Necessità e servitù della critica. Una premessa
Si parla ben poco della critica, delle sue compromissioni e dei suoi doveri oggi e qui, nell’Italia berlusconiana che rinnega il passato, nasconde e nega il futuro e camuffa il presente secondo l’interesse di pochi e la viltà dei loro dipendenti, gli immancabili conformisti pronti ad accettare la corruzione del sistema, un sistema di corruzione.
Se la maggior parte degli artisti si presta oggi a essere produttrice di merci e solo tali, se il pubblico è alienato dalla pubblicità e dal consumo, se i critici si nascondono o si perdono nelle povere mischie di congreghe secondarie, è però dalla critica che, ci pare, occorre ripartire: dalla pratica dell’analisi, del confronto, del giudizio motivato e se necessario sofferto sulle opere, nella loro concatenazione ripetizione dipendenza o nella loro rara, rarissima originalità. Piccolo mondo a sé, i critici non sembrano avvertire l’urgenza dei tempi, e subiscono le pressioni del presente convinti della dignità di una vocazione o professione che danno per acquisita una volta per tutte, che non vogliono venga rimessa continuamente in discussione, ricollegata al contesto, e tanto meno gestita in funzione di un mondo diverso, migliore di questo. Questo campo è considerato secondario da tutti meno che da coloro che lo praticano e che sono convinti di chissà quale centralità, ma che hanno della critica una visione molto riduttiva. Anche noi crediamo nell’importanza della critica, ma in modo assai diverso dal loro: nello specifico delle arti e in assoluto. E intendiamo la critica dei prodotti artistici, a causa dell’importanza che l’arte ha oggi come luogo d’espressione o chiarificazione del disagio del singolo e dei più, delle loro frustrazioni più evidenti e dei loro bisogni più nascosti o, per quanto riguarda la comunicazione di massa, per l’importanza che essa assume nei modi vecchi e nuovissimi del dominio; ma crediamo anzitutto nella critica dell’esistente, alla quale la critica di ogni opera dovrebbe rinviare. Ed è chiaro che, se non si è filosofi, economisti, sociologi, preti e non si ambisce subito, come loro, a una visione complessiva della condizione umana, dentro la mutazione che tutto ha travolto, nel postmoderno che ha ucciso il moderno, la critica dell’esistente passa attraverso la lettura delle opere, romanzo e cinema, teatro e musica, saggio e fumetto, senza dimenticare “gli eventi”, che sembrano diventati una delle due colonne di un sistema della comunicazione (quella “dal vivo” e “partecipata”, dove ci si può fingere attori) assieme a internet e ai suoi surrogati di comunicazione. Ma è anche chiaro che, dal particolare al generale, da un’espressione a un’altra, si tratta più che mai di “collegare”, di esaminare e di ragionare essendo ben preparati nel proprio campo ma aperti e curiosi di quelli altrui, e convinti dell’importanza fondamentale del contesto per la comprensione e il giudizio sulla singola opera. Pur se in modi diversi, secondo sensibilità diverse e autonome e secondo i diversi interessi e le diverse scelte professionali o vocazionali, le opinioni che seguono hanno un perno comune e ci sembrano un buon punto di partenza per discussioni future e soprattutto per pratiche future.
Goffredo Fofi
La parte dell’arte | Piergiorgio Giacchè
Gli appunti di un “seminario sull’arte e la critica” a uso e consumo dei collaboratori di “Lo straniero”, non costituiscono un saggio, ma restano un assaggio: qualche considerazione fatta per alimentare una discussione aperta “fra di noi”. Il seminario è un luogo e un modo in cui ci si può spingere a dire cose sulle quali “non ci giurerei” ma appena “ci proverei”. Ma non so poi quanto possano valere, fuori dal seminario, queste “prove”.
Storia dell’arte
L’arte è un concetto indefinibile e un fenomeno imprendibile. Ogni volta che un manuale di antropologia (o sociologia, storia, filosofia...) per dovere scolastico tenta di descriverlo, lo riduce ai minimi termini, che si fingono essenziali quando sono soltanto ovvi. Quindi, lo suddivide e lo radica nelle singole società e nelle singole epoche fino a farlo rientrare in quel famoso “quadro” dove ogni fenomeno vasto e ogni concetto vago infine si spiega. Ma se invece del quadro ci si affaccia dalla finestra dell’attualità e, con improntitudine e ignoranza, si guarda al fenomeno e al concetto per quel molto che si vede e quel poco che si crede, l’arte non ci appare più come un continente infinito ma come un incontinente pullulare di forme e di atti in libera e liquida deriva: una miriade di prodotti e processi più autosostenuti che riconosciuti, più offerti che richiesti, partecipano di nome e di fatto al colorato sovramondo artistico, non si sa in che posizione o funzione o significato. Forse è sempre stato così, almeno in molte società e in quasi tutte le epoche, prima che il filtro della storia e della critica selezionasse gli ingressi nel quadro. Chissà quanti imbrattatele e scribacchini hanno partecipato nei secoli all’indefinito panorama creativo che ha prodotto i capolavori più eccellenti della nostra “storia dell’arte”! E però qualcosa ci dice che quest’epoca e questa società è particolarmente benevola o esageratamente arrendevole con ogni tentativo espressivo, oppure è consapevolmente autorizzata a non mettere freni e non emettere giudizi, lasciando che sull’arte – come su tutto il resto – sia il mercato a decidere. Un mercato che ha migliaia di differenti reparti e livelli, un mercato che ha un’infinita potenza e pazienza, e che può “liberamente” scoprire e valorizzare, ma anche riscattare, riciclare, rivendere, un qualunque prodotto o processo artistico. Un mercato che si estende – nella storia e nella geografia – ben al di là di un qualunque “quadro”, e che può – anzi deve – proteggere e conservare nel capitolo Beni Culturali anche tutti gli imbrattatele e gli scribacchini del passato, di cui si recuperino le opere o anche solo i frammenti. In una recente intervista televisiva al vecchio Monicelli, una sua salace battuta era riservata agli infiniti ritardi e arresti dei lavori della metropolitana di Roma: si chiedeva ironicamente il regista se fosse mai possibile che tutti i mosaici e i reperti che le scavatrici trovavano nei bassifondi della città eterna fossero davvero “belli”, ovvero dovessero per forza essere salvati, a costo di non procedere con i lavori. Anche la Storia fa parte del mercato, anzi è sotto il suo dominio al punto di non far avanzare la storia pur di immagazzinare (e vendere ai turisti) una qualunque espressione della Storia.
Arte di merda
Ho una perversa ammirazione per i francesi. Ognuno di noi forse ha uno stato estero su cui proiettare un’analoga perversa ammirazione, che è poi quella che scaturisce dal necessario e involontario paragone tra l’arretrata società italiana e quella avanzata “europea”. A me, per conoscere e misurare l’Europa, è toccata la Francia. Mi sembra che tutto funzioni e soprattutto i servizi. Sono affascinato (ma anche preoccupato) di come e quanto funzionino, per via di un rispetto delle norme tutto francese che sostituisce (e perfino elimina) quel culto delle relazioni che caratterizza la cultura all’italiana. Sta di fatto che, ad esempio, in Francia funzionano in modo invidiabile i trasporti (e questo esempio fa davvero colpo sugli italiani), ma al contempo funzionano perfino gli scioperi dei trasporti. Nel senso che almeno il 60 o il 70% degli utenti rimasti a piedi si dichiarano d’accordo con gli scioperanti. E forse non è solidarietà, ma condivisione di un principio ovvero di una norma... Più per vizio che per lavoro, ho cominciato quindi a prendere appunti sulle “differenze” del sistema e dello stile francese, affascinato dalla contraddizione tra diversità e affinità che da sempre ha alimentato quel proverbiale legame di parentela che ci unisce e che ci attrae. Le battute sui “cugini” (e sulle cugine) come si sa si sprecano, ma hanno un fondo di verità soprattutto per chi crede nelle relazioni, visto poi che fra l’Italia e la Francia la montagna delle relazioni è diventata una norma. Così mi è successo una mattina di un paio d’anni fa di vedere all’opera uno scooter succhiamerde: un vespone di grandi dimensioni che, costeggiando i marciapiedi delle strade del quartiere, allungava una proboscide che con rapidità e precisione tirava su le cacche dei cani (amici dell’uomo ma soprattutto dei francesi). In un giornale avevo già letto dati allarmanti circa le tonnellate giornaliere di escrementi dei cani di Parigi. Avevo peraltro già ammirato le campagne educative degli anni precedenti, con tanto di avvisi stradali che invitavano a posizionare bene – sul bordo del marciapiede – il cane che fosse in procinto di deiezionare. Pregevoli iniziative che però evidentemente non erano state valutate sufficienti dal servizio municipale. E i francesi non si arrendono mai e perfezionano sempre: sanno che l’arte è nei dettagli, e lo scooter succhiamerde, visto all’opera, era in effetti di un’efficienza sbalorditiva.
Ma il mio stupore italiota era soltanto agli inizi: la sera stessa, passando per la stessa strada dove avevo visto il nuovo servizio di pulizia, non ho potuto fare a meno di notare altre merde, forse più recenti e sfuggite al centauro frettoloso del mattino. E qui veramente la mia ammirazione si è trasformata in meraviglia: ciascun escremento era stato segnalato da un cerchio fatto con gessetti colorati, siglato con numeri e sormontato da piccole bandierine di carta. Ero casualmente armato di una macchinetta usa e getta e non mi sono potuto trattenere dal fotografare quel lavoro di segnalazione e controllo con cui evidentemente il Comune di Parigi seguiva la sperimentazione degli scooter appena varati.
Per un anno mi sono messo a raccontare nel giro degli amici il risultato di questa involontaria ricerca etnografica, fino a quando una sera, davanti alle mie foto, una coppia di giovani artisti ha sobbalzato eccitata, ha sfogliato in una grande rivista patinata e mi ha mostrato foto...