Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
I
Il corridoio è completamente bianco, attraversato da una luce lattiginosa che sfuma ogni contorno. I letti sono addossati a una lunga parete al centro della quale si apre, perpendicolarmente a questo, un altro corridoio. Chi fosse disteso su uno dei letti (ma io non credo di esserlo) vedrebbe di fronte a sé una vetrata investita da una luce alta e diffusa proveniente dall’esterno. Che ci sia un qualche ambiente esterno è però una semplice congettura: non si distingue niente, un po’ come nelle piscine termali di una volta, dove i vapori impregnati di zolfo soffocavano respiro e visibilità. Percepisco un senso di disagio attenuato, non drammatico, solo un lieve blocco allo stomaco, una respirazione lievemente accelerata. Riesco a muovermi a stento. Mi sembra di scivolare, di volteggiare lentamente come un astronauta, almeno come si vedono gli astronauti nei filmati di repertorio. Mi chiedo se ho fame o sete e non so se sono vestito e, nel caso, quali abiti indosso anche se non mi sento neppure nudo. Avverto il bisogno di registrare queste sensazioni, ma non ho strumenti per scrivere: non un foglio di carta e una biro, tanto meno un portatile. Scrivere sarebbe il solo modo, anche se del tutto insufficiente, per restare a galla, per illudermi di tenere la situazione sotto controllo. Se ci siano altre persone sui letti non so. Questi non mi danno comunque l’impressione di essere vuoti anche se il bianco impedisce di riconoscere sagome e movimenti.
Mi dico che qualcosa succederà, nel bene o nel male, che questa condizione non può durare a lungo se è vero che anche nelle prigioni (ma ci sono mai stato?) qualcosa prima o poi succede: il rancio, la doccia, le visite, l’ora d’aria, il clangore delle serrature che si aprono o si chiudono, le voci, gli urli, i passi del secondino.
E in effetti sì, ecco, qualcosa si muove: una massa bianca e collosa si alza a fatica da uno dei letti e si solleva pesantemente lasciando colare sotto di sé filamenti che mi ricordano quelli della pasta lievitata al momento di preparare il pane. Si è acceso anche un pannello bianco attaccato alla parete: segna il numero 29, modellato anche questo in bianco, ma un bianco più forte e più nitido, e insieme con l’accendersi del numero è risuonato lo squillo, chiaro e breve, di un campanello elettronico. Però questo campanello deve essere risuonato già prima, un momento fa, senza che io me ne accorgessi se è vero che, come mi pare di capire, la massa collosa si è sollevata in risposta a un richiamo.
Questa massa è indubbiamente una persona, ed è avvolta in una specie di gelatina che la copre interamente e che, prima che si sollevasse, ne oscurava non solo la sagoma ma la stessa presenza. Ma allora, mi chiedo, anche gli altri letti, o almeno alcuni di essi, sono occupati da presenze simili, come in una corsia ospedaliera di una volta? Forse io stesso sono uno di loro? Provo a toccarmi, a sentirmi. No, niente da fare, non ci riesco. Forse ho avuto un ictus, definitivo o temporaneo, e sono una coscienza, o un’incoscienza, incapace di comunicare con il suo corpo, di impartirgli ordini e impulsi. Le mie membra, del resto, neanche le sento. Non le vedo, non so cosa fanno. Sì, sento di esserci, adesso, da qualche parte dentro questo ambiente privo di colori, ma non ho l’impressione di essere schiacciato su un letto.
L’ammasso si è quasi completamente staccato, prova a sostenersi su due gambe corte ma robuste sorreggendosi con una mano al bordo del suo letto. Prova a camminare: arranca un po’, sbanda al primo passo ma poi ce la fa, si rimette dritto e procede rasente il muro finché scompare nel vano del corridoio che si apre al centro della parete. Solo adesso mi accorgo che non ha fatto alcun rumore. Il silenzio, da quando è squillato il campanello, è assoluto.
Sì, deve essere come in un ospedale, per una visita ambulatoriale (o intra moenia) o per un esame clinico. Ognuno ha il suo numero e con quello viene chiamato da un infermiere o da un altoparlante oppure, appunto, da un campanello elettronico.
Ma se è un ospedale, che tipo di ospedale è? Per la cura di quali malattie? Anch’io sto aspettando il mio turno per una visita o per un esame? E a quale numero devo rispondere se si accende il pannello luminoso? Che io sappia, io non ho un numero come non ho un letto.
Mi pare che su un altro giaciglio si accenni un movimento, ma è una cosa diversa. C’è come un leggero mulinello, bianco naturalmente, con cerchi sempre più larghi. Un’altra massa che si stacca? No, la materia si affloscia, resta una specie di pozza vagamente liquida. Non è successo niente.
II
Nel corridoio in cui mi trovo appare qualcuno o qualcosa. Quello che potrebbe essere un infermiere dapprima si guarda intorno, poi scruta nella direzione della pozza liquida, si avvicina al letto, toglie tutto quanto ricopre ciò che potrebbe essere un materasso e ci fa una grossa palla che stringe fra le braccia e trasferisce verso il corridoio da cui è venuto.
Se prima non mi sentivo né vestito né nudo, ora percepisco più nitidamente di non avere niente addosso: non un capo di vestiario e neppure un orologio. Comincio a vedermi le braccia, o meglio solo il braccio sinistro, ma è scialbo, poco rilevato, come se fosse un disegno a matita eseguito con tratto leggero, non una massa, un volume.
Mi prende una stanchezza improvvisa, la vista mi si offusca, ma come a rovescio: non diventa più scura ma più chiara, si confonde con il bianco dell’ambiente, penetra dentro gli occhi, affonda internamente, sotto la cavità oculare, dentro la testa.
Riapro gli occhi e sono sdraiato, non più però nel corridoio. Evidentemente mi hanno trasferito in una stanza interna, forse una di quelle che, immagino, si aprono sui lati del corridoio di cui intravedevo l’inizio. Ora ci sono presenze intorno a me e si muovono, parlottano a bassa voce. Mi stanno preparando per un intervento chirurgico? Sì, devo averne fatto qualcuno, erano sempre in cinque o sei che si spostavano in sincrono, ognuno eseguiva qualche gesto: esaminava una macchina, controllava uno strumento, portava una sacca, leggeva una tabella. Qui però la situazione è un po’ diversa. Sono solo in tre e non sembra che preparino qualcosa, mi girano intorno come se cercassero la posizione giusta. Due si mettono a sedere accanto a me su piccoli sgabelli, il terzo resta in piedi presso il fondo del letto (sì, ora so di essere steso sopra un letto). Il terzo è l’unico di cui intravedo gli occhi: molto scuri, puntiformi. Degli altri due non distinguo che il largo svolazzo di una veste che, tenendo un braccio un po’ alzato, portano davanti alla faccia. Nessun indizio se siano donne o uomini, mentre quello a capo del letto direi che è un uomo, ma è solo un’impressione fondata sul tipo di sguardo: acuto, fermo, sicuro. La situazione ricorda un po’ le incursioni mattutine di un primario con il suo codazzo di vice, assistenti, infermieri. Una sosta in ogni camera e davanti a ogni letto, cartelle cliniche, esami, ordini, raramente un approccio tattile al degente su faccia, torace, addome o altro.
Qui però non so neanche se ci siano altri letti, quanto grande sia la stanza (se di una stanza si tratta). I tre compari non fanno assolutamente niente di operativo: uno continua a fissarmi, gli altri due sembrano perennemente impegnati a drappeggiarsi in questa specie di lenzuoli che li fasciano completamente come cavalieri berberi.
Il capo, perché sembra che debba sempre esserci un capo, ha detto ai due ‘berberi’:
“A questo fategli gli esami di routine… stanza 7”
La battuta mi arriva come in ritardo, allo stesso modo dello squillo del campanello nel primo corridoio. È come in certi servizi televisivi in diretta dall’America o da altre terre lontane: la voce del corrispondente arriva con qualche secondo di ritardo. Questione di velocità del suono. Sì, ricordo, circa 330 metri al secondo nell’aria (nell’acqua la propagazione è più rapida). Già, ma qui siamo a due metri di distanza, perché mai questo effetto ritardato? Non ne ho idea, ma l’‘a questo fategli...’ non mi è piaciuto: è sempre un segno di disprezzo indicare qualcuno con ‘questo’ o ‘quello’, o almeno di superiorità o di fastidio, talvolta di potere. Comunque non ha detto ‘anche a questo’, dunque la mia sorte sembra essere diversa da altre, ad esempio da quella del numero 29. A lui niente esami di routine? Arruolato o scartato senza esami?
Mi verrebbe voglia, di nuovo in ritardo, di fare qualche domanda, ma non so se sono in grado di parlare e di poter essere ascoltato. E comunque l’impulso resta vago, inerte, qualcosa che resta attaccato in fondo alla gola e che non riesce, anzi non fa nessuno sforzo per affiorare.
I due ‘assistenti’ - dico così a me stesso per usare l’espressione più vaga che trovo anche se la parola è ormai fuori moda: ci sono aiuti, collaboratori, ricercatori, forse restano solo gli assistenti di volo - non reagiscono a quello che sembrava un ordine: mi volteggiano intorno come se non toccassero terra, avvicinano le braccia anch’esse avvolte nei loro tessuti leggeri da cui non spuntano mani ma, a intermittenza, scure protuberanze (finalmente qualcosa che non sia una gradazione di bianco), cilindri neri o marrone scuro con annessi alcuni chiodi metallici. Sono protesi per invalidi? Entrambi hanno perso le mani? Pur essendo sempre più vicini, non emanano alcun odore né emettono alcun suono. Girano e girano, non so per quanto continueranno. E poi… oh… piccoli lampi, più o meno prolungati, come scatti di flash, da un certo momento in poi molto fitti, a ripetizione, incalzanti come fuochi d’artificio. Mi ricordo, io che al momento non ricordo niente di me stesso, di quando si passava da Berlino ovest a Berlino est prima della caduta del muro. Dopo un breve e sgarbato interrogatorio sulla ragione per cui uno intendesse visitare la zona orientale, su che cosa contenesse la sua borsa (se l’interessato ne portava una) e che lavoro facesse, si posava su un bancone la borsa stessa e si attraversava uno stretto corridoio vuoto dal cui soffitto concavo scattava verso il basso una bordata di flash. Poi si giungeva dall’altra parte, ti veniva restituita la borsa, si usciva all’aperto in un ampio parcheggio gremito di Skoda. Ora capisco (mi sento lento pure nei pensieri). Anche se non mi hanno trasferito in un’altra stanza, sono questi gli esami di routine: una mappatura, uno scrutinio generale del soggetto. I cilindri scuri non sono protesi degli arti superiori, ma strumenti di rilevazione, mentre la brillantezza dei flash mi fa pensare al laser (ma ne so davvero qualcosa?). Dunque, se non hanno braccia particolarmente lunghe, non è affatto detto che i due siano privi di mani. Poi la coppia di berberi conclude l’operazione e si dissolve in una frazione di secondo. Oh, anche il capo non c’è più. Sono solo e manca anche il letto su cui mi sembrava di stare disteso.
III
“Pronto, mi sente?”
Una voce bassa, grave, maschile, sciama nello spazio vuoto. Ora mi sento in piedi, o meglio in posizione eretta dal momento che non ho sentore né di gambe né di piedi.
“Sì, la sento”
Quasi fossimo al telefono! In effetti sì, percepisco questa voce che non sembra provenire da un unico punto, ma da diversi diffusori acustici: una voce stereofonica. Quella che non percepisco è la mia, di voce: come se avessi detto ‘sì, la sento’ solo con la mente, con l’intenzione. Vediamo se lui mi ha sentito.
“Bene! Il contatto funziona”
“Cosa volete da me?” La domanda, un po’ ansiosa, mi sfugge incontrollata. Non vorrei dar l’idea di un povero inetto, ma peggio di così, quanto a controllo della situazione, non potrei ritrovarmi.
“Io sono io, non noi, e non voglio niente da lei. È piuttosto lei che dovrebbe aver bisogno di aiuto...”
È la solita storia: chi ha una posizione di superiorità, chi sa le cose, chi controlla e dirige, detta norme, fa precisazioni.
“…ma in tutta onestà devo dirle che anche noi abbiamo un problema a cui lei afferisce solo come un caso particolare, molto particolare…”
“…e sarebbe?”
“Sarebbe a dire, ma il quadro che posso prospettarle è per ora solo parziale, che è in atto un generale deterioramento degli esemplari. Le scorte stanno finendo, anzi sono già largamente finite o lo sarebbero se non fossimo ricorsi a molte copie, un cumulo di cloni che si stanno minacciosamente avvicinando al 50% del totale”
“Esemplari… copie… cloni... di che cosa?”
“Per favore, non mi interrompa, mi lasci proseguire e vedrà che il quadro, anche se frammentario, andrà in buona parte ricomponendosi davanti ai suoi occhi”
“Occhi? Ho ancora occhi, orecchie, braccia, gambe?”
“Non si perda in dettagli secondari. È un modo di dire, una traduzione, di cui faccio uso per comunicare con lei”
“Lei traduce? Da quale linguaggio?”
“Sì, io traduco, ma in senso concettuale. Lei però, mi scusi, come deve aver fatto nel corso di tutta la sua esistenza si smarrisce nei particolari, fa domande che ci allontanano dal nocciolo della questione, vuol raggiungere senza tappe intermedie un traguardo ancora lontano”
“E come potrei pretendere di raggiungere un qualche traguardo in un luogo che non conosco, con sensazioni che non sento mie, ascoltando una voce di cui non s...