Musical, jazz e cinema
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Musical, jazz e cinema

Informazioni su questo libro

Questo primo volume, che inaugura un’agile collana di studi per lettori di livello universitario e post-universitario, consta sostanzialmente di una serie di brevi saggi riveduti e corretti (e talvolta riscritti da cima a fondo), ma già apparsi, negli ultimi anni, sotto forma di articoli, elzeviri, inchieste, discussioni presso diverse testate giornalistiche nella duplice specializzazione sia del cinema sia della musica.
L’origine eterogenea di questi materiali ribadisce anche il carattere variegato di questo primo volume, che non possiede una struttura rigorosamente organica, ma s’affida a nove differenti riflessioni, tante quante i capitoli redatti per il testo definitivo. Queste riflessioni, a loro volta, seguono comunque una sorta di filo logico, che si snoda attorno alle tre parole-chiave usate per il titolo del volume: musical, jazz e cinema.
Forse si dovrebbe partire dall’ultimo termine, il cinema, perché è ad esso che si fa riferimento per tutto il volume. Da un lato, attraverso il cinema, si arriva subito a dibattere uno dei grandi generi classici, il musical, percepito qui nell’ottica del funzionamento linguistico, nella dialettica tra passato e presente, nel contributo precipuo delle parti musicali. Dall’altro lato il jazz è visto come un innovativo linguaggio sonoro che spesso fornisce colonne sonore originalissime e talvolta si intreccia anche con il musical stesso o si presta a fornire spunti finzionali.
Scorrendo via via l’indice si inizia quindi con Il musical tra jazz, balli e canzonette, Il musical, forma d’arte, Musical Duemila tre capitoli espressamente votati a soffermarsi sui valori del musical. Si prosegue con Cinema e jazz: convergenze e parallelismi, Oggetti culturali: il jazz su vinile, il film in pellicola, Jazz e musical altri tre capitoli dove invece l’accento è posto sulle relazioni tra jazz e cinema. E si conclude con un terzo trittico Noir e jazz, Hollywood e nouvelle vague, Italia: jazz score e noir caricaturato, I soundie: un soggetto a sé stante, con il jazz ancora una volta protagonista, sia pur sotto altri riflettori.
Ci sono infine quattro tavole, a fianco dell’inizio di alcuni capitoli, che riguardano la cronologia filmica dei principali musical suddivisi in tre epoche, più una sui jazz-film finzionali.
Il testo, infine, ha una struttura a mosaico e per una non celata interdisciplinarietà può essere letto o studiato anche senza seguire l’ordine dei capitoli, ma predisponendo un proprio indice mentale, rispondente alle esigenze culturali o didattiche attorno a musical, jazz e cinema.
Guido Michelone

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1.
Il musical tra jazz, balli e canzonette

Il musical al cinema è un fenomeno più ampio e complesso di quello teatrale pur nato un secolo prima: diventa, assieme a western e a gangster, il genere classico dell’epopea hollywoodiana tra la fine degli anni Venti e la metà dei Cinquanta, vantando soprattutto infinite soluzioni a livello formale e contenutistico.
Se da un lato va anzitutto inserito nella categoria del film musicale, dove la musica appunto risulta l’elemento che prevale o caratterizza l’opera stessa, dall’altro il musical si manifesta in un’originalità espressiva che parte dal presupposto dell’avanguardia secondo cui il cinema è la musica degli occhi, per arrivare a tradurre i suoni in immagini plastiche, astratte, grafiche. Infatti più che riprendere gli stilemi della musical comedy teatrale (anche se non mancano i successi che riproducono fedelmente gli originali di Broadway), il musical cinematografico si contraddistingue per la costante ricerca di un’identità linguistica che approda alla pura essenza cinematografica grazie al perfetto connubio tra regista, coreografo e i divi protagonisti.
L’equilibrio dello spettacolo filmico, senza nulla togliere all’importanza degli autori delle musiche (praticamente gli stessi del teatro), dipende infatti da un sapiente dosaggio artistico-professionale tra le abilità degli attori-cantanti-ballerini, il tocco della regia, il contributo dell’apparato scenografico e la circolarità di queste stesse mansioni, talvolta con la prevalenza dell’una sulle altre a seconda delle epoche storiche: infatti i primi musical dell’inizio degli anni Trenta prodotti dalla Warner sono merito del coreografo Busby Berkeley, quelli invece della seconda metà del decennio della Rko impongono divisticamente le coppie di ballerini-attori (Ginger Rogers e Fred Astaire su tutti), mentre nel dopoguerra sono numerosi gli spettacoli ad esempio per la Mgm che offrono il tocco d’autore grazie a celebri maestri (Vincent Minnelli, Stanley Donen) o a personaggi che assumono contemporaneamente la funzione di regista, interprete, coreografo (Gene Kelly e più di recente Bob Fosse).
Che il musical, come quasi tutto il cinema hollywoodiano, non nasca dal talento del singolo, ma dal lavoro d’équipe, dall’accordo di esperienze diverse e dalla sintesi di cognizioni spesso eterogenee, è dimostrato dal problema delle disponibilità produttive, poiché a decidere la politica finanziaria di ogni film (o almeno delle proprie case) non sono registi, coreografi o attori, ma i delegati di produzione, allora veri e propri manager del cinematografo. Nel mondo dello spettacolo e della comunicazione, il cinema, con il sonoro, diventa infatti un business assai più importante del teatro e i film nascono dalla volontà, dall’intuito e dal potere economico delle case di produzione, presto ridotte a poche majors come le già citate Warner (Quarantaduesima strada), Rko (Cappello a cilindro, Follie d’inverno), la Mgm (Spettacolo di varietà, Cantando sotto la pioggia).
Da un punto di vista storico il musical della Warner (1930-1936) grazie alle immaginifiche coreografie di Berkeley rivela l’amore e il fascino della scenotecnica attraverso un uso precipuamente filmico di quest’ultima; la trama spesso esile o insignificante è il pretesto per arrivare ai celebri numeri musicali con torte gigantesche composte da belle ragazze, giochi sull’acqua, riflessi di specchi, vertiginose panoramiche dall’alto o dal basso, carrellate veloci, inquadrature floreali, figurazioni quasi astratte, geometrie in movimento.
Con i film della Rko affidati al divismo della coppia Rogers-Astaire il genere si fa più sofisticato, rivolgendosi più al canto e al ballo dei singoli talenti che alle scene di massa, grazie ai dinamici passi di tip-tap che mettono in luce l’eleganza, il virtuosismo e la leggiadria del duo stesso; comincia inoltre un processo di integrazione nel racconto degli elementi coreografici e musicali, che sarà compiutamente risolto nel periodo della Mgm (1940-1960) da lungometraggi firmati da Minnelli o da Donen con e senza Kelly.
Il musical esce dai teatri di posa per riversarsi in strada o in piazza: una nuova filosofia secondo cui non esistono luoghi o argomenti che non possano essere musicati, danzati o cantati. In tal senso da un lato si amplia il ventaglio di registri sentimentali e dall’altro si potenzia l’istrionismo musical-scenografico con il ricorso a nuovi suoni (dal jazz alla classica) o al frenetico impatto di giovani protagonisti (la verve muscolare e atletica di Kelly contrapposta al garbo ironico di Astaire). Con la piena coscienza di guardarsi dentro e di agire al quadrato, il musical raggiunge la completa maturità espressiva, persino al di là dei limiti di genere e in direzione del cinema autoriale, anche se tutto ciò finisce con il segnare un periodo di crisi irreversibile.
Con il cinema moderno e contemporaneo (dal 1960 a oggi) il musical viene abbandonato dalle majors per gli alti costi di produzione e in parte contestato dalle nuove generazioni che ne aborrono soprattutto l’aspetto ideologico, anche se sarà poi la giovane critica (strutturalismo, semiotica, sociologia) a valorizzarne l’importanza culturale all’interno dell’evoluzione del linguaggio cinematografico.
Mentre, già dagli anni Sessanta, il film musicale apre al rock, il musical oggi prodotto sporadicamente senza il costante supporto industriale, ama ancor più riflettere su se stesso, volgersi indietro, scrutare il passato, con affetto o nostalgia, oppure accogliere istanze tragiche (morte, solitudine, dolore); si lega spesso all’estro e alla genialità del singolo autore, magari regista e coreografo come Bob Fosse, l’unico ad aver inseguito in maniera singolare e continuativa la mitologia del musical (Sweet charity, Cabaret, All that jazz) alla ricerca di un tempo forse definitivamente scomparso.
A livello formale il musical cinematografico da sempre presenta singolari meccanismi combinatori: ad esempio il canto o il ballo diventano elementi di frattura che si riallacciano inconsciamente al metodo di straniamento teatrale del dramma epico di Bertolt Brecht, poiché servono a svelare una finzione, quasi a voler dire e sottolineare che ciò che lo spettatore vede non è verosimile, ma solo qualcosa a cui deve credere fino a un certo punto. Sotto l’aspetto figurativo poi non mancano analogie e somiglianze persino con il cinema astratto, attraverso un’iconografia prossima alle mirabolanti ricerche dell’avanguardia storica e una ricchezza plastica direttamente collegabile all’evoluzione delle arti visive del nostro secolo.
Sul piano dell’elaborazione dei contenuti (spesso presi a prestito da altri generi cinematografici) il musical presenta delle storie che diventano pretesti per introdurre, sul piano della finzione, i numeri musicali (canto o ballo) che a loro volta prendono il sopravvento sulla narrazione medesima. In tutta la storia del musical, il gesto danzato, la parola, l’intermezzo sonoro, la colonna musicale si costituiscono quindi come un vero e proprio mezzo di comunicazione per formulare un racconto allo spettatore.
Dal musical teatrale, quello cinematografico eredita da un lato la caratterizzazione dell’intreccio lineare o semplificante in rapporto però ad ambienti sofisticati e rarefatti all’insegna di un erotismo velato; e dall’altro l’ardita scenotecnica, le cui macchine consentono ingegnosi e repentini cambiamenti di scena, tali da sbalordire il pubblico. In base a questi elementi il musical cinematografico aggiunge le risorse della macchina da presa, che riesce a creare effetti particolari, trucchi, montaggi, attraverso i quali la cornice dei quadri scenici è dilatata, frammentata, rallentata o accelerata a piacimento.
A livello di nuclei tematici se ne possono riassumere invece cinque ben distinti. Il primo riguarda il ‘rapporto amore-spettacolo’, cha fa da filo conduttore a tutto il genere che si manifesta esemplarmente nelle ‘back stage opera’, un sottogenere degli anni Trenta, dove il tema del film è proprio l’allestimento di un commedia musicale, con le vicende avventurose e sentimentali che da tale pretesto derivano. Si tratta dunque di uno spettacolo che si fa spettacolo attraverso se stesso, con l’amore in funzione tanto spettacolarizzante quanto esistenziale. È l’amore con la A maiuscola che permette la realizzazione professionale dei protagonisti, nel senso dell’esperienza di vita e della conquista di maturità. Ma è pure amore dietro le quinte, che aiuta a migliorare le doti interpretative dei personaggi: più gli interpreti sono innamorati più sono bravi; in Quarantaduesima strada la protagonista trova nella cotta per il regista (burbero e al contempo bonaccione) la forza per crescere artisticamente e diventare la prima stella.
Ma innamorarsi durante la messinscena è assai laborioso nei confronti della condotta dello spettacolo, ragion per cui (secondo nucleo tematico) vi sono nel musical alcuni imperativi o ordini di impegno, sintetizzabili con due battute da altrettanti capolavori: ‘the show must go on’ e ‘be a clown’. Dunque da un lato c’è l’esigenza, come intona Fred Astaire in Spettacolo di varietà, che ‘lo spettacolo deve andare avanti’: occorre insomma realizzare a tutti i costi i sogni indotti dall’immaginario collettivo; in questi film migliaia di impedimenti complicano l’allestimento, anche se lo spettacolo vive proprio di tali problemi, che sono poi le strade che portano a un inevitabile finale di armonia perfetta; e il musical realizza quindi il suo fine originario, il senso entro cui agiscono i personaggi: intrattenere e divertire il pubblico. Sii un clown canticchia Gene Kelly ne Il pirata e in Cantando sotto la pioggia, quasi ad afferrare la risata liberatoria o il sorriso divertito in termini di ideologia culturale e di ragione di vita (anche se dal dopoguerra, però, l’umorismo si mescola alla tristezza entro un margine più o meno ampio di problematicità).
Il terzo nucleo tematico concerne la ‘relazione desiderio-fantasia-realtà’, nell’impervio territorio dell’identificazione/proiezione dello spettatore (i suoi sogni con il mondo del cinema): nel musical i tre termini coincidono anche in molte occasioni narrative, fino a trasfigurare, in continuazione, la stessa esistenza quotidiana. Canto, musica, ballo, scenografia sono quindi i momenti privilegiati di un’incessante trascrizione nel fantastico, quasi un gioco di specchi nel quale tutto è possibile, lecito, naturale. Banale e straordinario, reale e fantastico, gioia e dolore trovano così un magico accordo, poiché il musical sembra concretizzare l’ipotesi di un punto d’incontro fra essere e apparenza, dando allo spettatore se non la certezza, almeno la speranza che i sogni si realizzino.
Il quarto nucleo è la ‘fiducia nella fiducia’ nel senso che le modalità narrative vengono attuate in modo che il racconto sia il veicolo più docile di una gioia per tutti. Come il canto e il ballo sono al proposito il fine ottimale, così i sogni e la fantasia inculcano la voglia di cantare e ballare: come asserisce Michael Wood non c’è nulla nel musical che non faccia crescere nello spettatore una illimitata fiducia nella fiducia; anche quando inscena situazioni devianti, propone rappresentazioni mediate dal canto e dalla ballo, dunque ricondotte alle norme e ai codici interni al genere stesso. In Cantando sotto la pioggia esiste ad esempio un rapporto di fiduciosa sicurezza tra musical e vita quotidiana: la parola diventa swing, la camminata un passetto di jazz-dance, gli oggetti casalinghi dei compagni ideali per scatenarsi in vorticosi tip-tap. Quindi nucleo te...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Premessa
  3. 1.Il musical tra jazz, balli e canzonette
  4. Tavola I Dieci musical classici nella storia del cinema
  5. 2.Il musical, forma d’arte
  6. Tavola II Dieci musical moderni nella storia del cinema
  7. 3.Musical Duemila
  8. Tavola III Dieci musical postmoderni nella storiadel cinema
  9. 4.Cinema e jazz: convergenze e parallelismi
  10. 5.Oggetti culturali: il jazz su vinile, il film in pellicola
  11. 6.Jazz e musical
  12. 7.Noir e jazz, Hollywood e nouvelle vague
  13. 8.Italia: jazz score e noir caricaturato
  14. Tavola IV Dieci jazz-film fiction nella storia del cinema
  15. 9.I soundie: un soggetto a sé stante
  16. Bibliografia essenziale
  17. L’Autore