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La tratta dei baby calciatori

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La tratta dei baby calciatori

Informazioni su questo libro

La prima inchiesta italiana sul fenomeno della tratta dei baby campioni nel nostro paese provenienti dalle parti più povere del mondo, soprattutto da America Latina e Africa ma anche dall'Asia. Un giro di soldi milionario che coinvolge il mondo delle scommesse, scuole calcio, una serie infinita di intermediari, le famiglie di centinaia di atleti e non ultimi i sogni e le ambizioni dei giovani talenti che hanno imparato a giocare a calcio nelle periferie povere del mondo. Attraverso un lavoro d'inchiesta rigoroso, l'autore affronta la complessità di questo fenomeno, senza preconcetti e senza retorica, approfondendo i casi esemplari dai Dilettanti ai campi della serie A.

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Informazioni

Casi esemplari
Le norme Fifa si prestano a un altro tipo di critica. Sono state pensate per arginare lo sfruttamento dei minori da parte di società di livello medio-alto, ma spesso diventano un ostacolo all’integrazione dei minori stranieri tramite il calcio amatoriale e dilettantistico. Sono sempre più numerose le squadre formate da immigrati africani in Italia: profughi o richiedenti asilo. Hanno un’importante funzione antirazzista e di inclusione. Una di queste è l’Atletico Brigante. Nel 2015 questa piccola società campana, che milita in Terza categoria, prova a tesserare due ragazzi di 16 e 17 anni: Aamir e Rabah, uno gambiano l’altro somalo, 16 e 17 anni.
Amir e Rabah – racconta il “Corriere del Mezzogiorno” – sono sbarcati l’anno prima a Pozzallo, nel ragusano, sono ospiti di una comunità di Benevento, l’Arca di Noè e sono regolarmente in possesso di permesso di soggiorno. I dirigenti dell’Atletico Brigante iniziano la procedura per inserire i due ragazzi in squadra. A gennaio parte la trafila con invio di documenti al comitato campano della Figc e della Lega nazionale dilettanti. Dopo due settimane arriva la prima risposta, diversa però da quella che si attendevano i dirigenti della squadra di Amir e Rabah: trattandosi di minori stranieri non accompagnati, la pratica deve passare al competente ufficio della Federcalcio a Roma.
In primavera gli uffici di via Allegri, la sede della Figc, informano che la documentazione dovrà essere girata alla Fifa in ossequio alle norme viste in precedenza. A Benevento cominciano a scoraggiarsi sulla possibilità di ottenere le due sospirate autorizzazione. Ma non mollano e rilanciano con un appello esteso ad altre società calcistiche dilettantistiche campane: la richiesta alla Figc è quella di fare in modo che questo genere di tesseramenti viaggi su un binario differente rispetto a quello più severo riservato ai club professionistici.
Risulta difficile non appoggiare questa posizione. È su questo sentiero stretto che la normativa varata dalla Fifa per fermare la “tratta dei campioni” (con la relativa applicazione delle varie Federazioni) deve affrontare un crinale di difficilissima tracciatura: che cos’è “tratta” da ostacolare e che cos’è integrazione da favorire?
Lascia perplessi quest’altra dinamica, raccontata da Vittorio Rigo, l’avvocato di Mario Balotelli, che collabora con l’agente Mino Raiola alla stesura dei contratti che certificano i trasferimenti milionari di Zlatan Ibrahimovic da una grande all’altra d’Europa. Rigo, che ha uno studio legale a Vicenza, ha affrontato diversi casi nel corso della sua attività per tentare di allargare alcune strettoie normative, fonte di discriminazione nei confronti degli atleti.
Una di queste incongruenze, ad esempio, è relativa allo scalino tra Dilettanti e Lega Pro (ex Serie C) che blocca la salita di molti giovani calciatori stranieri al calcio professionistico. Tra i Dilettanti è consentito schierare extracomunitari, sebbene con alcuni limiti. In Lega Pro invece il tesseramento è vietato. Il motivo è quello di salvaguardare la presenza di giocatori italiani scongiurando invasioni straniere anche nelle categorie professionistiche più basse.
Ma ha senso applicare questo divieto anche a chi risiede in Italia da tempo per motivi famigliari? Il caso, del quale si occupa Rigo, è proprio questo: un ragazzo extracomunitario di 17 anni ha raggiunto il padre che aveva già trovato lavoro in Italia. Un classico ricongiungimento famigliare: il genitore precede moglie e figli, trova impiego, risparmia e a poco a poco riesce a portare il resto del gruppo in Europa. Il figlio diciassettenne è bravo a giocare a calcio, si fa valere nella sua squadra di Lnd in provincia di Verona al punto da essere notato da una società di Lega Pro che lo chiama per inserirlo in rosa per la stagione successiva. È una notizia eccellente: di fatto questo giovane immigrato ha trovato facilmente la chiave per inserirsi in Italia. Ha fatto del calcio il suo lavoro con tutto il corollario di benefici sociali che questa posizione può regalargli: il pallone, a ogni livello professionistico nel nostro paese, trasforma i suoi interpreti in idoli piccoli o grandi. Giocare in Lega Pro conferisce un riconoscimento sociale molto forte nella comunità di riferimento. Ma il sogno di questo giovane straniero trapiantato in Veneto non può continuare perché non arriva l’autorizzazione Figc al tesseramento in Lega Pro.
Nel 2010 un attaccante bosniaco ha provato a forzare questo meccanismo ricorrendo alla giustizia ordinaria. Si chiama Enis Nadarevic: è arrivato in Italia nel 2005 per lavorare come manovale nell’azienda fondata da papà Muhamed, scappato dalla guerra nei Balcani e abile a rifarsi una vita in Friuli.
In riva al Tagliamento, quando non aiuta il papà in fabbrica, Enis segna con una certa regolarità nella Sanvitese, squadra di Serie D: la media è di una rete ogni tre partite. Ma Enis non è solo un bomber: il suo gioco è fatto anche di assist e dribbling. Ha classe e rapidità. Non a caso c’è una società che vorrebbe portarlo direttamente dai Dilettanti alla Serie B: il Varese. I lombardi, però, non ottengono il via libera dalla Figc a causa del blocco agli extracomunitari tra i cadetti. Nadarevic può disputare solo le amichevoli estive, ma non le partite di campionato.
Enis però si ribella a questo destino: non vuole segnare solo in Serie D con la Sanvitese. Così decide di rivolgersi a Vittorio Rigo e al collega Eugenio Piccolo che vincono la causa davanti al Tribunale di Varese: “Nadarevic non può essere considerato straniero proveniente dall’estero se non violando l’articolo 3 della Costituzione”, recita la sentenza secondo la quale l’attaccante bosniaco non è equiparabile a un giovane sudamericano acquistato al di là dell’Atlantico o a un collega africano ingaggiato a sud del Mediterraneo. A Nadadervic manca sì la cittadinanza, ma per giocare gli basta la residenza, perché di fatto “Enis fa parte dei vivai italiani dal 2006”, scrive il giudice.
Il Varese lo tessera e negli ultimi sei anni Nadarevic ha sempre giocato nei nostri campionati professionistici riuscendo a collezionare tre presenze in Serie A con la maglia del Genoa nella stagione 2013-14: 20 minuti col Catania, 29 con l’Atalanta e 49 con il Bologna. È andato in panchina allo Juventus Stadium e in casa contro l’Inter. È stato ingaggiato da squadre nobili della provincia italiana come il Novara, ha vissuto la grande piazza di Bari e ora è ancora in Puglia, con il Monopoli in Lega Pro: ha superato le 150 presenze tra i professionisti. Enis ha vinto la sua battaglia: aveva ragione a insistere nel voler lavorare con il calcio senza fermarsi tra i Dilettanti. Ma non tutti hanno la sua tenacia e non tutti possono permettersi di investire qualche migliaio di euro in una causa giudiziaria. Enis ce l’ha fatta, il suo giovane collega in provincia di Verona no.
Un baby campione tormentato
Esistono situazioni paradossali nelle quali le differenze di trattamento sono addirittura interne alla stessa famiglia. È illuminante la vicenda di Valentin Vada, un calciatore argentino, portato in Francia a 15 anni dal Bordeaux. Valentin è una piccola stella, seguito anche da Chelsea, Barcellona e Real Madrid. Ma il Bordeuax ha la precedenza perché Valentin è affiliato da qualche anno al Proyecto Crecer nella provincia di Santa Fe, una sorta di società satellite del club francese in Sud America che permette ai dirigenti girondini di tenere sotto osservazione i migliori talenti della zona, È già successo con il centrocampista argentina Juan Pablo Francia, altro talento cresciuto nel Proyecto Crecer che ha giocato con i girondini per sei anni dal 2002 al 2008.
Le voci intorno a Vada, a proposito del corteggiamento delle altre big europee, suggeriscono al Bordeaux di accelerare i tempi per bruciare i concorrenti con la firma inoppugnabile su un contratto. Così Valentin viene chiamato in Francia insieme a tutta la famiglia: papà, mamma e due fratelli, uno più piccolo e uno più grande. Valentin sottoscrive un accordo triennale con il Bordeaux a 1.300 euro al mese. Il padre trova un lavoro con una retribuzione da 2mila euro al mese. In attesa che inizino a lavorare mamma e fratello maggiore, sono già 3.300 euro mensili per una famiglia di quattro persone con la prospettiva di avere un futuro campione in casa: non una vita da nababbi, ma nemmeno di stenti.
Sembra uno scenario roseo. Fino a quando non entra in gioco la burocrazia della Fifa: il Bordeaux deve presentare la sua regolare richiesta di tesseramento internazionale a Zurigo, secondo i principi del Transfer matching system. I francesi sono fiduciosi di strappare un via libera, convinti di poter dimostrare che Valentin non si è trasferito in Francia per motivi calcistici, ma per seguire la famiglia dal momento che il padre aveva trovato un lavoro a Bordeaux. Invece il castello non regge. Secondo la sotto-commissione Fifa, incaricata delle pratiche degli under 18, il Bordeaux non può tesserare Valentin Vada perché considera preminente la motivazione calcistica nel trasferimento della sua famiglia dall’Argentina alla Francia.
È quasi surreale leggere lo svolgimento del processo davanti al Tas: Marcelo, il padre del giovane giocatore, deve spiegare perché ha deciso di trasferirsi insieme alla moglie e ai tre figli dal Sud America all’Europa. Racconta che nel 2007 ha fatto visita a un suo amico argentino, Sergio Alfonsini, il quale vive a Bordeaux; ha visto che in Francia si vive bene e ha deciso di cambiare vita. Contemporaneamente ha chiesto dove avrebbe potuto giocare a calcio suo figlio Valentin, una volta arrivato nella sua nuova città. L’amico Sergio gli ha suggerito il Bordeaux, Marcelo si è presentato al cancello del centro sportivo e da lì parte è partito l’interesse del club francese per Valentin. Il Bordeaux vede giocare il giovane argentino che inizia a compiere due viaggi all’anno in Francia per svolgere brevi periodi di allenamento presso il centro sportivo dei Girondini.
Ma non solo: Marcelo deve spiegare perché ha imboccato la strada di questo trasloco intercontinentale al buio, senza apparenti garanzie economiche e di impiego nel nuovo paese. Il signor Vada spiega agli arbitri di Losanna che confidava di poter lavorare come professore di educazione fisica, lo stesso mestiere esercitato in Sud America. Inoltre, prima di partire, aveva venduto beni di famiglia in modo da poter disporre di riserve di liquidità nei primi mesi da disoccupato in Francia.
Lo scacco matto della Fifa è rappresentato da questa circostanza: Marcelo Vada trova lavoro presso una residenza appartenente al gruppo immobiliare Pichet, uno degli sponsor principali del Bordeuax. Il cerchio si chiude: la famiglia Vada, secondo Fifa e Tas, ha cambiato nazione perché il figlio è un promettentissimo giocatore di calcio. E non viceversa. Così Valentin, considerato uno dei maggiori talenti della sua generazione, non può giocare nel Bordeaux. Con un effetto paradossale: Valentin ha due fratelli, Thomas e Frederic che, al momento dell’arrivo in Francia nel 2011, hanno rispettivamente 5 e 20 anni. Anche loro vengono tesserati dal Bordeaux. E loro possono giocare in Francia perché il piccolo ha meno di 12 anni e il grande è maggiorenne, quindi sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’articolo 19, il primo perché è troppo piccolo, il secondo perché troppo grande. Assurdo: in Francia possono giocare i due fratelli, ma non Valentin che è la stella della famiglia.
Dopo due anni di stallo, il Bordeaux riesce a tesserare Vada grazie a uno stratagemma: il ragazzo argentino ha anche il passaporto italiano, quindi è cittadino comunitario e come tale può muoversi liberamente secondo una delle eccezioni dell’articolo 19 anche se è minorenne. Inizialmente la Fifa respinge questa istanza dal momento che Valentin non è mai stato registrato presso la Federazione italiana. Ma gli avvocati della famiglia insistono sostenendo che si tratterebbe di una violazione della libera circolazione all’interno dell’Unione Europea, ampliando un concetto contenuto in una precedente pronuncia del Tas su una controversia con la società danese Midttjylland che aveva invocato l’accordo di Cotonou tra alcuni Paesi europei e africani per giustificare il tesseramento di tre minorenni nigeriani ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione | Fiona May
  2. Introduzione
  3. Momo e gli altri
  4. Una tratta globale
  5. Casi esemplari
  6. Seconde generazioni
  7. Il calcio che accoglie
  8. Conclusioni