Il cimitero cinese
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Il cimitero cinese

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Il cimitero cinese

Informazioni su questo libro

I tre testi riuniti in questo volume sono stati scritti da Mario Pomilio in tempi diversi della sua vita, ma pur nelle differenza stilistiche e compositive mostrano una grande coerenza di sguardo e di pensiero. Il cimitero cinese e Ritorno a Cassino, che lo stesso Pomilio riunì in un solo volume alla fine degli anni Settanta, intrecciano, nel segno di un manzonismo moderno, vicenda personale e storia dell'Occidente, affidando il ruolo propulsivo della narrazione a una coppia il cui legame sentimentale deve fare i conti con le terribili eredità della Seconda Guerra Mondiale; nel Cimitero, un italiano e una giovane tedesca attraversano in macchina, pochi anni dopo la fine del conflitto, la Francia del nord, e quello che doveva essere un romantico week-end si trasforma nella contemplazione dei duraturi sconvolgimenti, nei paesaggi geografici e in quelli interiori, apportati dall'invasione, dal dominio e dai massacri; in Ritorno a Cassino, ambientato sull'Autostrada del sole all'alba degli anni Sessanta, le ferite che sembrano chiuse si rivelano in realtà solo ipocritamente nascoste. Il racconto inedito I partigiani è l'inizio della riflessione, in un Pomilio ancora molto giovane, sul tema che porterà ai due esiti successivi, e che l'autore non smetterà di rimeditare almeno fino al Quinto evangelio. Si tratta insomma di una serie compatta, che qui viene restituita integralmente per la prima volta.

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Informazioni

Il cimitero cinese

Senza perdere d’occhio la strada, che correva adesso a saliscendi su una campagna tutta gobbe verdi orlate di tetti magri e grandi ciuffi d’alberi:
«Per favore,» mi chiese «m’offrite una sigaretta?»
Le scelsi una sigaretta e gliela porsi già accesa. Forse lo feci in maniera maldestra, forse lei restò sorpresa d’un gesto che pareva sottintendere un’intimità di rapporti che in effetti non ancora esisteva, perché mi sogguardò come esitando prima di portarsela alle labbra da sola.
«Grazie,» mormorò « siete molto gentile.»
Mi dava ancora del voi, in quel suo francese perfetto, ma un po’ rigido, un po’ gutturale, nel quale sarebbe stato difficile scoprire qualcosa di più che i segni d’una cortesia puramente formale. La colpa era stata mia, che quando l’avevo conosciuta non avevo avuto il coraggio di darle subito del tu. Ed ora quel voi resisteva tra noi due, accentuando i miei complessi di meridionale preoccupato di comportarsi in ogni caso da uomo, ma già abbastanza esperto del cameratismo lievemente snobistico degli studenti del Nord per capire che un invito di quel genere, da parte d’una ragazza conosciuta solo due sere prima, non significava ancora niente, e che saremmo potuti tornare l’indomani sera a Bruxelles senza che ci fossimo scambiati neppure un bacio.
La guardai: senza trucco il suo viso era quasi virile: un profilo netto, il mento un po’ rilevato, una fronte resa più alta dai capelli tutti all’indietro. Le stesse vesti che indossava – dei pantaloni di tela grigia e un maglione nero senza scollo con le maniche rimboccate fino all’altezza dei gomiti – servivano a rendere più evidente la fermezza dei suoi tratti. Due sere prima, al contrario, era molto diversa. Fiamminga, avevo pensato in un primo momento scorgendola: ma, le sue guance pienotte non avevano affatto la consistenza un po’ papposa di quelle delle fiamminghe, e il suo busto era più flessuoso, d’una dolcezza quasi latina. L’avevo notata tuttavia non tanto perché fosse più graziosa delle altre – ma certo anche per questo –, e neppure pel colore dei capelli, d’un biondo tutto nordico dai riflessi grigio-cenere, quanto pel fatto che, come me, appariva spaesata in quel club universitario dove gli studenti belgi si conoscevano tutti per nome e dov’era difficile riuscire a ballare se non si era prima presentati. Era entrata, s’era scelto un posto in disparte, s’era sfilata il golfino blu lasciandoselo sciolto sulle spalle, e poi per più d’un’ora se n’era rimasta tranquilla, vagamente compunta, con l’aria d’una ragazzina capitata troppo presto a un ballo di grandi e convinta che nessuno perderà tempo a invitarla. La prima volta avevamo ballato in silenzio, io rigido, lei calma a guardare di là dalla mia spalla, senza voltarsi nemmeno una volta in direzione del mio viso.
Erano duri per me quei primi mesi a Bruxelles. E se mi recavo il giovedì sera a quel ballo, lo facevo solo per annegare le mie nostalgie, il rimpianto delle serate tie pide della mia città e delle mie strade in penombra popolate di voci, pur sapendo che lì dentro, in quell’ambiente chiuso e sofisticato dove di rado accadeva che una ragazza, se l’invitavo, non squadrasse prima la mia faccia bruna di meridionale, avrei finito per sentirmi ancor più sperduto, col mio francese da principiante e le mie apprensioni di ballerino inesperto. Per questo per vari giri non ero più tornato, limitandomi a ronzarle attorno, a cercar di fissarla, a cercare in segreto una rispondenza al mio sguardo. Alla fine se n’era accorta: mi scrutava, gli occhi pieni di sorpresa, stornandoli poi subito se appena insistevo.
Quando m’ero deciso di nuovo a invitarla ero già più disinvolto, più sicuro di me. E anche lei, impercettibilmente, era divenuta diversa: ballava stretto, come assorta, lasciandosi sfiorare a tratti dalla mia guancia.
«Ballate bene» avevo azzardato. E vedendola sorridere: «Come vi chiamate? Posso domandarlo?»
«Inge. Mi chiamo Inge.»
«Svedese?»
«No, non svedese.»
«Eppure il vostro nome fa pensare a una svedese.»
«Il mio nome? Non mi pare. Del resto, sono tedesca. Dovreste averlo capito, ormai. »
«Capito? E perché?»
«Ma dunque, non avete visto come m’hanno isolata? » E l’aveva detto in un tono così strano, e d’amarezza così repressa, che io subito avevo intuito a che cosa voleva alludere.
«Ma no, non credo. Sarà solo perché siete straniera.»
Poi, quasi a vincere il mio disagio e a cercare a mia volta una sottile forma di connivenza: «Anch’io, sapete, sono straniero.»
«Lo so ... E di dove?
«Italiano»
«Ah, sì?... Difatti...»
Era curioso il suo modo di osservarmi: lo faceva con una naturalezza che rassomigliava al candore, ma che aveva finito proprio per questo per mettermi in imbarazzo. E lì per lì, per difendermene, ero ricorso a una battuta stupida, la prima che istintivamente m’era venuta alle labbra, ma che, me ne avvidi dopo, non avrei usato con un’altra:
«Sono il primo che vedete? Oppure state studiando i miei segni razziali?»
Di colpo s’era rabbuiata: «Le razze!
Anche voi? Anche voi con queste prevenzioni? Ma quand’è, insomma, che finirà tutto ciò?»
«Ma io non ho alcuna prevenzione» avevo risposto arrossendo. «Vi assicuro...»
Non ne avevo? Non ne ero poi così certo. Anche ora che filavamo insieme verso la Francia per quello strano week-end a cui lei m’aveva invitato, mi sentivo come irretito in una sorta di ritegno, e non solo perché m’ostinavo a domandarmi cosa sarebbe successo tra noi col passar delle ore, o quella sera, quando avremmo pernottato in qualche posto dalle parti di Boulogne, ma appunto perché restavo consapevole del fatto che mi trovavo in compagnia d’una tedesca, con intatto nel cuore il ricordo delle violenze, dei soprusi, delle razzie dei tedeschi. La scrutavo (lei guidava tutta seria la sua piccola Morris portandosi di tanto in tanto la sigaretta alla bocca, io tenevo la mano appoggiata sulla spalliera del suo sedile, ma non osavo, non ancora, sfiorarle appena i capelli) e qualcosa del suo viso, dei suoi occhi grigio-chiari, della sua bocca sottile, del suo mento rilevato mi rammentava alla lontana, ma fino a farmi soffrire, la freddezza altezzosa dell’ufficiale della Wehrmacht che era venuto una volta a occupare la mia casa.
Pure, due sere prima, tutto era stato così semplice. Quando l’avevo vista uscire, le avevo chiesto d’accompagnarla. Aveva accettato senza reticenze, lasciando anche che l’aiutassi ad infilarsi il golfino. Quindi, appena fuori, s’era diretta verso un’auto che stazionava a pochi metri dal cancello dell’università.
«Siete ricca!» avevo esclamato.
«Oh, ma non è mia. L’ho presa a nolo per un mese.»
«Ma siete ricca lo stesso. In ogni caso assai più di me.»
«Credete?» E sorridendo aveva preso posto al volante.
A lungo avevamo vagabondato per le strade della periferia di Bruxelles, che sono così immense e silenziose di sera con le loro lanterne a gas dall’alone breve e azzurrognolo, i grandi alberi alti al disopra delle case, i lampadari dietro le finestre fatti come più remoti dalla trasparenza delle tende, e su in alto la notte vasta delle grandi città, dove pare esserci un’altra luce a ridosso del cielo. E c’era, nella penombra che ci circondava, e nei nostri stessi silenzi, tale un sapore d’intimità, che qualsiasi gesto, da parte mia, avrebbe rischiato di guastarla. Solo quando Inge aveva frenato di fronte alla porta della mia casa, avevo fatto come una mossa per afferrarle la mano. S’era sottratta con semplicità.
«Buona notte» aveva sorriso.
«Ma adesso,» avevo provato a insistere «quando potremo rivederci?»
Per un po’ aveva riflettuto. Quindi, con un curioso tono di distacco:
«Bene... Dopodomani vado in Francia: una gita di due giorni al Pas de Calais. Ci sono già stata, ma ho voglia di tornarci. Se volete venire...»
«Grazie. Ma siete sicura d’aver posto per me?»
«È naturale: sono sola...»

A una svolta, tutt’a un tratto, in fondo a una breve discesa, apparvero le due sbarre e le due case doganiere, la belga e la francese. Inge rallentò. Io sporsi in fuori il braccio tendendo i nostri due passaporti, e il doganiere belga, senza neppure guardarli, ci accennò di proseguire. Quello francese, al contrario, pochi metri più avanti, vi gettò appena un’occhiata e subito ci ordinò di fermarci. Li aprì, li osservò, li sfogliò pagina per pagina, poi, con un gesto della mano, ci indicò lo spazio libero a fianco della strada. Restai sorpreso: due altre macchine, un attimo prima, erano passate senza alcuna formalità.
Inge accostò e l’agente si sporse dal finestrino:
«Avete nulla da denunziare?»
«Nulla» dissi io. «Restiamo in Francia solo per il weekend. Ma se volete vedere...»
«Bene, vediamo. Volete scendere, per favore?»
Scendemmo, io d’un balzo, Inge assai più lentamente.
L’agente rovistò nell’interno, guardò con cura sotto i sedili, pescò in una tasca della carrozzeria la patente di Inge ed esaminò brevemente anche quella. Infine, raddrizzandosi:
«E le vostre valigie?»
Inge cercò le chiavi e, con una lentezza che questa volta mi parve voluta, andò ad aprire lo sportello posteriore e tirò fuori la sua.
«Volete mostrarmi cosa c’è?» le chiese il doganiere.
«Fate voi. È nel vostro diritto.» Impassibile, l’uomo sollevò a uno a uno gli indumenti, palpeggiò tutti gli angoli, poi abbassò il coperchio con un colpo secco. Ficcò quindi la mano nella mia e immediatamente trovò i pacchetti delle sigarette.
«E questi? Perché non li avete denunziati?»
Lo guardai, e finalmente scopersi il suo viso: gli zigomi alti, le guance rossicce, due occhi che mi fissavano senza simpatia. Quello sguardo lo conoscevo, lo sguardo del francese che quando ti scruta sembra avere altri due occhi, dietro i primi, a frugarti.
«Non so» risposi a disagio. «Sono tre o quattro pacchetti. M’avevano detto che per le sigarette non c’era alcuna difficoltà.»
«Sì, ma però bisognava lo stesso denunziarle. È il regolamento.»
«E allora» dissi io «volete sequestrarle?»
«Come voi preferite, signore. Prima di tutto, in ogni caso, occorre pagare la multa. Poi, se volete, c’è la dogana. Altrimenti potete lasciarle. Per noi fa lo stesso.»
Sapevo ch’era quasi un sopruso, uno stupido sopruso, ma non volli mettermi a discutere: era inutile, lo sentivo, e per di più, se l’avessi fatto, ne sarebbe stato troppo felice.
«Se è così, preferisco tenerle. In Francia, m’hanno detto, si fuma in modo orribile.»
«Bene» ribatté senza scomporsi. «Volete seguirmi?» E mi precedé nell’interno della casa doganiera.
Pagai a un sergente cortesissimo e freddo e riebbi indietro i pacchetti e due piccole ricevute. Uscendo trovai Inge al volante, che già aveva acceso il motore.
«Ebbene?» mi chiese.
«È fatto. Possiamo partire.»
«Presto, allora.»
Mentre stavo prendendo posto, udii alle mie spalle la voce del sergente, che m’aveva seguito fino alla porta:
«Ma insomma, chi sono?»
«Oh, tu sai» gli rispose l’agente. «Un italiano e una tedesca.»
Mi volsi, e il sergente per un attimo rimase a squadrarmi. Poi, muovendo appena il capo: «’sti porci» esclamò.
«Arrossii violentemente, mentre Inge, accanto a me, metteva in moto la macchina. Aveva udito? Aveva capito? Ne fui certo, un minuto dopo, al modo quasi rabbioso con cui tormentava il cambio, superando l’una dopo l’altra le macchine che ci precedevano.
«Piano,» cercai di scherzare «non val la pena di rompersi il collo. In fondo non è che un piccolo incidente di frontiera.»
Rallentò senza rispondere, senza neppure voltarsi. Poco dopo però – la strada era in discesa, tra due file d’alberi in boccio, mentre alto sull’orizzonte s’intravedeva un sole scialbo – l’udii mormorare:
«Ma finirà mai una volta?»
«Che cosa?»
«Quest’odio... Non avete visto?» «Finirà, deve finire. Ma quattro anni è troppo poco, per noi e per loro.» M’avvidi che, senza volerlo, m’ero messo dalla sua parte. Ma non parve notarlo:
«Quattro anni» echeggiò quasi parlando tra sé. «Ma è bastata una notte per distruggere la mia città. Lo sapete quanti sono stati i morti, in una notte? Diecimila!»
Di dov’era? M’accorsi che ancora non lo sapevo e non ebbi voglia, in quel momento, di domandarglielo. La sua città, del resto, ognuno in quegli anni se la portava in fondo agli occhi, anch’io la mia; l’immagine della propria città saccheggiata dalle bombe, e un nome ne valeva un altro, e Pisa era stritolata, e di Colonia, m’avevano detto, non restava che la cattedrale. Piuttosto, sogguardandola, cercai di figurarmi com’era lei quattro anni prima: una ragazza di quindici anni, al massimo di sedici, coi capelli forse più biondi e il petto più acerbo, che non sapeva o non si chiedeva perché ci fosse stata la guerra, e della guerra conosceva solo gli aerei che sorvolavano invisibili il cielo nero della sua città. Per lei, per tutti quelli ch’erano cresciuti assieme a lei, non era questione di domandarsi chi avesse ragione e chi torto, ma unicamente chi li avesse uccisi, coloro che s’erano veduti morire accanto, chi le avesse distrutte, dal cielo, le loro case, quando al mattino, una mattina brumosa d’una città della Germania, erano usciti dai rifugi, tra i muri che ancora crollavano, al cercare ciascuno la propria casa distrutta.
«Lo so» mormorai dopo qualche tempo come inseguendo le mie riflessioni.
«Ma quattro anni è ancora troppo poco: tutti, nessuno escluso, hanno avuto la loro guerra. Come volete che dimentichino? Anche l’odio, come tutto il resto, è stato troppo più grande di noi. D’altronde, voi vi odiano, ma noi, ci disprezzano. Voi stessi, lo so, vi credete in diritto di disprezzarci. Come vedete, nessuno è davvero neutrale.»
«Anche chi non è colpevole?»
«Colpevole? E chi lo è? Così sarebbe troppo facile. Piuttosto, ammettetelo, anche voi avrete odiato.»
«Io non odio nessuno.»
«Ne siete sicura?»
«Nessuno» ripeté con forza.
Io non ne ero altrettanto certo. Per lo meno, anch’io avevo odiato. C’era un ricordo, nella mia vita, che mi avrebbe accompagnato ovunque, come aveva sovrastato per mesi gl’incubi delle mie notti. Risaliva agli ultimi giorni dell’occupazione tedesca: un viottolo tra gli orti, una fila d’alberi, un pino stroncato di netto da una bomba; di là dal pino un breve muro calcinato dal sole di luglio, di là dal muro una fila di morti, quindici cadaveri ormai disfatti lasciati nel sole com’erano caduti. Il sedicesimo, un ragazzo di dodici o tredici anni, l’avevamo trovato sull’argine d’un fosso, mitragliato alla schiena mentre tentava di fuggire, e adesso era li, un ginocchio contro il ventre e una mano aggrappata all’erba, piccolo mucchio di stracci con addosso l’odore dolciastro e polveroso della morte. Certo, quattro anni prima qualcosa era finito; qualcosa, in quei quattro anni, l’avevamo seppellito in fondo al cuore. Ma tutti quei morti? Dove avremmo dovuto sotterrarli, per poterli dimenticare?
«Che c’è? Non dite più nulla?» domandò Inge vedendo che non parlavo.
«Oh, niente, riflettevo. Voi dite nessuno, e certo siete sincera. Anch’io potrei dirlo, e sarebbe vero ugualmente. Ma con questo? Che cambia? Siamo noi che scegliamo? Odiare non è come amare, che basta scegliersi in due. Avremmo dovuto nascere altrove, o almeno in un’altra epoca, perché le nostre scelte avessero ancora un senso.»
«Ma se è così, che contiamo? »
«Che contiamo? A che serviamo? A nulla, non ve ne siete ancora accorta? Proprio a nulla.» Poi, pensando con improvvisa pena ai suoi vent’anni: «O piuttosto, solo a noi stessi. Ed è già molto, vi assicuro. Per me almeno è già abbastanza. Ho visto troppi morti accanto a me, per non desiderar di vivere. E il fatto è che voglio vivere. Per me stesso, fin dove è possibile. Voi no?»
«Oh, anch’io!» Per qualche istante restò a riflettere. Quindi, scrollando il capo quasi per liberarsi da un pensiero molesto: «Oh, basta adesso con questi discorsi. Ho già il mal di testa... Piuttosto, perché non pensate a offrirmi un’altra sigaretta?»
«Ma certo» dissi premuroso. Stavo per porgergliela, ma mi trattenni: «Preferite che ve l’accenda?»
Sorrise, senza voltarsi, d’un riso pieno di malizia che le illuminò tutto il volto: «Ma sì! Se ci tenete...»

Il suo sorriso: era esso a dare un senso al suo volto. Me ne resi conto, poco dopo, quando la vidi rifarsi seria. Appariva più scostante, chiusa in sé, si sarebbe detto, mentre guidava con una sorta di caparbia diligenza – la diligenza del principiante –, attenta ai comandi, alla strada, alle macchine che ci precedevano. E il suo profilo era di nuovo duro, il mento troppo rilevato. Chi era? A che pensava? Che pensava di me? Stranieri l’uno all’altra, parlando ciascuno una lingua non sua, che c’era di comune tra di noi, salvo il fatto ch’eravamo ambedue lontani dalla nostra terra, soli e sbandati, io incapace di adattarmi a un modo di vivere che non era il mio e ansioso, come adesso, d’una rispondenza o d’un affetto, lei portandosi in cuore un’amarezza diversa, un segreto complesso di colpa, mille incerti risentimenti, e in fondo a tutto il bisogno di non sentirsi più sola? Voglio vivere, le avevo detto. E anche lei voleva vivere. Per me come per lei poteva significare molte cose: ma soprattutto il nostro diritto a rivendicare la nostra parte di felicità individuale, poca o molta che fosse, ad esser amati per noi stessi e per ciò ch’eravamo, a no...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il cimitero cinese
  3. Indice dei contenuti
  4. INTRODUZIONE
  5. IL CIMITERO CINESE
  6. Il cimitero cinese
  7. Ritorno a Cassino
  8. I Partigiani
  9. NOTA SUL RACCONTO INEDITO I PARTIGIANI
  10. POSTFAZIONE