Educazione e rivoluzione. Per diventare persone
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Educazione e rivoluzione. Per diventare persone

Informazioni su questo libro

In questa raccolta di scritti, Paul Goodman (1911-1972) traccia le linee e le possibilità di una critica sociale anarchica e di una pedagogia libertaria per rispondere a una questione di fondo: come difendere e sviluppare l"autonomia delle persone in una società che li vuole massificati, servi dei consumi, conformisti al potere e alle tradizioni sociali. Quella di Goodman è una critica radicale alle istituzioni sociali ed educative a favore della creazione di contesti, comunitari e locali, più liberi e sottratti alla logica del potere e delle sue forme di dominio.Paul Goodman, sociologo, scrittore, poeta, è uno dei principali esponenti del pensiero anarchico del Novecento. I suoi scritti hanno inflienzato la sinistra libertaria e il movimento studentesco americano, e non solo, negli anni "60.

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Appunti di un conservatore neolitico

1. Per il verde dell’erba e le acque chiare dei fiumi, per gli occhi brillanti e i visi coloriti (qualunque ne sia il colore) dei bambini, per le persone non costrette a subire ordini e libere di essere se stesse: per piccole cose di questo genere io sono disposto a sbarazzarmi di qualunque altro privilegio politico, economico e tecnico.
I conservatori attualmente sembrano voler ritornare a com’erano le cose ai tempi dell’Amministrazione McKinley. Ma quando tutti vengono sottoposti ad attività di ingegneria sociale e la stessa biosfera è in pericolo, quello che serve è un conservatorismo più vicino all’età della pietra. Per questo apprezzo massime del tipo: “L’effettivo scopo della scuola elementare è quello di ritardare la socializzazione” e “Innovare per semplificare, o altrimenti farlo nel modo più cauto possibile”.
I liberal vogliono progredire, cioè accrescere il tasso di sviluppo con mezzi politici. Ma se le condizioni di base sono accettabili, è probabile che la società progredisca comunque, perché il popolo possiede energia, desideri, curiosità e ingegnosità. Tutte le risorse di uno Stato non riescono a formare un bambino, a rendere più bello un quartiere, a ridare dignità all’oppresso. Talvolta può persino lasciare uno spazio di opportunità perché la gente faccia da sé, ma nella maggior parte dei casi dovrebbe semplicemente evitare di interporsi, di far danni e sprechi. Il potere politico nascerà forse dalla canna del futile, ma, come ha detto John L. Lewis, “non si estrae carbone con le baionette”.
2. Edmund Burke aveva un’idea positiva del conservatorismo: la distruzione dei vincoli comunitari esistenti rappresenta un pericolo, in quanto essi non sono prontamente sostituiti; la società diventa superficiale e il governo perde di legittimità. Ci vuole l’avvento di un profeta o qualche altro cataclisma della ragione per ricreare nuovi legami nella comunità. È come una storia d’amore o un matrimonio: a meno che non ci sia un serio disaccordo morale o un’autentica repulsione fisica, è meglio resistere e soffiare sulle braci piuttosto che starsene felicemente senza amore o non sposati. La decisione diventa certo difficile quando uno si immagina che l’oggetto del suo amore sia un altro, ma popoli e nazioni sono piuttosto prudenti a questo riguardo.
In politica interna, Burke era un buon conservatore: era disposto a rinunciare a tutto il resto pur di conservare i vincoli comunitari. È proprio in questo che i falsi conservatori rivelano il loro opportunismo e la loro ipocrisia, parlando di “rappresentanza virtuale” o di “partecipazione massima possibile delle categorie non abbienti”, ma proteggendo in realtà gli interessi acquisiti. Una prova che la Rivoluzione americana aveva ragion d’essere sta nel fatto che il governo inglese non ha seguito le indicazioni di Burke e di Pitt. Dopo, durante la Rivoluzione francese, Burke si rivelò sentimentalmente attaccato al passato, perché dopo la fuga di Luigi XVI, che cercò di consegnarsi agli invasori, non c’erano più legami comunitari da conservare.
3. Il problema è di stemperare l’angoscia, di evitare il senso di emergenza quando la dittatura diventa inevitabile e brave persone commettono scelleratezze. Hitler ha rappresentato una vera emergenza: non abbiamo ancora fatto del tutto i conti con l’intreccio militar-industriale che ha cominciato a mettere radici con lui. Ma Woodrow Wilson aveva preannunciato la stessa cosa con l’industria bellica nel 1916, e ne siamo venuti fuori. Finché l’antica Roma conservò la sua vitalità, fu in grado di impedire le dittature. Noi, invece, ci siamo inventati l’emergenza, almeno in parte paranoide, della Guerra Fredda, che si trascina ormai da più di vent’anni. Anche da questo dobbiamo venir fuori.
Ma la cosa peggiore è l’emergenza metafisica dei tempi moderni: il sentimento di impotenza all’interno di immense organizzazioni sociali; l’inane affidarsi ai mezzi tecnologici per risolvere problemi provocati dalla tecnologia stessa; l’estrapolare e il progettare una crescita di aree urbane tecnicamente e fiscalmente già irrecuperabili. Allora, “nulla può essere fatto”.
Credo che sia soprattutto per uscire da questa trappola che m’invento alternative provocatorie ai metodi tradizionali. Riesco così a mettere in evidenza il fatto che le ragioni per cui gli uomini non sono liberi sono di natura politica e psicologica, non metafisica. A differenza della maggior parte dei “critici della società”, sono abbastanza scrupoloso: non attacco se non mi vengono in mente almeno un paio di alternative, proprio per non provocare un’angoscia metafisica. Di solito, anzi, non ho un’opinione critica a meno di immaginarmi qualcosa di diverso e incominciare a improvvisarci sopra. Rispetto a gran parte di quello che succede nel sociale, la mia intuizione è di lasciar perdere.
4. Coleridge è stato il più filosofo degli autori conservatori inglesi: “Per avere cittadini, dobbiamo prima essere sicuri di aver prodotto uomini” (o di averli preservati). Il contesto di questa frase, nella Constitution of the Church and State, è la critica dell’alienazione dei monasteri sotto Enrico VIII. I beni ecclesiastici erano stati giustamente sottratti alla Puttana di Babilonia, per farla finita col prosciugamento delle ricchezze inglesi a favore di Roma; ma Coleridge sostiene che li si sarebbero dovuti affidare ad altre istituzioni culturali o morali per produrre uomini, invece di inserirli nel sistema economico generale. Pone con vivacità la stessa questione in un passaggio di The Friend. Un economista di Manchester aveva sostenuto che un villaggio isolato, che non aveva alcun ruolo nel commercio nazionale, non aveva alcuna importanza. “Come, signore” disse Coleridge, “settecento anime cristiane non hanno alcuna importanza?”. Le città-fabbriche inglesi distruggevano le persone a vantaggio dell’economia. Noi abbiamo sempre meno bisogno di persone per l’economia.
5. Come uomo di lettere sono in fondo molto più vicino a Coleridge (con una sfumatura alla Matthew Arnold, quando non reggo la volgarità del liberalismo). Forse quello che abbiamo in comune sono i nostri bisogni ossessivi: la sua dipendenza dalla droga e la mia omosessualità frustrata. Questo ci avvicina entrambi all’appetito animale, e perciò non siamo troppo colpiti dal progresso e dal prodotto interno lordo, dalle credenziali e dallo stato sociale. Per i drogati e tutta l’altra gente affamata, il mondo avrebbe dovuto offrire qualche cosa in cambio. Non l’ha fatto.
Il mio essere omosessuale ha fatto di me un “negro”, soggetto a brutalità arbitrarie e disprezzato quando l’estroversione dei miei impulsi non è considerata un diritto assodato. Nessuno (tranne i bambini piccoli) può pretendere di essere amato, ma c’è un modo di respingere che gli concede comunque il diritto di esistere e di essere se stesso, e, dopo l’amore, questo è il modo migliore per accettarlo. Raramente ho goduto di questo trattamento.
Stokely Carmichael una volta ha detto a me e ad Allen Ginsberg che il nostro impulso omosessuale era diverso dall’essere neri, perché potevamo sempre nasconderlo e far finta di niente. In altri termini, ha dimostrato la stessa mancanza di immaginazione che la gente dimostra nei confronti dei negri. Tra parentesi, questo dialogo si è svolto sullo schermo della televisione nazionale inglese.
Un negro vigoroso può reagire con più o meno astio a seconda del suo carattere. Può essere disposto a distruggere ogni cosa, perché non ha un mondo da perdere. Può sviluppare un fanatismo settario tutto suo. Nel mio caso, mi sembra che l’essere “negro” mi porti a volere un’umanità più elementare, più selvaggia, meno strutturata e più variegata. Si tratta di avere un Fronte di liberazione nazionale che non porti alla costituzione di uno Stato nazionale, ma che abolisca i confini tra le nazioni. È quello che volevano Gandhi e Buber, ma le loro idee sono finite nel dimenticatoio.
In genere si dovrebbe ridurre l’angoscia sociale, ma per spezzare confini arbitrari dobbiamo assumerci il rischio di accrescerla. Certi confini, è vero, rappresentano solo i limiti dei nostri interessi, e chi ne sta al di fuori ci risulta indifferente o strano. Ma appena cominciamo a notare un confine tra noi e gli altri, proiettiamo i nostri tratti inaccettabili su chi sta al di là, che diventa straniero, eretico, intoccabile, una persona sfruttata come un oggetto. Per il fatto stesso di esistere, diventa per noi minaccia o tentazione, e noi dobbiamo schiacciarlo, trattarlo con condiscendenza o renderlo uguale a noi con zelo missionario.
Coloro che sono stati esclusi o repressi hanno sempre ragione a ribellarsi, perché rappresentano la nostra futura integrità. E le loro rivendicazioni devono sempre sembrare testardamente insensate, il loro comportamento fuori luogo, le loro azioni la violazione di una prassi stabilita. Ma, come avviene in ogni psicoterapia, il problema è di tollerare l’ansia, di resistere, senza farsi prendere dal panico ed entrare così in uno stato di emergenza.
È strano come la scrittura immatura e fragorosa dei giovani dia adito alla speranza, da questo punto di vista, proprio perché è così tremenda. È timida o sfrontata, ma non spaventata. È una sorta di arte popolare, un prodotto della confusione urbana, e dove c’è arte popolare si può arrivare alla vera arte. Non è un’avanguardia, perché non c’è nessun bordo da cui spiccare il salto. Non è eclettica, ma piuttosto una farragine di stili mal digeriti. Ma non ha confini precostituiti. C’è qualcosa nel suo tribalismo, come lo chiamano. Una sorta di folk international. Ed è noiosa come tutta l’arte popolare: con poca sostanza va avanti per pagine e pagine.
6. Lord Acton, che ben conosceva il conservatorismo, loda quei personaggi (e George Washington ne è un buon esempio) con una disposizione conservatrice ma risoluti nella necessaria azione distruttiva. Il bravo chirurgo è quello che riduce al minimo il trauma post-operatorio e che subito riprende le vesti di medico dicendo: “È la natura che guarisce, non il medico”. Il vantaggio di un rivoluzionario con un atteggiamento conservatore, perfino retrogrado, è quello di ridurre il pericolo di lasciare spazio a nuovi capi, che sono invariabilmente pieni di progetti. Dopo la Rivoluzione americana, l’atteggiamento conservatore dei principali leader ci ha regalato quei venticinque anni di semi-anarchia nelle faccende interne, nel corso dei quali abbiamo appreso tutto quanto di notevole c’è stato nell’esperimento americano. “Questo è un paese libero, non puoi comandarmi”: per più di un secolo ogni figlio di immigrati ha imparato questa frase. Sarebbe successo lo stesso dopo la Rivoluzione francese se i francesi avessero goduto del nostro isolamento geografico che ci ha protetto dalle invasioni. I primi capi rivoluzionari in Francia erano tutto l’opposto dei giacobini. Danton non chiedeva altro che tornare al suo vino e alle sue ragazze. Ma un difetto delle rivoluzioni leniniste è, fin dall’inizio, quello di essere fatte da leninisti: gente che ha idee.
7. Quanto a me, ho un atteggiamento conservatore, magari cauto; eppure spero che l’attuale regime americano sia attaccato ben più di quanto non lo sia stato finora: dai giovani che non tollerano di essere manipolati; dai neri che sono stati esclusi; dalle casalinghe e da quanti comprano prodotti di prima necessità in contanti a prezzi gonfiati da un’inflazione provocata dai conti spese delle ditte private e dei funzionari pubblici; dai gruppi professionali che pretendono di fare il proprio lavoro e di non essere trattati come impiegati da sportello; per non parlare di ogni essere vivente esposto al rischio della bomba atomica e della guerra chimica e batteriologica. Il nostro sistema può resistere alle tante interruzioni di servizio che si verificano, e può addirittura trarne profitto. Non è poi un ingranaggio così fragile come quello di un orologio svizzero. Il pericolo non è quello di allentare questo meccanismo, ma di renderlo troppo rigido con la repressione da panico.
È vero che, a causa della massiccia urbanizzazione e dell’interdipendenza dei sistemi tecnici, i paesi progrediti sono più vulnerabili agli eventi catastrofici, e questo fatto provoca un’angoscia tangibile. Ma ci sono più probabilità di guasti provocati dalle rispettabili ambizioni della Eastern Airlines o della Consolidated Edison che da azioni di sabotaggio di rivoluzionari [o dal collasso morale provocato dagli hippy]. Ciò nonostante, io penso che la retorica rivoluzionaria debba essere non violenta, come lo sono state nella maggior parte dei casi le azioni, anche se frange violente sono inevitabili.
8. Si dice che in una società di massa complessa come quella moderna qualunque cambiamento improvviso e globale, di stampo “rivoluzionario” o “utopico”, potrebbe provocare danni incalcolabili. Sono d’accordo, ma vorrei che non ci si dimenticasse che abbiamo sempre introdotto cambiamenti profondi e improvvisi che hanno in effetti causato traumi incalcolabili. Si pensi, solo nella generazione passata, alla televisione, alla scuola di massa, all’insieme di automobili, strade e periferie, ai trasporti aerei di massa, all’agricoltura estensiva, [alle sovvenzioni governative per i grandi agricoltori], alle catene di distribuzione alimentari e all’urbanizzazione forzata, per non parlare della crescita iperbolica delle industrie belliche. In tutti questi casi la decisione soggettiva è stata un elemento importante: non si è trattato di processi naturali o di catastrofi inevitabili. E non abbiamo ancora cominciato a fare i conti con i problemi provocati da queste trasformazioni utopiche. Anzi, in un tempo che appare sorprendentemente breve, siamo arrivati a una crisi politica, culturale e religiosa, tanto da parlare di “rivoluzione”, e tutto questo a opera di pochi pazzi ostinati.
9. Comunque, c’è anche un’autentica confusione. In tutto il mondo stiamo marciando in modo accelerato verso una collettivizzazione che, a mio modo di vedere, è inevitabile. Ho appena assistito al primo sbarco sulla luna e l’impressione di collettività è travolgente. Non sappiamo come affrontare il dilemma. C’è un solo modo prudente di comportarsi: cercare di difendere e di allargare a poco a poco gli spazi di libertà, sul territorio, sul lavoro, nei comportamenti. Qualsiasi cambiamento violento in senso collettivista sarebbe senz’altro totalitario, qualunque fosse l’ideologia che gli sta dietro.
È inutile dire che io stesso auspico e spingo per trasformazioni istituzionali globali: un drastico taglio dell’industria bellica, del sistema scolastico, di quello penale; la restituzione delle strade della città ai bambini, vietandole alle automobili, e la restituzione delle città ai cittadini, con i consigli di quartiere; un sostegno vigoroso al decentramento delle comunicazioni di massa e la rivitalizzazione delle aree rurali; redditi garantiti e un settore di appropriazione gratuita. Penso a quel sistema di apprendistato che produrrebbe l’autogestione e l’affermarsi delle associazioni di mestiere, che consentirebbero un’autentica professionalità. Anche gli effetti di questi cambiamenti sarebbero incalcolabili: è difficile immaginare tutte le conseguenze sulla società che emergerebbero da ciascuno di essi e dal loro insieme. Ma sono convinto che sul breve periodo avrebbero un effetto stabilizzante e non esplosivo.
10. In qualunque società avanzata c’è la tendenza a una commistione tra imprese gestite in modo collettivo e imprese gestite individualmente o da piccole società: entrambi i tipi di gestione possono darsi da fare per crescere o, con un atteggiamento più conservatore, accontentarsi di soddisfare le proprie necessità. “Socialismo” e “libera impresa”, “produzione per il profitto” e “produzione per l’uso” ci sono sempre. La domanda interessante da un punto di vista politico è questa: qual è la proporzione e la posizione di questi fattori in una data società e in un periodo particolare? Evitare lo sfruttamento, evitare la tirannia, essere flessibili nell’innovazione, riuscire a controbilanciare il potere: tutti questi aspetti politici dipendono da tale equilibrio. Ma anche l’efficienza dei costi ne dipende: “Dato un insieme di condizioni tecniche e sociali, è possibile che ci sia una proporzione approssimativa ottimale tra i tipi di impresa – o, meglio, limiti di disequilibrio – oltre ai quali la redditività del sistema si riduce decisamente. Un buon sistema misto è quello che rimane all’interno dei limiti di efficienza” (People or Personnel, cap. V).
È sorprendente come nessuno voglia più riflettere su questo argomento. Quand’ero gio...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Introduzione
  3. Nota ai testi
  4. Tracciare il limite
  5. Pensare per utopie
  6. Appunti di un conservatore neolitico
  7. Riflessioni sul principio anarchico
  8. Confusione e disordine
  9. Summerhill, esperienza di educazione incidentale
  10. L’universo del discorso in cui crescono