Dove va il sindacato?
I sindacati confederali, Cgil, Cisl, Uil e, da qualche tempo, con minore autorevolezza, ma con crescenti simpatie dei commentatori, Ugl, sembrano le uniche organizzazioni di massa rimaste, dopo la scomparsa dei partiti; le uniche con milioni di iscritti, in grado, in momenti critici, di mobilitare lavoratori e persone a milioni e di opporre veti efficaci alle scelte dei governi.
In anni non molto lontani, anche dopo la fine del governo Ciampi, la concertazione, avversata solo da minoranze, ha rappresentato la chiave di volta delle decisioni economiche; grandi manifestazioni sindacali hanno rappresentato punti di svolta politica, o momenti di aggregazione di una opposizione che non sembrava in grado di trovare altri momenti o altre forme di coesione.
Malgrado questa forza apparente, però, il livello dei salari in Italia è sceso in modo preoccupante rispetto ai profitti e, soprattutto, alle rendite. Preoccupante non solo per i diretti interessati, che stringono la cinghia, ma anche per la stabilità del sistema. Anche negli anni della concertazione, il livello dei salari di fatto slittava costantemente al di sotto dei livelli concordati. Nei momenti di crisi le iniziative di lotta sono prese il più delle volte da sindacati di categoria non confederali o di mestiere, più militanti o più vicini agli interessi percepiti dei lavoratori interessati o degli iscritti. Sono i Cub, i Cobas, le diecine o centinaia di organizzazioni che affollano i tavoli delle trattative non solo nel pubblico impiego (scuola, sanità) o in categorie particolari (pubblica sicurezza) ma anche nei servizi, nei trasporti, nell’industria. Basti pensare all’andamento della vertenza Alitalia, in cui gli interventi confederali sono risultati più di autorevole mediazione (come quello della Cgil) o addirittura di appoggio a proposte scavalcate dai fatti (come quello di Cisl e Uil) che di rappresentanza e di guida delle lotte dei lavoratori, giuste o sbagliate che fossero.
Per quanto sia preoccupante la perdita di terreno dei salari dei lavoratori a tempo indeterminato, garantiti e assicurati, mentre il numero di lavoratori in cassa integrazione torna a salire e cresce il numero dei poveri anche tra i sindacalizzati, è evidente che i veri problemi sociali si manifestano tra i giovani precari, i disoccupati ultracinquantenni, i lavoratori in nero, i lavoratori privi di cittadinanza italiana, in particolare gli irregolari, che sono in nero per forza. I lavoratori più emarginati e sfruttati non si iscrivono né ai sindacati confederali né a quelli particolaristici; non riescono ad aggregarsi in nessuna forma; in molti casi non possono ricorrere al giudice e alle forze dell’ordine perché sono giuridicamente inesistenti; in qualche caso, come nel bracciantato agricolo, ma non solo, sono davvero ridotti in schiavitù e rischiano la vita. Libri come Uomini e caporali di Alessandro Leogrande, ricerche come quelle sui percorsi di arrivo delle ragazze importate per prostituirle o delle serve e cameriere dei ristoranti etnici, descrivono un mondo in cui conta solo la forza e la vita non vale molto.
Sui problemi degli immigrati, dei dipendenti precari in subappalto, dei lavoratori finti autonomi, le grandi organizzazioni sindacali esprimono più una posizione culturale che una vera azione di rappresentanza e difesa. Li prendono in carico solo quando e se varcano il confine che li separa dai rappresentati. Quando si arriva ai veri problemi di convivenza o di condizione giuridica, la capacità di pressione e la volontà di impegnarsi delle grandi confederazioni svanisce. Restano le posizioni ideali, un po’ diverse su alcuni temi tra Cgil e Cisl, ma non si manifesta nessuna presa di posizione o pressione vera. Aumentano le differenze, le sfumature. È come se il grande corpo degli iscritti e l’insieme dei dirigenti avessero al loro interno le stesse divisioni della società in generale, gli stessi timori e pregiudizi, le stesse preferenze, e non potessero fare nulla di decisivo senza dividersi.
La forza di mobilitazione e pressione rischia di essere solo apparente. È molto grande, ma non può esprimersi che su temi estremamente generici, quasi sul nulla.
La Gerusalemme rimandata
I limiti del sindacalismo sono stati sottolineati, in Italia, naturalmente, proprio da alcuni dei sindacalisti maggiori. Vittorio Foa (La Gerusalemme rimandata, sul sindacalismo britannico), Bruno Trentin (Da sfruttati a produttori), Bruno Manghi (Declinare crescendo, Il tempo perso) hanno sostenuto la intrinseca contraddittorietà, tragicità, si potrebbe dire, dell’azione sindacale, destinata a non raggiungere mai il proprio obiettivo ultimo, la liberazione del lavoro, e perciò a rinnovare mobilitazioni, lotte, trattative, contratti, destinati sempre a essere erosi dai mutamenti economici e sociali e perciò a richiedere nuove mobilitazioni e nuove lotte. Perciò Bruno Trentin, che pensava fosse impossibile alterare a favore del lavoro la distribuzione tra salari e profitti, insisteva sulla necessità di intervenire sull’organizzazione del lavoro, di determinare il mutamento economico anziché subirlo. Perciò sia Foa sia Trentin erano convinti della centralità della mobilitazione, della lotta, in quanto tale; dell’importanza della solidarietà, della maturità, generate dalla mobilitazione e unico risultato vero, finché regge.
Non è detto che avessero ragione del tutto. Ambedue erano azionisti, finiti nel partito socialista il primo e in quello comunista il secondo per necessità, e perciò privi della possibilità di dare uno sbocco politico per loro condivisibile al movimento operaio. Il crollo relativo dei salari, quando un’azione sindacale e politica coerente viene meno, e quando i lavoratori si trovano a competere con chi è totalmente fuori dal sistema dei diritti e non può organizzarsi liberamente, forse dimostra che l’azione sindacale sulla distribuzione influisce e come!
Bruno Manghi, cui sono più vicino per età, parla del sindacato del declino, destinato a conservare più che a migliorare, costretto a perdere tempo appunto, perché ha una funzione istituzionale di garanzia, che richiede un’attività intermittente in occasioni non sempre prevedibili, per cui bisogna segnare il passo, fare la marcia sul posto, far finta di avere tante cose da fare, per essere pronti al momento opportuno, anche se, nella maggior parte dei casi, il mondo continuerebbe a girare esattamente allo stesso modo anche se non si facesse nulla. La descrizione è indubbiamente realistica. La tragica necessità di ciò che viene descritto è invece assai dubbia. Che accada non c’è dubbio. Che possa continuare ad accadere a lungo senza una crisi, un tracollo o un mutamento, è invece molto dubbio. Si sono accumulati fatti importanti nella società, tra gli iscritti, tra i sindacalisti, nei loro rapporti con le istituzioni, nel loro bagaglio ideale, nei loro fini, che fanno pensare a un mutamento forse possibile, certo necessario, per evitare il tracollo.
Come sono cambiati i lavoratori e gli iscritti
Si è parlato a lungo di mutamenti del lavoro, di aumento della varietà e della complessità dei lavori, tanto da rinunciare alla possibilità di parlare di lavoro astratto. Era di Fausto Bertinotti la proposta di parlare di una Camera dei Lavori, non più del Lavoro. Si è ritenuto inevitabile il moltiplicarsi dei contratti per l’impossibilità di racchiudere in una sola struttura normativa attività troppo diverse. Si è persino moltiplicato a dismisura il numero dei percorsi scolastici e formativi, tanto da configurare una patologia specifica, per l’asserita necessità di adeguarsi alla varietà inusitata dei compiti – si pensi alle centinaia di denominazioni degli istituti secondari e alle migliaia di corsi di laurea e di master. In effetti i cambiamenti sono stati grandissimi, dovuti al mutamento tecnico, alla esportazione in paesi dove il lavoro connesso alle attività più faticose e inquinanti, talora a intere produzioni, soprattutto industriali ma anche di servizio, costa poco. La globalizzazione ha mutato la distribuzione del lavoro tra i paesi, concentrando le attività finanziarie e direttive in quelli più ricchi e le attività di produzione delle materie prime agricole, estrattive e industriali in quelli più poveri. L’Italia però e rimasta un paese industriale, secondo solo alla Germania nel peso percentuale della manifattura, con produzioni dislocate in Europa orientale e in Asia, ma con molte attività, anche tradizionali, mantenute in Italia, a causa dei bassi salari e, insieme, origine della loro riduzione. I mutamenti veri sono stati organizzativi. È diminuita l’occupazione nella grande industria, è cresciuta quella nelle industrie medie, piccole e piccolissime, è aumentato a dismisura il numero dei cottimisti (lavoratori finti autonomi, con partita Iva ma senza capitale e senza un vero mestiere), è aumentato il numero dei precari in tutte le attività impiegatizie, di ricerca, di servizio. Più che imprese-rete o reti di imprese – che è stata l’idealizzazione di ciò che stava accadendo – si sono costituiti sistemi di appalti, subappalti e sub-subappalti in cui non c’è nessun vero calcolo di efficienza complessiva ma semplicemente si scarica verso il basso, sui subfornitori e sui lavoratori non garantiti, il costo della variabilità, della flessibilità e gli oneri finanziari, a vantaggio dei gruppi politici, o dei potentati economici, che decidono i lavori, ne ottengono il finanziamento e controllano l’intermediazione.
Il mutamento maggiore avvenuto realmente è però demografico; cioè il forte invecchiamento della popolazione italiana autoctona, dovuto al dimezzamento delle nascite e all’allungamento della vita media, con un aumento massiccio dei pensionati e dei lavoratori vicini all’età pensionabile e, negli anni, il dimezzamento delle coorti di giovani lavoratori autoctoni. Ne è derivato un massiccio arrivo di immigrati, giovani, in età di lavoro, ...
