Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell'Italia del rugby
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Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell'Italia del rugby

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Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell'Italia del rugby

Informazioni su questo libro

Pochi sport come il rugby sembrano avere a cuore la formazione umana: uno sport che mette insieme il gioco di squadra, il contatto fisico, la velocità, l'agilità e la forza. Di libri sul rugby non ne mancano, ma sugli aspetti educativi di questo gioco non c'è bibliografia. Eppure è questo uno dei suoi elementi che meglio lo caratterizzano. L'autore s'è mosso dal Veneto al Lazio, dalla Campania alla Lombardia e alla Sicilia, incontrando allenatori, preparatori atletici, giocatori, dirigenti nazionali, responsabili delle Accademie, psicologi, psicoterapeuti e giornalisti. Pedagogia della palla ovale è anche un'inchiesta sullo "stato dell'arte", dal professionismo alle realtà dei campetti periferici di Napoli, di Treviso o di Catania, dove sono coinvolti con progetti mirati bambini e ragazzi di diversa provenienza sociale, seguiti da adulti decisamente consapevoli della valenza fortemente educativa del rugby. In appendice anche "I 400 folpi" di Marco PaoliniNicola De Cilia è critico letterario e professore di liceo, collaboratore storico di "Lo straniero" e "Gli asini". Vive e lavora in Veneto.

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Informazioni

Rugby di frontiera

In quest’ultimo capitolo, protagonista sarà il rugby “inclusivo”, quel rugby che, come diceva Lucchese, continua a sorprendere, praticato in luoghi ai margini, imprevisti, inconsueti, in cui la passione per lo sport è coniugata con la passione per il mondo: “un mondo di uomini e donne che, semplicemente, scelgono di impegnare insieme una parte della loro vita”, utilizzando una palla dalla forma strana, e, con modestia e determinazione, cercano di portare il loro contributo affinché le cose possano andare un po’ meglio, ispirandosi al gesto ribelle di William Webb Ellis quando decise di raccogliere la palla con le mani e portarla oltre la meta.

Scampia (NA)

Ripartire dalle periferie

Dalla finestra dell’ufficio dove mi riceve Salvio Esposito, si scorge lo stadio Albricci, vero e proprio tempio del rugby per generazioni di rugbisti napoletani. Esposito è psicologo dello sport, lavora come psicoterapeuta presso una delle Asl cittadine ed è responsabile dei progetti di prevenzione sul territorio. Ha giocato nelle giovanili dell’Italsider e nella Partenope cadetta, ma un incidente di gioco lo ha costretto a smettere, anche se poi, verso i trent’anni, ha ripreso in una squadra minore. “Ho fatto sport - è un po’ il destino di tutti gli psicologi dello sport - ma non è prevista una formazione specifica. Storicamente, gli psicologi che si occupano di sport sono quelli che cercano di coniugare il loro passato più o meno agonistico con la loro professione”.
Convinto delle potenzialità del rugby come strumento di prevenzione del disagio e di comportamenti a rischio, si è impegnato in questa direzione fin dal conseguimento della laurea. “Anni fa, lavoravo nel manicomio criminale di Aversa. Lì ho cominciato a immaginare che lo sport avesse delle potenzialità tali da poterlo utilizzare come uno strumento di riabilitazione o di prevenzione anche in situazioni estreme, perfino in un posto dove sono ricoverati quelli che chiamano ’pazzi criminali’”. Giova ricordare che Esposito, con Dario Calapai, è stato tra i promotori del progetto della “Palla storta” nel carcere minorile di Nisida: “Forse è vero che poi non vanno a fare i rugbisti, una volta usciti dal carcere, però quell’esperienza può essere un punto di riferimento per un giovane che è stato in carcere. La mente non cancella: quell’esperienza del gioco non va persa. Può essere un punto su cui costruire un loro possibile riscatto”.
Insieme alle potenzialità, vi sono anche rischi: uno strumento deve essere dato in mano a persone che lo sanno utilizzare, perché può capitare di tutto, specie in contesti estremi, il carcere come Scampia, che hanno un potere esplosivo notevole. Qualsiasi strumento utilizzato in un contesto a alto rischio, se non è utilizzato con competenza può rivelarsi dannoso. “Così è il rugby: ha un alto potere aggregante ma se non è utilizzato con competenza può rivelarsi distruttivo”.
Non esiste uno sport solamente sociale e aggregante, la stessa definizione di sport verrebbe meno: la componente agonistica dev’essere forte, altrimenti cade la motivazione. “Lo sport ha una finalità doppia, agonistica ed educativa. Sono le due ali che lo devono sostenere. Come un uccello, senza una delle due non vola”.
A Scampia, per esempio, dove Esposito porta avanti, attraverso il rugby, il progetto “Viva Scampia Viva”1, l’aspetto agonistico è determinante. “Mi piaceva molto questa faccenda del riscatto sociale che è sempre stata presente nel rugby: pensa ai Maori o ai minatori gallesi”. Per Esposito, la piega professionistica che sta prendendo il rugby può rivelarsi un elemento di forza: il rugby, sport bellissimo, pieno di valori, è sempre stato però uno sport d’élite, fino a quando non è arrivato il professionismo. “Il rugbista napoletano o era qualcuno che aveva possibilità e tempo a disposizione oppure era attirato dal vantaggio di avere qualche cosa in cambio, se non un ingaggio, almeno l’opportunità di essere assunto da qualche parte, all’Italsider, per esempio2. A Scampia, per lo meno come miraggio, deve esistere, in termini di potenzialità, l’idea che attraverso lo sport passi un riscatto, che si traduce in un guadagno economico e la possibilità di riferirsi a un mondo che non sia solo quello del quartiere: per esempio quello del rugby francese, e infatti, tramite alcuni contatti, sto cercando di organizzare un gemellaggio con le squadre d’oltralpe. Tutte fantasie che se ben organizzate possono diventare realtà”.

Lo psicologo scalzo

Lo psicologo dietro la scrivania non serve a tanto, dice Salvio. “Credo che lo psicologo debba avere la capacità in un contesto pubblico di creare la domanda. Normalmente chi accede a questo servizio di psicoterapia, è una persona culturalmente dotata che ha accesso all’informazione e che il più delle volte avrebbe anche la possibilità di pagare. Ma la maggior parte delle persone non sono neppure informate dell’esistenza di un tale servizio, e soprattutto non saprebbero definire il disagio perché non lo riconoscono. Allora bisogna uscire e andare a vedere che cosa succede nel territorio. Il disagio a Scampia è definito attraverso la violenza; le persone violente sono delle persone che hanno delle incapacità a esprimersi. Per la mia formazione personale, credo che lo sport sia il posto dove le persone possono esprimersi e se c’è disagio lo possono riconoscere. Per la maggior parte dei bambini a Scampia, noi verifichiamo il disagio non nella misura in cui loro ce lo raccontano, ma nella misura in cui i genitori non solo te li affidano, ma te li regalano proprio. C’è un meccanismo di delega che testimonia il disagio. Senza andare in questi posti noi non avremmo la possibilità di leggerlo. Ci sono cose che davvero non si possono immaginare. Si è fatto male un bambino, durante l’allenamento, si era rotto una clavicola, l’abbiamo portato dai genitori, ma loro non si sono interessati di niente. I genitori... trovarli i genitori, innanzitutto. Abbiamo scoperto per caso che alcuni bambini non sono tesserati, perché il modello con la firma non ci è mai stato restituito, perché i genitori spesso sono assenti. Magari sono detenuti, a volte entrambi. Sono situazioni che puoi vagamente immaginare, ma viverle e dargli il nome è diverso. Secondo me, allora, lo sport consente innanzitutto di spogliarti dei panni professionali, che sono delle corazze, che spesso non permettono di incontrare le persone, specie nel loro contesto”.
Esposito mi racconta che a centocinquanta metri dal palazzo dell’Asl c’era, e presto riprenderà, il mercato delle cose prese dall’immondizia. Al di là delle questioni igieniche, un’evidente manifestazione di disagio, che si chiama povertà. “Povertà nera. Noi stiamo a centocinquanta metri, parliamo con gli insegnanti, con gli avvocati, facciamo un lavoro nobile anche, ma non siamo scesi... Lo sport ti consente di spogliarti, per lavorare sul campo, non solo in termini simbolici”.

O’ rugbil

Il rugby a Scampia è una sorta di provocazione, perché questi posti non sono preparati a una cosa così strana. Viene vissuto con curiosità, comunque. Innanzitutto, viene chiamato in una maniera diversa, non si chiama rugby, ma “o’ rugbil” - pronunciato proprio con la “u”, un fenomeno linguistico che accomuna i vari quartieri di Napoli e dintorni. “Noi facciamo ’o’ rugbil’, un rugby che deve essere diverso dal rugby che si è sempre immaginato, un rugby che deve fare in modo che i bambini vengano presi in carico come in una struttura istituzionale, completamente, li devi far crescere insieme a te, fare ’maternage’. Anche i bambini c’hanno un modo di comportarsi che io non avevo visto negli altri posti: per esempio sono molto, forse eccessivamente, affettuosi, in termini proprio fisici: arrivano, ti abbracciano... Poi, così come ci sono, improvvisamente scompaiono, il giorno prima ti abbracciano, ti chiamano ’mistèr’, ti stringono e il giorno dopo sono spariti, e tu non sai che fine hanno fatto, non sai neanche dove cercarli”. Tutto ciò è chiaro debba essere gestito in termini tecnicamente competenti, non ci si può affidare solo all’educatore sportivo, ci deve essere una persona che abbia una competenza psicologica e faccia la supervisione agli allenatori per quanto riguarda gli aspetti pedagogici e psicologici, compito in questo caso assunto da Salvio Esposito.
Il campo di rugby di Scampia è un posto incredibile, incastrato tra tribune altissime di dodici piani, che sono i palazzi che tutt’intorno lo delimitano. Non c’è erba, naturalmente, ma terra battuta, e col caldo si alza un enorme polverone. “La prima volta che siamo entrati a giocare su questo campo, si è sentito un silenzio un po’ inquietante, normalmente c’è un macello quando giocano a pallone, e poi improvvisamente si è sentito un “Urrà!” fortissimo, il nostro, e la gente che si affacciava e non capiva che cosa stesse succedendo, una cosa che non credo abbiano neanche mai visto. Un terreno vergine da questo punto di vista, lo possiamo far diventare quello che desideriamo se riusciamo a farlo bene”.
10, 100, 1000 bambini in campo
Scampia ha una popolazione di centocinquantamila abitanti, di cui un 60/ 70% minori. “Abbiamo questo slogan: mille bambini in campo. C’è un gruppo di giovani che collabora con me, che poi sono quelli del rugby di Arzano. Interveniamo in quattro scuole di Scampia, con una popolazione potenziale di 4/5mila studenti, istituti comprensivi, dalle materne fino alle medie: la Virgilio 4, la Ilaria Alpi, la Berlinguer e la Pavese”.
Il rugby Scampia si è dato uno statuto societario. Attualmente, sono alle prese con un problema delicato: per dare ai ragazzini un modello identificativo disponibile immediatamente, il rugby Scampia ha pensato di fare subito la prima squadra e l’ha iscritta al campionato di C2: va anche abbastanza bene, a metà classifica. “I ragazzi sono una metà di Arzano e stiamo cercando di coinvolgere sempre di più quelli di Scampia. Aderiamo anche al progetto federale del rugby nelle scuole. Ci sono però problemi davvero insuperabili. Per esempio quelli economici, nella misura in cui noi non possiamo chiedere la retta ai bambini per partecipare e dobbiamo trovare la possibilità di nutrire questa passione se no la perdiamo. Ci sono tante cose da pagare, oltre il campo, le visite mediche, per esempio: non è uno sport costosissimo, però qualcosa serve. Ci sono amici che hanno messo soldi, i giocatori della senior si autotassano, venti euro al mese. Il campo comunale lo paghiamo ma non riusciamo a sfruttarlo perché gli orari pomeridiani sono tutti occupati dalle società calcistiche e l’unica possibilità, una volta alla settimana, è dalle nove in poi, ma non si può con i bambini. E poi il sabato per la partita. L’Arci Scampia - una società calcistica che ha dei campi di calcetto - ci ha messo a disposizione un campo piccolo per allenare i bambini, il mercoledì pomeriggio”.
Per ora tutti i bambini sono mescolati, finora ne saranno arrivati un centinaio a contatto con la squadra. Presto, assicura Salvio, riusciranno a fare la prima partita con l’under 14. “Bisogna tener presente che questo è il primo anno che facciamo attività agonistica a Scampia. L’anno prossimo dovremo per forza fare attività di base con i bambini perché se no avremo punti di penalizzazione, regola sacrosanta”.

I Maori d’Italia

Per avere delle fondamenta solide su cui costruire, è fondamentale creare elementi di identità: i ragazzini del rugby Scampia si sono tatuati tutti il pavone, simbolo della squadra, che rimanda all’idea di bellezza. “Il rugby sa anche essere bello: prendi la forma della palla, è così perché meglio si presta a essere ’portata’ piuttosto che lanciata. Si tratta di portare una palla, piuttosto che inseguirla; portare insieme una palla verso una meta, piuttosto che lanciare o colpire una palla affinché si raggiunga un bersaglio. In un luogo come Scampia che l’ha rimossa, riportare la bellezza, anche dello sport, è un gesto importante. Oltretutto, si sperimenta una felicità altrimenti difficile, nel nostro contesto sociale e culturale. In questa prospettiva il rugby appare come una esperienza di follia ritualizzata e istituzionalizzata: cosa c’è, in fondo, di più folle che gettarsi sulle gambe di un avversario più grande di noi lanciato a tutta velocità? Tale esperienza, permette un contatto con nuclei molto profondi, al pari di altre esperienze ’iniziatiche’ e rituali, e consente una crescita in special modo sul versante emotivo. Sono esperienze irrinunciabili per un adolescente e sono perciò ricercate nelle circostanze più disparate: nello sport, ma anche nei gruppi spontanei con obiettivi legati alla devianza o all’assunzione di sostanze stupefacenti fuori o dentro determinati contesti, come rave party, discoteche, o bande più o meno connotate. Appare chiara la funzione preventiva che il rugby può esprimere, particolarmente in contesti di degrado dove le esperienze adolescenziali di tipo iniziatico e rituale vengono gestite nella devianza o nella criminalità organizzata”.
Il rugby, anzi, “o’ rugbil”, a Scampia come in tutti i luoghi “di frontiera”, deve entrare in comunicazione con un’altra “tribù”, e l’educatore-allenatore deve essere anche un po’ antropologo, attento a intercettare quelle che sono le caratteristiche del luogo. Per esempio, se solo si riuscisse a convogliare l’aggressività repressa, per Salvio, Scampia potrebbe diventare una squadra fortissima, i Maori di Italia: si tratta di dar loro un’identità forte, radicata nel territorio, non basta proporgli l’identità più generica della Partenope: Napoli è una città immensa, anche dal punto di vista culturale e necessita diversificazione. “’O’ rugbil’ deve costruire, non forzare l’identità, sfruttarla per creare coesione nel gruppo, e permettere di uscire, e conoscere realtà diverse. Una volta siamo andati a giocare con la Partenope all’Albricci con un gruppo di ragazzini: erano completamente spaesati, neanche Totò a Milano, e hanno voluto tornare a casa, dove si sentivano al sicuro. Il rugby deve offrire la possibilità di uscire da un quartiere, che pure resta un fattore di identità, che in modi controversi e contraddittori, comunque li coccola, pur nella sua dimensione crudele. Nell’assenza dei genitori, ci si affida al quartiere, a una dimensione più diffusa ma suscettibile di comportamenti devianti. Per questo, affinché il rugby a Scampia sia efficace, deve essere riconiugato e adattato al territorio”.

Uno sguardo laico

Per Salvio, è necessario acquisire uno sguardo e un attegg...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Collana
  3. Colophon
  4. Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell'Italia del Rugby
  5. Premessa
  6. La mappa, il territorio, una bussola
  7. A scuola di rugby
  8. Altre voci dal pianeta rugby
  9. Modelli virtuosi
  10. Loro di Napoli
  11. Due o tre cose sulle Accademie e i Centri di Formazione
  12. Splendori e miserie della palla ovale
  13. La classe rugbistica del 1990
  14. No woman no cry: donne e rugby
  15. Dove va il rugby? Boh!
  16. Rugby di frontiera
  17. I 400 folpi di Marco Paolini
  18. Ringraziamenti