V
La venditrice d’arance
Il treno per le estreme province d’Italia è sempre pieno di piccola gente con enormi valigie che si affanna di caricare, di distribuire, suddividere e nascondere per evitare di pagare l’eccedente bagaglio. È difficile riescire a sapere cosa trasportino questi piccoli uomini della Lucania o della Calabria, forse coperte, cuscini, forse addirittura i loro materassi arrotolati, come i beduini le loro stuoie per giaciglio. Il treno corre nella notte tra il mare e nere montagne sibilanti di vento. Il sonno prende come un avvelenamento, e ci si ridesta a notte alta con una sete raspante alla gola, e non si osa scendere alla piccola stazione dove si ode zampillare una fontana, nel timore che il treno riparta, e rimanere a terra là dove non appaiono che due sole finestre illuminate. Ci si disseta con l’aria che penetra tra le fessure del finestrino. La sete vince il sonno, grosse stelle brillano ora che è tramontata la luna e sono come scintillanti ghiaccioli vanamente attesi alle labbra. Attorno i piccoli uomini dormono rannicchiati sul sedile e le loro labbra nere di sangue dischiuse, sembra pure anelino a una fresca acqua. Non si pensa, parte del corpo è nel sonno, e ci si sente desti solo alla bocca nella smania di bere. Ma dalla piccola porta entra una donna vestita di verde, d’un verde stinto come d’un vecchio affresco, e la bianca camicetta rimboccata alle braccia brune, e bruno il volto e nere le chiome, e il petto sollevato e proteso come da un busto: una contadina calabrese forse, con un cestino al braccio e volgendoci lo sguardo dice dolcissima: “Arance, sei per una lira”. Sogno o mito, la si guarda con gioia nel riconoscere che la vita si chiude sempre in ritmi felici. Chi la mandava nel colmo di quella notte, quella donna calabrese con le sue arance? Ella vegliava su quel treno, nella notte sibilante di vento, elegante nel suo semplice costume, serena, forte, donatrice, vegliava per calmare la nostra sete. Tutti si ridestarono, si sollevarono, ebbero tra le mani le arance come gonfie mammelle, a succhiarle avidi senza sbucciarle. Ella appariva, con il suo seno proteso sotto la bianca camicia, nera nelle chiome divise e lisce, nera nello sguardo bruna al volto e alle braccia; appariva tra una vettura e l’altra ripetendo la sua offerta, serena e generosa e sempre guardinga dietro a sé come temesse di venire sorpresa e rapita, lei, nuova Persefone, camminante, con la sua mistica cesta, ricolma di splendidi simboli. Camminava da uno scompartimento all’altro, piccole stanze come tempii, dove essa veniva adorata, e dischiudeva la porticina, apparendo come ritornasse dall’Ade, in quella nera notte fuggente tra le montagne e il mare. Leggero il suo passo come su di un’erba molle e fiorita; uscì e ritornò subito dopo, ma improvvisa intese la porta riaprirsi dietro di lei e un passo che doveva riconoscere tra innumerevoli: il passo del suo Plutone, rapitore: il controllore, e si sedette nascondendo rapida il cesto tra la sottana. Il controllore la guardò, ella sorrise, sorrise a lui per addolcirlo e agli astanti come per sostegno: “Sta attenta che se ti pesco, vi è la multa”. Le disse socchiudendo un occhio, il Plutone, nero nel vestito e nella pelle. E Persefone sorrise ancora: “Io non faccio niente di male”. E Plutone disparve. Fu chiesto a Persefone cosa avesse fatto: “Niente per guadagnare pochi soldi, vendo le arance in treno, e non si può”. Ella ripeteva che non si può e pareva godesse di rischiare contro questo divieto vegliando tutta la notte. Qualcuno disse che era impossibile si proibisse un’azione tanto utile e generosa. Un signore che era dall’altra parte, volle intervenire e mostrare un regolamento che era nell’orario ferroviario, e fece leggere come fosse vietato ai venditori ambulanti di esercitare il loro mestiere in treno, così come in treno era pure vietato di cantare e di trasportare ammalati contagiosi; specie ammalati di peste bubbonica e di colera. L’altro si stropicciò gli occhi, credeva di fantasticare, rilesse, era proprio stampato: peste bubbonica e colera come fossero alla portata di tutti.
Napoli
Le strade si aprono smisurate e popolose. A ogni passo la varietà e la sorpresa. Un carro funebre tutto vetri e oro trainato da sei cavalli, e i due primi vivaci e pronti a inalberarsi, sembra una bomboniera. Dovunque quartieri sempre più estesi e popolosi. Il brusio come in un teatro rigurgitante in attesa che si alzi il sipario, la polvere, i barbagli di sole, i bambini per terra con le camicie aperte sui petti bruni, le voci canore nello sforzo di rendersi convincenti, sono come violenti battiti di un cuore a segnalare a ogni angolo la vita. Appena si chiede di una strada o di un mezzo di comunicazione rispondono e spiegano compiacenti, poi interrogano, vogliono sapere di noi e non ci lasciano più. In una cassa, su di una carretta, vi sono stracci che si muovono, ne esce una mano e subito dopo vi affiora la bocca di un bambino che vi dormiva nascosto e che sbadiglia. Le carrette con tre cavalli, con decori di argento, sonagli e pennacchi si susseguono.
In una piazza, come altrettanti troni sono allineate alcune poltrone per chi vuole farsi lucidare le scarpe. Questi troni attirano, penso che dovendo fare visite a persone della città, sia necessario avere le scarpe lucide come quelle di questa gente beata. Deliziosa questa sosta: tutto attorno è un continuo incrociarsi di carri e di carrette, ragazzi e vecchi spingono per vincere la lunga salita. Ogni tanto qualche uomo, grosso, dal cappello consunto e polveroso, viene a sussurrare misteriose parole sull’orecchio all’ometto che lavora frenetico sulle mie scarpe. Si pensa a segrete informazioni, a traffici proibiti, a mariti gelosi che forse vogliono sapere se è passata la propria moglie. Fiero delle mie scarpe rinnovate penetro nella prima via che mi si presenta. Rasento una macelleria tutta fresca di frondi, di acque zampillanti e di rosei pezzi di carne esposti con ordine: insistono e si susseguono gli spacci di bibite con gialli limoni sul bianco del marmo, saloni di parrucchieri, negozi di cravatte, di camicie, di guanti, di cappelli e di scarpe. Ma un negozietto dove si vendono solo canne da passeggio attrae. Ne compero una, voglio darmi un’aria elegante: il soprabito sul braccio, il cappello leggermente sbandato. La via riempie di voglie: si vorrebbe comperare cosmetici, guanti, bere aranciate. Grandi numeri azzurri sono esposti agli ingressi degli sgabuzzini per il gioco del lotto. Diciotto e novanta: sono i numeri fatali per la prossima estrazione sulla ruota di Napoli. Entro tra la folla di donnette. Il buio locale è illuminato da lampade basse sui registri. Esco con un immenso piacere di attesa, ò giocato sull’ambo: diciotto e novanta, quello stesso che la vecchietta che mi precedeva à richiesto avida e ferma.
Le strade salgono e discendono. Vecchi palazzi appaiono nell’accordo sublime di tinte rosa e grige, un grigio di cenere vulcanica e il rosa come un riverbero di fuoco. Nelle piazze vi sono fontanine, e come le strade sono popolose di gente e di animali. Mi fermo, penetro in un crocchio di gente che ascolta un venditore ambulante. Il venditore fa un gioco di prestigio. Alcuni ragazzetti lo aiutano. À la voce roca, autorevole, tutti ascoltano attenti. Finito il gioco, consistente nel fare sparire un cucchiaio nella bocca di un ragazzo e farglielo uscire dalla manica, uno degli spettatori mormora che vi è trucco, lo dice con serietà, consapevole della propria intelligenza, che gli à permesso di accorgersi. Ma il venditore che à finissimo udito, lo riprende, come fosse uno scolaro impertinente: “Non fate disonore al vostro paese, si sa che vi è trucco, come mai non vi dovrebbe essere, ma voi dovete sapere che io lavoro per guadagnarmi da vivere e non per venire qui a dimostrare a questo rispettabile pubblico, che voi siete una persona intelligente”. E seccato, subito passa a esporre la sua mercanzia, mentre l’altro arrossendo non si rende ancora ragione di avere torto e di essere obbligato a tacere.
Scendo verso le strade del centro, tutti sentono il piacere della strada, di camminare, di farsi vedere, di osservare gli altri. Una donna alta e flessuosa, animosa nel volto, sbuca da un angolo e messa la mano a conchiglia sulla bocca, lancia spavalda un richiamo: “Maurizio”. Un giovanotto si volta e la raggiunge, affettuoso. Su dalla piazza aperta la massa grigia del Mastio Angioino inquadra il porto e il Vesuvio lontano. Contro lo sfondo celestino del monte si alza lo stelo rosa del faro e fittiscono gli alberi dei velieri e dei piroscafi. Le pietre del selciato sono dure e ondulate.
Mi inoltro nei quartieri popolari dove le vie sono profonde tra caseggiati enormi e corrosi. Sembra di avanzare in una densa boscaglia, dove tra i rami cantino gli uccelli: sono i richiami dei venditori ambulanti. Le vecchie case corrose con gli altarini illuminati agli angoli, piene di davanzali, sono decorate di cenci lavati che pendono ad asciugare. Nascoste tra i vasi di fiori teste di donna spiano, altre dai davanzali si divertono a fare scendere una funicella che porta appeso un cestino. Da tutti i piani, fino all’ultimo, vi è una donna con la funicella tra le mani e il cestino pende sul selciato, sembrano pescatori.
Una donna che passa batte un coltello su di un pezzo di ferro che risuona dolce come un timpano, si ferma, prende un cartoccino da una cesta, lo depone nel cestino sospeso, che subito risale. È la carne per i gatti. Su di un lungo carro rosso una ragazza campagnola sta assisa, disordinati i capelli sulla fronte annerita dal sole, davanti tiene alcuni mazzetti di trifoglio e due uomini contrattano con lei sul prezzo, da ultimo scherzosi fingono di portarglieli via. Allora ella si rialza con la testa e con il petto e messa anche lei la mano a conchiglia sulla bocca, li invita arrogante a lasciare la sua roba. Sulla porta di un’osteria è scritto:
La credenza è un errore,
si perde il denaro
e l’avventore.
Su di un panchetto tutto recinto di verdi frondi la bianca ricotta sta divisa a fettine su foglie bagnate. Una mano olivigna spacca con eleganza il pane e con lo stesso coltello, fatta una leggera evoluzione nell’aria, prende il formaggio e lo immette nel taglio. Una grossa donna tutta lavorata nelle chiome, seduta accanto a ceste di verdura, inarca le sopracciglia e mi fa un segno affettuoso. Una gallina razzola tra le pietre sconnesse del selciato, un gatto scappa con un topo tra i denti a cui pende la coda. Da per tutto vi sono banchi di lotto e barbieri. Un uomo mi parla, non capisco cosa voglia, poi allunga una mano e mi toglie con garbo un filo che avevo sulla tesa del cappello. “Stava così male, signorino”. Lo ringrazio e arrossisce, quasi avesse osato partecipare a preoccupazioni troppo mie e va a confondersi tra la folla. La sera scende fredda, i ragazzi accendono fuochi e si raccolgono attorno: altrove uomini e giovinette pare si riscaldino al canto di uno sdentato girovago che agita e batte un tamburello ingiallito. Cantano gli scaricatori del porto in attesa del piroscafo che urla, sono motivi, non cantano le parole e accompagnano il passo, lungo il muro corroso. Cantano le donne nella chiesetta confusa tra le case. I parrucchieri con il pettine tra i capelli sovrabbondanti richiamano con sibili leggeri delle labbra come volessero offrire delizie d’amore. Cantano i carcerati alla Porta del Carmine, al di là del muro. Una chiesa oscura dietro alla cancellata si eleva a gradi fino alla punta estrema del campanile che riceve l’ultima luce del giorno. Una casa rossa, cupa tra fasce grige, chiude la piazza, le finestre del carcere accolgono tutta l’ombra, una sentinella, tra il muro e una garitta, passeggia armata. Su di una porta sta scritto: “I colloqui con i condannati definitivi si rilasciano lunedì dalle 10 alle 12”. Due condannati seduti sul muretto dalla parte del porto, conversano con una guardia e guardano senza alcuna invidia la gente che passa.
Strada che canta
Cammino per Spaccanapoli: strada profonda, come scavata nella terra. Gli enormi palazzi si segnalano con sontuosi portali e vasti atrii dove non mancano gli altarini illuminati. Le chiese si incastrano alle case e queste si sovrappongono a esse.
Sui fastigi e sulle modanature sorgono ciuffi di erba con la prepotenza dei tropici. Vi sono facciate pallide e severe, altre gialline con diademi bianchi di angeli, altre annerite dal tempo con tendaggi rossi e dorati: variano, attraggono e soggiogano come volti umani. Il brusio delle voci sale come da un alveare prima di sciamare. A volte sembra che tutta la folla canti. E si canta a ogni richiamo di venditore. I forestieri che passano incantano gli sguardi di questo popolo antico. La strada odora: un uomo agita un incensiere e ne vende il profumo ai passanti. Altre cose sono offerte con il richiamo, accrescendone il pregio con altro nome: “Che belle rose” e si vendono garofani: “Che miele dolce” e si vendono datteri. Prende l’estro di confonderci con il popolo che ci guarda, tanto lo si vede beato nello sguardo. Rasentarlo, accogliere le sue parole, dare il soldino ai ragazzi per ricevere un grazie partito veramente dal cuore è un piacere insuperabile e nuovo. A poco a poco si rinuncia a noi stessi per modellarci su di loro, sicuri della loro perfezione raggiunta. Luccicano le chiome nere del giovane seduto con pose sovrane sulla poltrona del lustrascarpe e le mani frenetiche strofinano con il velluto rosso il cuoio che finisce per gareggiare in lucentezza con i capelli ondulati: “Ma cosa vi date sui capelli voi napoletani per farli diventare così lucenti?”. “Brillantina Venùs”, risponde naturale e felice. E da che à risposto così, si è decisi di usare la stessa brillantina. Fuori dalla pizzeria si grida: “Càure, càure (calde, calde), che belle pizze”. La gente passa, qualcuno si ferma, compera la pizza e riprende a camminare mangiando nello stesso tempo. Si entra, ci si siede a tavola: i camerieri stanno leggendo il giornale, non si muovono. Si richiama, lentamente uno avanza, le suppellettili vengono portate una alla volta. Il sole batte e si riflette sugli specchi: i camerieri allora prendono a cantare in sordina, nessuna pietanza arriva. I lumicini ardono davanti alla Madonna in fondo alla stanza. Si capisce che noi siamo degli estranei, che qui non sappiamo ancora vivere, che qui si deve vivere sempre sulla strada, che sedersi per mangiare è una perdita di tempo e che qui il tempo non è denaro, ma piacere di sentirsi a contatto con la folla. Si doveva comperare la pizza di fuori e mangiare camminando come tutti gli altri.
A certi momenti mi vorrei sdraiare per terra. Ma non si può fare a meno di sedersi su di un carro fermo per guardare dall’alto i buffi che cantano Il tango della miseria. Una folla sosta attorno nel breve spazio: i buffi con vecchi cilindri e palandrane vanno su e giù anchilosati nei gesti al ritmo dell’orchestrina: tutti ridono sognanti e quello che richiede l’obolo rivolge l’invito con carnali allusioni. La naturale freschez...