Viaggio in Albania
10 dicembre 1990, lunedì – Dopo aver partecipato a una settimana di seminari internazionali in America Latina (Argentina, Uruguay), con gruppi ecologisti di base, sui temi dell’“ecologia sociale” e di “ambiente e povertà”, torno in Italia. Non c’è tempo sufficiente per andare a casa, perché il giorno dopo devo partire assai presto per l’Albania. Così, per fortuna, non mi raggiunge la notizia che l’ambasciata albanese a Roma e l’ambasciata italiana a Tirana vorrebbero farmi rinviare il viaggio, visto che il governo albanese non sembra entusiasta di avere visite durante un periodo di tensione politica. Sui giornali di lunedì si trovano brevi notizie di cronaca su proteste studentesche a Tirana, riferite a problemi di riscaldamento insufficiente nei collegi.
11 dicembre 1990, martedì – Parto con Colafato da Roma a Bari, e da lì per Tirana; Mme. Charriot a Bari non è sull’aereo, e quindi capisco che ci devono essere stati dei problemi. Sui giornali si leggono ulteriori notizie su proteste studentesche a Tirana, e si parla di democrazia e di pluralismo, non più di riscaldamenti guasti.
A Tirana ci attende in aeroporto il capo-protocollo del Parlamento albanese. Abbiamo fortuna: ci viene assegnato, come interprete, un giovane politologo albanese che in un convegno in Italia ho già avuto modo di conoscere e apprezzare. Con due vetture di stato (Peugeot) raggiungiamo la città. Quel che si vede nelle campagne intorno, ricorda l’Italia meridionale di 40-50 anni fa: molte bestie al pascolo, bestiame anche lungo la strada; poco traffico (quasi solo camion, corriere e trattori); veicoli semplici a trazione animale; gente su asini, muli e cavalli, e molti a piedi, spesso con attrezzi e prodotti agricoli. Disseminati nelle campagne si vedono tanti piccoli bunker, chiamati “funghi”, che costituiscono una testimonianza della dottrina albanese di difesa nazionale. Sono stati costruiti, con grande dispendio di mezzi, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Forse allora davvero un intervento simile in Albania non era così impensabile. Chissà se questi mini-bunker avrebbero consentito una difesa non solo eroica, ma anche efficace...
Giunto a Tirana, mi presento subito all’ambasciatore italiano, visto che l’Italia detiene attualmente la presidenza della Comunità europea, e mi informo sulla situazione. Poco dopo al Ministero degli esteri si svolge il primo incontro ufficiale, di quelli previsti. Si tratta di una lunga conversazione con Rolanda Dhimitri, vicepresidente della Commissione Esteri del Parlamento albanese e vice-rettore dell’Università “Enver Hoxha” di Tirana, insieme al direttore politico del Ministero, Petraq Pojani. Entrambi esprimono fiducia nel processo di democratizzazione, avviato – come ribadiscono – dal presidente Ramiz Alia, e si augurano di poter avere finalmente rapporti più stretti con l’Europa in generale, e con la Comunità dei 12 in particolare.
Ci si lamenta della freddezza dimostrata alla Conferenza Csce di Parigi verso l’Albania (ammessa come osservatrice, non come membro a pieno titolo), e della mancata risposta alla domanda albanese di istituire reciproci rapporti tra Comunità europea e Albania. Interpellati sui moti studenteschi, i nostri interlocutori tendono a rispondere piuttosto al ribasso (riscaldamento, mancanza di energia a causa di un’estate con grande siccità...), ma vi vogliono scorgere anche un fattore di accelerazione delle riforme avviate dal presidente Ramiz Alia. Durante la nostra conversazione e la successiva cena, notiamo vari messaggi che vanno e vengono, probabilmente via telefono. Più tardi veniamo a sapere la ragione: in contemporanea con la nostra conversazione c’è stata una riunione di Ramiz Alia con una delegazione di studenti, alla sede del partito, ed evidentemente i nostri interlocutori volevano essere via via aggiornati sugli eventi. Notiamo che nel corso del colloquio l’espressione “pluralismo politico” comincia a fare capolino.
Aspettiamo impazienti la fine della cena ufficiale perché dalle strade si sentono rumori che sembrano indicare assembramenti in corso. Decidiamo di uscire subito dopo il congedo dai nostri ospiti. Tirana in generale è poco illuminata, c’è molto fango e molte pozzanghere. Ma seguiamo semplicemente la gente che sembra in gran parte diretta allo stesso posto, e ci avviciniamo alla fonte dei rumori: il grande piazzale tra le “case dello studente” o “i dormitori”, come vengono chiamati lì. E vi troviamo, con grande sorpresa e contentezza, un’assemblea di almeno 20mila giovani, all’aperto e al buio.
Via altoparlante viene diffusa la registrazione dell’incontro tra Alia e la delegazione (composta di circa 30 persone, tra cui 8 ragazze e 4-5 professori, chiamati “pedagoghi”). Si sente tutto ben distintamente: gli studenti che danno del tu al presidente, senza complimenti, e che ripetutamente chiedono una formale garanzia per l’introduzione del pluralismo politico. “Quindi possiamo ora formare un nostro partito?” si sente chiedere. “Come possiamo presentarci ai nostri compagni senza una risposta chiara a questa domanda?” E solo dopo averla ottenuta, affermativa, gli studenti sono disposti a concludere l’incontro. La folla risponde con entusiasmo, e riusciamo a parlare con tantissimi giovani, in un’atmosfera di fraternità e di giubilo. Tutti o quasi sanno almeno una lingua straniera, spesso l’italiano, o il francese, ma anche l’inglese, il tedesco, qualche volta il greco o il serbo-croato o il russo. Molti si lamentano con noi che RaiUno col suo Telegiornale – che si riesce a vedere in Albania – non informa abbastanza sulle vicende albanesi: “è la nostra finestra sul mondo, perché ci dimenticano così spesso?” Veniamo pregati di attivare la solidarietà della gioventù europea per gli studenti albanesi.
12 dicembre 1990, mercoledì – I giornali pubblicano in prima pagina la foto del colloquio del presidente con gli studenti e riportano le prime decisioni del “partito del lavoro”: dimissionati 7 membri del Politbüro, convocato un attivo straordinario del partito per il 26 dicembre 1990, anticipato il congresso al giugno 1991, accelerazione del processo di democratizzazione. Gli studenti, cui chiediamo un giudizio, non si mostrano ancora soddisfatti: lamentano, tra l’altro, che il “nocciolo duro” del vecchio regime intorno alla vedova del despota Enver Hoxha e al Ministro degli interni siano ancora ai loro posti.
Mi viene da pensare a una commedia del mio amato autore viennese Nestroy, intitolata “A pian terreno e al primo piano” (vi si rappresentano due parallele vicende, di una famiglia proletaria e una borghese, che abitano nella stessa casa, a pianterreno e al primo piano). Anche la nostra visita si svolge continuamente su questi due piani. Oggi incontriamo Kleanthi Koci, presidente della Suprema Corte e segretario della Commissione per la revisione costituzionale. Una conversazione assai approfondita, che già riflette chiaramente le vicende notturne: elogio alle misure di riforma del presidente (tra le quali l’apertura alla libertà religiosa, la reintroduzione di un Ministero della giustizia e della professione di avvocato, la riforma del codice penale, la possibilità di presentare candidature indipendenti alle elezioni con 300 firme di sostegno, l’abolizione formale del monopolio del partito comunista, l’apertura a certe forme di partecipazione estera a investimenti e l’introduzione di un settore privato nell’economia) e si dice convinto che questo processo ora andrà avanti con più decisione.
Si mostra scettico sul futuro del proprio incarico: il 10 febbraio 1991 il Parlamento verrà comunque rinnovato, e saranno i nuovi a decidere la riforma della Costituzione e la sua permanenza alla testa della Suprema Corte. Sugli studenti si esprime in termini cautamente positivi. Nega con decisione ogni sistematica violazione dei diritti umani (tortura, repressione politica, religiosa o etnica, eccetera); “semmai – afferma – poteva trattarsi di qualche isolato caso di eccessi individuali, punibili a norma di legge e talvolta anche puniti” (ci parla di un giudice istruttore incorso in una pena); in ogni caso nella nuova Costituzione verrà sanzionato esplicitamente il divieto della tortura. Anche la libertà di uscita e rientro nel paese sarà sempre meglio definita e regolamentata – “ma forse all’estero non saranno proprio felici a vedersi arrivare ora anche gli albanesi”. E i “profughi delle ambasciate” del luglio scorso rappresenterebbero piuttosto la feccia del popolo albanese, non si dovrebbe commettere l’errore di giudicare l’Albania da loro (questo parere viene condiviso da molti altri, anche da esponenti dell’opposizione).
Dirigendomi verso il quartiere universitario noto molta polizia e militari. Sembra in forse l’assemblea prevista per il pomeriggio, o perlomeno non si sa ancora se la gente vi potrà liberamente affluire. Ma qualcuno pensa anche che non sia altro che un “normale” servizio d’ordine, magari con in più il compito di non far arrivare delegazioni operaie tra gli studenti. Si sente parlare, infatti, di diverse fabbriche in cui gli operai avrebbero solidarizzato con gli studenti, i tipografi avrebbero persino scioperato e inviato una loro rappresentanza, e anche nelle altre fabbriche vi sarebbe simpatia per gli studenti. Si incontra gente che spontaneamente dice di essere fiera di “questi nostri giovani”.
Sul grande piazzale tra i dormitori degli studenti continuano ad affluire persone, non solo giovani e studenti, fino a raggiungere un numero tra 70mila e 100mila. Tutti dicono “l’intero popolo albanese è con noi”. Non appena si viene identificati come stranieri, si formano subito assembramenti di persone che vogliono domandare, raccontare, commentare. “Gli studenti in Europa stanno manifestando per noi?” ci viene chiesto. Mi si invita a parlare alla folla, e solo con grande difficoltà e abnegazione rifiuto di farlo (nel timore che possa essere ritorto contro gli studenti, come prova di ingerenza straniera).
L’assemblea non può iniziare subito, è saltata la corrente e i microfoni non funzionano. Sabotaggio? Non si sa. Per un attimo si teme un intervento poliziesco, magari appena dopo il crepuscolo. Ma poi i microfoni si accendono, perché la corrente è stata fatta arrivare con un lungo cavo da un altro edificio, e i discorsi possono cominciare. Uno studente di nome Azem Hajdari apre la manifestazione, e subito si capisce che ormai si è di fronte alla formazione di un vero nuovo partito politico.
Probabilmente si chiamerà semplicemente “partito democratico”, come modello si guarda alla Lega democratica del Kossovo (la regione della Jugoslavia abitata da quasi tre milioni di albanesi). Parla poi un cardiologo di nome Salih Berishi, già noto in precedenza come persona critica verso il regime; tocca i temi del pluralismo e dei diritti umani e dichiara che gli studenti possono contare sull’appoggio di vastissimi strati della popolazione. Dopo di lui tocca all’attore Arben Imame spiegare il programma provvisorio del nuovo partito, di cui si chiede l’immediato riconoscimento legale da parte del neo-costituito Ministero della giustizia. Le rivendicazioni principali riguardano i diritti umani, la democrazia, il pluralismo politico, l’inserimento dell’Albania in Europa di cui si considera parte integrante, la riforma dell’economia (grosso modo pare che si pensi all’economia di mercato, ma se ne parla ancora vagamente), la riduzione dell’orario di lavoro (si lavora in media 48 ore la settimana, con sole due settimane di ferie all’anno), l’informazione pubblica corretta e veritiera, la solidarietà per gli albanesi del Kossovo. La folla continua ad applaudire i passaggi salienti e a gridare slogan come “vivid demokraci!” e “in Albania come in tutta Europa”.
Vado poi all’ambasciata italiana e cerco di richiamare l’attenzione della Rai sugli eventi albanesi, cercando di mobilitare tutti i miei conoscenti che possono far qualcosa a questo proposito e che riesco a contattare malgrado le difficoltà telefoniche. Non ci sono quasi giornalisti stranieri presenti ai fatti, e questo movimento può farcela solo se l’Europa ne prende consapevolezza e lo sostiene.
I collegamenti però sono assai difficoltosi, e riesco a rispondere solo a pochissime chiamate tra quelle che sono arrivate per me all’ambasciata (tra cui “il manifesto”, “Radio radicale” e “Radio popolare”, ma anche l’agenzia di stampa austriaca Apa, “Il Sole 24 ore”, il giornale-radio della Rai di Bolzano). L’ambasciatore d’Italia organizzerà per il giorno dopo un mio incontro con i quattro ambasciatori “comunitari”.
Al più tardi da oggi si può dire che il pluralismo esiste in Albania: la gente è uscita dalle catacombe, sulla strada si riesce a parlare con molti (ma si avverte anche parecchia paura), noi siamo riusciti a fissare un appuntamento con alcuni studenti per la sera e a rispettarlo. Nel frattempo è arrivata anche Mme. Charriot, con utile documentazione del Parlamento europeo. Peccato che non abbia potuto assistere alle due grandi, entusiasmanti assemblee. Colafato viene accolto dovunque con simpatia particolare, in quanto “arberesh”. Ci vengono raccontate biografie di studenti, in lunghe conversazioni serali (in passeggiata, non ci sono locali dove ci si possa incontrare).
Uno studente di architettura ci indica con ribrezzo la continuità stilistica tra le opere del periodo fascista (occupazione italiana) e di quello stalinista: “come possiamo imparare a progettare e costruire diversamente, se non possiamo mai andare da nessuna parte né conoscere altro?” Il figlio di uno scienziato di fama racconta che il sogno di suo padre sarebbe una stanza in più (da usare come studio) e un telefono a casa. Uno degli studenti ci accompagna fino all’albergo e infine decide di entrare con noi (che vorremmo invitarlo a cena) – ma poi tutti gli altri albanesi presenti – si tratta di personaggi più o meno ufficiali, spesso implicati nell’export-import – lo fissano con occhi tali da fargli passare l’appetito e forse si pente della sua stessa prova di coraggio.
13 dicembre 1990, giovedì – Succede qualcosa che in altri tempi sarebbe stato impensabile: due operai, con i quali avevo avviato un contatto indiretto ancor prima di partire per Tirana, sfidano il divieto e osano entrare nella hall del nostro albergo per chiedere di me al portiere. Stabiliamo di rivederci il pomeriggio, e come luogo dell’appuntamento propongo un punto tra i due monumenti a Lenin e a Stalin. Uno di loro se la ride e risponde: “se ci saranno ancora, questa sera...”
Poi naturalmente le cose non si evolvono in modo così precipitoso, e i monumenti non corrono immediato pericolo (ma si saprà il 21 dicembre che quello a Stalin è stato rimosso d’ufficio, alla vigilia di una nuova manifestazione studentesca). Noi intanto andiamo all’incontro con Muhamet Kapllani, vice-ministro degli Esteri (il ministro titolare è fuori sede e si trova a Cuba; qualcuno ci scherza sopra e dice che vi vorrebbe prenotare un esilio per tutta la nomenklatura albanese).
Le parole di Kapllani sono molto ferme e chiare: nulla contro gli studenti, che in tutto il mondo sono sempre un po’ critici, ma di un imminente cambio di regime non si parla neanche). La democratizzazione potrà arrivare fino al punto che il governo vorrà accettare. È molto deciso nel rivendicare un atteggiamento diverso e più positivo dell’Europa verso l’Albania.
Gli rispondo che molto dipenderà da come il governo risponderà al nuovo movimento e dal prosieguo della democratizzazione, e che probabilmente la gioventù albanese in pochi giorni aveva confezionato il migliore biglietto da visita che l’Albania potesse presentare in Europa. Il ministro reagisce sull’agrodolce e ci saluta perché deve inaugurare la conferenza inter-balcanica sui trasporti.
Noi invece veniamo accompagnati con le nostre due limousine a vedere un enorme “kombinat” industriale a Elbasan (circa 50 km a sud di Tirana): un vero e proprio monumento all’inquinamento e all’archeologia industriale, con 12mila operai, che sembra un parente dell’Italsider di Bagnoli. Peccato che non si sia potuto realizzare l’incontro previsto con Farudh Hoxha, vice-ministro competente per l’Ambiente.
In città abbiamo occasione di parlare un po’ con la gente: notiamo che sanno le cose essenziali sugli eventi dei giorni scorsi, e che i loro pareri divergono: tutti sono contenti che qualcosa cambi, ma alcuni vorrebbero subito la democrazia, senza limitazioni, e altri invece dicono che “chi non sa guidare non deve sedersi al volante di una vettura troppo veloce”.
Nel corso del pomeriggio si svolge, alla sede dell’ambasciata italiana, l’incontro con i quattro ambasciatori “comunitari” (Italia, Francia, Germania e Grecia). Noi in tre giorni cruciali abbiamo potuto vedere dal vivo cose che la diplomazia normalmente riesce a percepire solo in forme abbastanza diluite e attutite. Tra gli ambasciatori c’è chi mostra un certo pregiudizio verso l’Albania e gli albanesi, e chi invece appare più aperto. Tutti concordiamo che la situazione non appare ancora decisa univocamente in favore della riforma, ma che Ramiz Alia non sembra puntare alla repressione frontale, anche se il partito ovviamente non cederà facilmente porzioni di potere, e che la Comunità europea dovrebbe ora gettare sul piatto il proprio peso per incoraggiare il processo democratico.
In quest’ottica ci mettiamo in contatto, subito dopo la riunione, con la Presidenza del Parlamento europeo e con il Ministero degli Esteri italiano (in quanto presidenza di turno della Comunità europea). Vorremmo ottenere che il vertice dei 12 che comincerà il giorno dopo a Roma (Consiglio europeo) mettesse in agenda anche la questione albanese. Più tardi sapremo con soddisfazione che il presidente del Parlamento europeo, il socialista spagnolo Enrique Baron Crespo, riuscirà effettivamente a richiamare l’attenzione dei capi di stato e di governo su questo problema, e le poche righe che verranno inserite nel comunicato finale del vertice di Roma in Albania suscitano in tutti una grande impressione perché si avverte che l’Europa comincia finalmente a interessarsi di questo paese.
La sera aumenta la presenza della polizia a Tirana, e aumenta anche la gente che con preoccupazione allude all’esperienza della Romania. I nostri giovani amici non sono più così certi che il mausoleo a Enver Hoxha (“commissionato dallo Stato a sua figlia, con una spesa di 55 milioni di dollari che sono...