Capitolo Settimo
Il mare
Per lei, donna di mare perché figlia di zone e genitori di mare, non c’era modo migliore per ricongiungersi con sé stessa che quello di andare fino sulla riva della spiaggia vicino casa, camminando scalza e sedendosi appena prima del bagnasciuga, abbastanza lontana da non essere bagnata dall’acqua che, ripetutamente, cercava di accarezzarla e abbastanza vicina da poter apprezzare l’aria che le onde soffiavano fino a lei.
Non importava che ora fosse, non importava chi ci fosse in quel momento in spiaggia, l’importante era solo che lei potesse recarvicisi non appena ne sentisse il bisogno.
Doveva comunicare, Marianna; meglio, doveva ascoltare ciò che sé stessa sentiva doveva comunicarle.
“Hai mai sentito il mare di notte? Nero come la pece, infinito come l’Universo col quale si confonde, entrando nel cielo... e caldo, quel caldo rassicurante, come un abbraccio materno.
Solo chi lo teme, in quello stato di insicura tranquillità, può apprezzarne il calore, come una madre che Ti aspetta sulla soglia con sguardo severo e Tu sei lì, immobile, cercando di starle distante, timoroso: solo quando, in un barlume di lucidità, Ti rendi conto di chi ella sia allora Ti lasci andare... e vieni premiato dal suo sconfinato amore che dirada ogni nube, ogni brivido, coprendoti le spalle e bagnandoti le labbra, concedendoti il suo vero sapore e permettendoti di gustarlo... ed allora chiudi gli occhi e lo vedi esattamente come lo senti: dolce, caldo, sicuro.
Come l’abbraccio di chi ha fatto quel passo di Vita assieme a Te.
Sei un bastardo Marco!
Che bisogno c’era di scrivere e sentire quelle troie? Non m’interessa ciò che mi hai dato, non m’interessa ciò che hai fatto per me, non m’interessa ciò che abbiamo costruito insieme, non m’interessa ciò che pensano gli altri, non m’interessa che anch’io abbia fatto cose che mai ti ho confessato, non m’interessa che riflettevo su di te la mia insoddisfazione ed il mio senso di colpa.
Non avresti dovuto, da quel momento ho perso la fiducia in te. Non ho più voluto guardarti ed apprezzare ciò che mi davi.
E ho sbagliato.
Perché anch’io ho fatto lo stesso, eppure ero persa nell’incolpare te di una colpa che non volevo ammettere fosse mia.
Dove sei? Come posso chiederti scusa?
Ho scritto il tuo nome sulla sabbia ed il mare l’ha cancellato; ho dato il tuo nome ad una stella ed una nuvola l’ha coperta, confondendola tra le altre; ho costruito sulle nuvole ed è piovuto; ho camminato tra gli angeli e sono ripiombata a terra; ho sognato ad occhi aperti e mi sono addormentata; ho nuotato tra le sirene e sono stata riportata a riva; ho respirato la tua aria e mi è mancata; ho pianto al vento e le lacrime si sono perse; evidentemente ho sbagliato tutto, ma l’ho fatto con il cuore e non me ne pento.
Ricordo ancora quando mi dicevi “comprendi, accetta le scuse, perdona sempre, ma non sbagliare mai: nonostante possano dirti il contrario, non te lo perdoneranno e, quando meno te l’aspetti, useranno il tuo errore contro di te, imputandotelo come fosse l’origine di tutti i mali del mondo, dimenticando quanto tu possa avere fatto e, soprattutto, quanto tu abbia compreso, accettato e perdonato nei loro stessi confronti”. Amen.
È ciò che ho fatto io con te.
Maledetta me che non ti ho mai ascoltato.
Sei un bastardo Marco, avresti dovuto spiegarmi che stavi cercando di attirare la mia attenzione.
Avresti dovuto spiegarmi che sapevi.
Dove sei, ora? Dove sei?
Qui è un susseguirsi di vuoto spinto. Sto pensando di affiggere un cartello fuori alla porta di casa, forse sarebbe meglio mi piantassi un chiodo in petto ed appendere quel cartello a mo’ di quadro con scritto tutto ciò che mi desti tu e che mi dicesti avrei dovuto fare:
“Astenersi perditempo che si lamentano della fatica che fanno, fancazzisti che pensano di tenere il mondo sulle spalle, giramondo che ti guardano dall’alto in basso, sofferenti adagiati sulla sofferenza, braccia corte di sentimenti più che di denaro, cuochi della frittata rivoltata, paraculi dall’occhio triste e pure quelli dall’occhio furbo, ultimi che ti denigrano pensandoti primo e primi che ti denigrano pensandoti ultimo.
Qui abbiamo bisogno solo di persone che vogliano vivere davvero e che davvero siano consapevoli che ogni minuto passato senza sorriso sia un minuto perso.
Chi vuole, entri e salga in giostra”.
Ho sbagliato tutto.
Forse, in realtà, ho sbagliato solo a non darmi ascolto. In fondo chi meglio di me conosce me stessa.
Ora ho capito: fai sempre ciò che ti senti di fare, purché tu lo faccia con il cuore e per perseguire il bene. “Non usare tattiche, gioca con il cuore, come insegnano i campioni” dicevi.
Cerca di dare sempre il meglio: sicuramente potresti sbagliare, ma l’avrai fatto cercando di rendere le cose migliori.
Sbaglierai anche senza aver voluto dare il meglio, ma poco importa: ammetti quella colpa, poi starà a chi ti è di fronte mostrarsi: avrai la colpa di aver sbagliato, ma non di aver fatto del male.
Agisci senza curarti di quel che potrebbero dire o, comunque, sicuramente diranno le persone: chi è in malafede o è abituato a vedere il male dove non c’è avrà sempre da ridire e da imputarti qualcosa, pronto a crocifiggerti per i tuoi errori ed è meglio perderlo che trovarlo, allora, perché, fattene una ragione, non gli vai a genio.
Se poi sbotti, stanca di saltare da un piede all’altro nel giochino “fai questo, no fai quell’altro, no torna a fare questo”, reagiranno come le ottantenni al circolo del tè di Londra nel sentire la Regina che fa un ruttino e, con la bocca spalancata ad O, esclameranno: “Oh, ma quanta poca creanza. Ma che poco garbo. Ma non è mai successo. Ma come si permette? Acciderbolina. Oh, ma ti pare? Non l’aveva mai fatto, non era il caso, non era il modo, non era il momento. Che delusione!” e nessuno che voglia capire che, magari, la Regina tale non voleva nascere e che, forse, le è venuta la gastrite ulcerosa a forza di dover stare dietro alle schizofrenìe dei professionisti dell’insoddisfazione addebitata.
Gastrite ulcerosa che, solo fortunatamente, ha generato un ruttino.
Come dissero due cari amici: “Con un sano fanculo si risolve tutto”.
Ho provato a mandarti affanculo, Marco, ma quante volte avrei dovuto farlo perché arrivassi ad andarmi bene?
Già, forse eri tu che non mi andavi bene, stronzo.
Non ti apprezzavo per quello che eri e, guarda caso, l’unica lezione che imparai da te e che applicai subito proprio con te è “Chi non ti ritiene abbastanza «qualcosa», forse è il caso faccia a meno di te anche per ciò che, invece, ti ritiene utilissimo. Che cerchi quel qualcosa altrove, quindi”.
Io ho cercato qualcos’altro altrove, ma niente e nessuno è più stato come te.
Nel frattempo, come sarebbe stato giusto fare, ho cominciato a fissare qualche paletto con la scritta “oltre, non si passa”.
Ho ottenuto solo di rinchiudermi, però.
Ma come avrei dovuto fare? Il mio giardino è sacro, se c’è chi lo calpesta e non lo rispetta avrò pure il diritto e, soprattutto, la necessità di cacciarlo fuori, impedendo ad altri malintenzionati di fare altrettanto. O no?
Mi sono chiusa dentro e continuamente mi gioco un sacco di possibilità, come un recluso che vede scorrere le stagioni, crescere i propri figli giocando a palla al di là delle sbarre da cui lui guarda.
Un po’ di carattere, per Dio: chi vuole può entrare, basta che mi rispetti. E la mia vita è piena di persone che hanno fatto lo sforzo di bussare alla porta, nonostante i paletti ed i cartelli, chiedendo il permesso.
Chi non lo fa è perché non vuole farlo.
Ma fui io a cacciarti dalla mia vita, andandomene da casa tua.
Non potevo fa...