fede. Se in periodo repubblicano, io vidi i pericoli più chiaramente di lui, non posso con ciò negare la sua buona fede. Ma io Le domando se esistono solo i documenti che provano la fede di mio figlio, o se non crede che tutte le scuole di questa povera nostra Italia siano piene di
documenti di fede fascista, dai componimenti dei ragazzi, ai discorsi dei loro insegnanti e presidi...»
21 Settembre 1946
Qualcuno che io mai conobbi di persona fece stampare in ciclostile come allora usava, centinaia di copie di questa lettera fiera di mia madre; cassetti della presidenza furono frugati e divelti. Le carte e le vecchie tessere littorie sparpagliate fino in fondo ai cessi accanto all’ingresso sulla strada. Tutto ciò fu compiuto in una notte sulla fine di Settembre; insulti e minacce al “vecchio traditore”invasero le sale, scritte sconce vergate sugli usci del suo ufficio.
Il preside Manlio Mariani letteralmente scomparve dal Liceo, il suo posto fu preso dal vice-preside, il farmacista Bortolotti. «Così cominciamo a vendicarci», scrisse un mio nuovo amico: suo fratello divenne il parroco di Sant’Agata, dove fece costruire per me un nuovo organo. Divenne poi il “difensore del vincolo” nel Tribunale ecclesiastico di Bologna e trent’anni più tardi cardinale.
REVISIONISTA IN VANDEA CHARETTE, L’EROE PROIBITO
Quelli che scelsero Aleksandr Solgenitsin per inaugurare il Memorial de Vendée sapevano che cosa facevano e perché.
I ricordi dell’ultima guerra mondiale, dell’Indocina, le stragi del Cambogia, i fasti del comunismo universale impallidiscono come imitazioni davanti agli originali.
Qua fu applicato per la prima volta il terrorismo contro una popolazione.
Peggio che altrove, contro una gente della propria nazione. Nantes, 17 Giugno 1996. L’abbiamo scelta in cima all’Europa. La Place d’Armes, che cercavamo, adesso si chiama Viarmes, precisa la signorina al Castello. Saliamo a piedi in un quartiere ricostruito a casaccio dopo i bombardamenti inglesi e americani, che sull’amica Francia in attesa di liberazione non furono più pietosi che su Germania e Italia. Curiosa, inoppugnabile sorpresa. Place Viarmes è un’immensa baraonda bordata d’orribili edifici. Su un lato un albergaccio, sull’opposto cartelloni pubblicitari nascondono qualche altra bruttura. Quando si danno al brutto, i francesi, non li batte nessuno. Il vento veloce solleva un polverone che fa turbinare nuvole di foglietti, pianetine bianche d’un gelato a poco prezzo. Carretti, trespoli; avanzi, dicono, d’un mercato appena smontato.
Della fucilazione, il cui luogo cerchiamo, solo il nome di un ristorante, “Le Charette”, chiuso. Al bar vicino domandiamo se non vi sia memoria di quell’avvenimento di due secoli fa. Senza gentilezza indicano un angolo in fondo, nell’ombra dei platani. C’è, infatti, insolentemente circondata di paracarri, una vecchia grande croce di pietra giallastra, il sacro cuore vandeano al centro. Nel basamento una targa di ghisa ossidata, corrosa, quattro piccoli gigli agli angoli: «Ici a eté fusillé / pour son Dieu et son Roi / le général vendéen Charette de la Contrie. 29 Mars 1796».
I blu del generale Travot l’avevano catturato sei giorni prima nei boschi della Chabotterie, il castello d’un seguace nel cuore della Vandea. Di tre anni di battaglie e agguati, delle migliaia di contadini soldati che al suo richiamo si addensavano filtrando tra paludi e foreste per poi tornare a dissolversi verso le loro case, gli rimaneva una trentina di fedeli, comprese le donne e le ragazze che sempre lo seguirono nelle sue imprese. Il clero si era piegato al nuovo regime, preti e abati lo denunciavano. Il conte d’Artois, il futuro Carlo X, atteso fino allo spasimo sulle spiagge atlantiche, era l’ultima speranza. Non venne, la speranza si spense.
Gli ultimi passi della sua guerra, Charette li mosse a piedi. Affidò il cavallo a un contadino che corse a denunciarlo ai soldati del generale Hoche. Riunì i suoi ultimi volontari e disse, con una dolcezza che non era più nelle sue abitudini: «Siamo traditi, venduti, vi resta la speranza di confondervi nella folla. Legato al giuramento al mio Re, io non posso lasciare il mio posto senza un suo ordine, la mia fede mi prescrive di aspettare il destino. Rassegnato ai decreti della Provvidenza, mi difenderò da soldato e morirò da cristiano». Non disse che aveva scritto a Luigi XVIII: «Sire, la viltà di Vostro fratello ha rovinato tutto. Poteva sbarcare su queste coste e tutto perdere, o tutto salvare. Il suo ritorno in Inghilterra ha segnato la nostra sorte. Non ci resta che morire, inutilmente, al Vostro servizio.» Il Re e la Provvidenza di Charette erano rimasti nei cieli sublimi che risplendono sugli eroi. Fortunati i popoli che hanno i loro eroi quando non c’è più speranza.
La mattina del 23 Marzo 1796 i centomila uomini dell’armata di Hoche, su quattro colonne, mossero per farla finita con quei trenta che facevano tremare la République. Una, che veniva da Chauché comandata dal generale Travot, s’imbatté nel piccolo gruppo del Generale vandeano, già ferito. Charette spara sull’aiutante generale Valentin, manca il colpo e i blu lo incalzano con fuoco serrato. Lo salva, ancora una volta, l’attendente tedesco Pfeiffer che, come in un travestimento da Don Giovanni, si mette in testa il cappello col pennacchio bianco che Charette si ostina a portare e così attira la fucileria repubblicana e cade subito ucciso. Charette sfugge per l’ultima volta e incappa in un’altra colonna; i suoi cadono, è di nuovo ferito. Tenta di passare un torrente che lo separa dalla foresta, si difende come un diavolo, un colpo di spada gli tronca due dita. La sua resistenza sovrumana cede, è a terra, stremato. Il domestico Bossard e due compagni lo prendono a braccia, Bossard è ucciso e subito dopo il giovane La Roche-Davo; il terzo si carica il suo generale sulle spalle ma presto crolla, taglia un gran ramo di frassino, ce lo nasconde sotto, ma il generale nemico accorre di persona con tre blu, lo scorge: « C’est lui, c’est Charette!», e si getta sul corpo disteso. Accecato dal sangue d’una ferita che gli riempie gli occhi, il vinto tace. Uno dei cacciatori lo riconosce: «Tenez ferme, c’est notre homme!». Travot, che non crede alla sua fortuna, grida: «Dov’è Charette?». «Eccolo qua», risponde il ferito.
La cattura di Charette, riferiscono copiose cronache, «mise la République in delirio». «Fatichiamo oggi», scrive Michel de Saint Pierre, «a figurarci che cosa rappresentasse quella cattura. La personalità e poi il mito, del Cavaliere, del capo inafferrabile di immense legioni fantasma, avevano commosso e incantato l’Europa. Aleksandr Suvarov, il comandante degli eserciti russi, gli scriveva come a collega e maestro. Napoleone, a Sant’Elena, ripenserà alle sue gesta. Rifiutò di andare in Vandea a dare man forte ai colleghi Haxo, Touron, Roche, i macellai del sadismo criminale. Restò all’Armata d’Italia e, una volta Console, poté dedicarsi a risanare le ferite orrende inferte a quel popolo. Il Concordato del 1802 fu salutato in Vandea come la «vittoria dei vinti». Il giorno di Pasqua le chie...