A una svolta, tutt’a un tratto, in fondo a una breve discesa, apparvero le due sbarre e le due case doganiere, la belga e la francese. Inge rallentò. Io sporsi in fuori il braccio tendendo i nostri due passaporti, e il doganiere belga, senza neppure guardarli, ci accennò di proseguire. Quello francese, al contrario, pochi metri più avanti, vi gettò appena un’occhiata e subito ci ordinò di fermarci. Li aprì, li osservò, li sfogliò pagina per pagina, poi, con un gesto della mano, ci indicò lo spazio libero a fianco della strada. Restai sorpreso: due altre macchine, un attimo prima, erano passate senza alcuna formalità.
Inge accostò e l’agente si sporse dal finestrino:
«Avete nulla da denunziare?»
«Nulla» dissi io. «Restiamo in Francia solo per il weekend. Ma se volete vedere...»
«Bene, vediamo. Volete scendere, per favore?»
Scendemmo, io d’un balzo, Inge assai più lentamente.
L’agente rovistò nell’interno, guardò con cura sotto i sedili, pescò in una tasca della carrozzeria la patente di Inge ed esaminò brevemente anche quella. Infine, raddrizzandosi:
«E le vostre valigie?»
Inge cercò le chiavi e, con una lentezza che questa volta mi parve voluta, andò ad aprire lo sportello posteriore e tirò fuori la sua.
«Volete mostrarmi cosa c’è?» le chiese il doganiere.
«Fate voi. È nel vostro diritto.» Impassibile, l’uomo sollevò a uno a uno gli indumenti, palpeggiò tutti gli angoli, poi abbassò il coperchio con un colpo secco. Ficcò quindi la mano nella mia e immediatamente trovò i pacchetti delle sigarette.
«E questi? Perché non li avete denunziati?»
Lo guardai, e finalmente scopersi il suo viso: gli zigomi alti, le guance rossicce, due occhi che mi fissavano senza simpatia. Quello sguardo lo conoscevo, lo sguardo del francese che quando ti scruta sembra avere altri due occhi, dietro i primi, a frugarti.
«Non so» risposi a disagio. «Sono tre o quattro pacchetti. M’avevano detto che per le sigarette non c’era alcuna difficoltà.»
«Sì, ma però bisognava lo stesso denunziarle. È il regolamento.»
«E allora» dissi io «volete sequestrarle?»
«Come voi preferite, signore. Prima di tutto, in ogni caso, occorre pagare la multa. Poi, se volete, c’è la dogana. Altrimenti potete lasciarle. Per noi fa lo stesso.»
Sapevo ch’era quasi un sopruso, uno stupido sopruso, ma non volli mettermi a discutere: era inutile, lo sentivo, e per di più, se l’avessi fatto, ne sarebbe stato troppo felice.
«Se è così, preferisco tenerle. In Francia, m’hanno detto, si fuma in modo orribile.»
«Bene» ribatté senza scomporsi. «Volete seguirmi?» E mi precedé nell’interno della casa doganiera.
Pagai a un sergente cortesissimo e freddo e riebbi indietro i pacchetti e due piccole ricevute. Uscendo trovai Inge al volante, che già aveva acceso il motore.
«Ebbene?» mi chiese.
«È fatto. Possiamo partire.»
«Presto, allora.»
Mentre stavo prendendo posto, udii alle mie spalle la voce del sergente, che m’aveva seguito fino alla porta:
«Ma insomma, chi sono?»
«Oh, tu sai» gli rispose l’agente. «Un italiano e una tedesca.»
Mi volsi, e il sergente per un attimo rimase a squadrarmi. Poi, muovendo appena il capo: «’sti porci» esclamò.
«Arrossii violentemente, mentre Inge, accanto a me, metteva in moto la macchina. Aveva udito? Aveva capito? Ne fui certo, un minuto dopo, al modo quasi rabbioso con cui tormentava il cambio, superando l’una dopo l’altra le macchine che ci precedevano.
«Piano,» cercai di scherzare «non val la pena di rompersi il collo. In fondo non è che un piccolo incidente di frontiera.»
Rallentò senza rispondere, senza neppure voltarsi. Poco dopo però – la strada era in discesa, tra due file d’alberi in boccio, mentre alto sull’orizzonte s’intravedeva un sole scialbo – l’udii mormorare:
«Ma finirà mai una volta?»
«Che cosa?»
«Quest’odio... Non avete visto?» «Finirà, deve finire. Ma quattro anni è troppo poco, per noi e per loro.» M’avvidi che, senza volerlo, m’ero messo dalla sua parte. Ma non parve notarlo:
«Quattro anni» echeggiò quasi parlando tra sé. «Ma è bastata una notte per distruggere la mia città. Lo sapete quanti sono stati i morti, in una notte? Diecimila!»
Di dov’era? M’accorsi che ancora non lo sapevo e non ebbi voglia, in quel momento, di domandarglielo. La sua città, del resto, ognuno in quegli anni se la portava in fondo agli occhi, anch’io la mia; l’immagine della propria città saccheggiata dalle bombe, e un nome ne valeva un altro, e Pisa era stritolata, e di Colonia, m’avevano detto, non restava che la cattedrale. Piuttosto, sogguardandola, cercai di figurarmi com’era lei quattro anni prima: una ragazza di quindici anni, al massimo di sedici, coi capelli forse più biondi e il petto più acerbo, che non sapeva o non si chiedeva perché ci fosse stata la guerra, e della guerra conosceva solo gli aerei che sorvolavano invisibili il cielo nero della sua città. Per lei, per tutti quelli ch’erano cresciuti assieme a lei, non era questione di domandarsi chi avesse ragione e chi torto, ma unicamente chi li avesse uccisi, coloro che s’erano veduti morire accanto, chi le avesse distrutte, dal cielo, le loro case, quando al mattino, una mattina brumosa d’una città della Germania, erano usciti dai rifugi, tra i muri che ancora crollavano, al cercare ciascuno la propria casa distrutta.
«Lo so» mormorai dopo qualche tempo come inseguendo le mie riflessioni.
«Ma quattro anni è ancora troppo poco: tutti, nessuno escluso, hanno avuto la loro guerra. Come volete che dimentichino? Anche l’odio, come tutto il resto, è stato troppo più grande di noi. D’altronde, voi vi odiano, ma noi, ci disprezzano. Voi stessi, lo so, vi credete in diritto di disprezzarci. Come vedete, nessuno è davvero neutrale.»
«Anche chi non è colpevole?»
«Colpevole? E chi lo è? Così sarebbe troppo facile. Piuttosto, ammettetelo, anche voi avrete odiato.»
«Io non odio nessuno.»
«Ne siete sicura?»
«Nessuno» ripeté con forza.
Io non ne ero altrettanto certo. Per lo meno, anch’io avevo odiato. C’era un ricordo, nella mia vita, che mi avrebbe accompagnato ovunque, come aveva sovrastato per mesi gl’incubi delle mie notti. Risaliva agli ultimi giorni dell’occupazione tedesca: un viottolo tra gli orti, una fila d’alberi, un pino stroncato di netto da una bomba; di là dal pino un breve muro calcinato dal sole di luglio, di là dal muro una fila di morti, quindici cadaveri ormai disfatti lasciati nel sole com’erano caduti. Il sedicesimo, un ragazzo di dodici o tredici anni, l’avevamo trovato sull’argine d’un fosso, mitragliato alla schiena mentre tentava di fuggire, e adesso era li, un ginocchio contro il ventre e una mano aggrappata all’erba, piccolo mucchio di stracci con addosso l’odore dolciastro e polveroso della morte. Certo, quattro anni prima qualcosa era finito; qualcosa, in quei quattro anni, l’avevamo seppellito in fondo al cuore. Ma tutti quei morti? Dove avremmo dovuto sotterrarli, per poterli dimenticare?
«Che c’è? Non dite più nulla?» domandò Inge vedendo che non parlavo.
«Oh, niente, riflettevo. Voi dite nessuno, e certo siete sincera. Anch’io potrei dirlo, e sarebbe vero ugualmente. Ma con questo? Che cambia? Siamo noi che scegliamo? Odiare non è come amare, che basta scegliersi in due. Avremmo dovuto nascere altrove, o almeno in un’altra epoca, perché le nostre scelte avessero ancora un senso.»
«Ma se è così, che contiamo? »
«Che contiamo? A che serviamo? A nulla, non ve ne siete ancora accorta? Proprio a nulla.» Poi, pensando con improvvisa pena ai suoi vent’anni: «O piuttosto, solo a noi stessi. Ed è già molto, vi assicuro. Per me almeno è già abbastanza. Ho visto troppi morti accanto a me, per non desiderar di vivere. E il fatto è che voglio vivere. Per me stesso, fin dove è possibile. Voi no?»
«Oh, anch’io!» Per qualche istante restò a riflettere. Quindi, scrollando il capo quasi per liberarsi da un pensiero molesto: «Oh, basta adesso con questi discorsi. Ho già il mal di testa... Piuttosto, perché non pensate a offrirmi un’altra sigaretta?»
«Ma certo» dissi premuroso. Stavo per porgergliela, ma mi trattenni: «Preferite che ve l’accenda?»
Sorrise, senza voltarsi, d’un riso pieno di malizia che le illuminò tutto il volto: «Ma sì! Se ci tenete...»