La guerra d'Algeria e il "manifesto dei 121"
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La guerra d'Algeria e il "manifesto dei 121"

Informazioni su questo libro

Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il "manifesto dei 121", che denuncia la brutale repressione e l'uso sistematico della tortura praticata dall'esercito francese in Algeria, e solidarizza con l'insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all'epoca nel Fronte di liberazione nazionale.Cesare Pianciola è storico e filosofo torinese. Fa parte del comitato direttivo del Centro studi Piero Gobetti e ha collaborato a numerose riviste e iniziative. Con Franco Sbarberi ha curato e introdotto la raccolta di inediti di Norberto Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile (Donzelli, 2014).

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Informazioni

Argomento
Storia
Si deve, si può
© 2016 Edizioni dell’asino
Isbn 978-88-63571-62-2
Distribuzione Messaggerie libri
progetto grafico: orecchio acerbo
Hanno collaborato:
Cecilia Cardito, Goffredo Fofi, Giulio Marcon,
Sara Nunzi, Fausta Orecchio, Ilaria Pittiglio,
Giacomo Pontremoli, Nicola Villa.
Stampato a Roma
presso la tipografia Digitalia lab
La guerra d’Algeria
e il “manifesto dei 121”
di Cesare Pianciola
Prefazione
C’erano una volta gli intellettuali – una categoria di scienziati, studiosi, insegnanti, artisti, giornalisti non così numerosa come oggi, e che contava qualcosa nella storia delle società, sapeva contrastarne le tendenze distruttive e autodistruttive, discutere le soluzioni adottate dai politici per risolvere i problemi più gravi e impellenti, e finire a volte in galera per aver difeso idee invise, in democrazia, al potere espresso dalla maggioranza dei cittadini.
Il “manifesto dei 121” (in realtà le adesioni furono tre o quattro volte tante, i 121 furono i primi a firmare il documento stilato da Blanchot e Mascolo e discusso e rivisto con molti di loro) fu un atto di accusa contro il governo francese (espresso in parte dalla sinistra) che condusse la sanguinosa guerra d’Algeria contro i rivoltosi che ne chiedevano l’indipendenza. Dopo la fine della prima guerra mondiale erano esplose nel mondo grandi lotte anticolonialiste, le più importanti delle quali, vittoriose, dei popoli indiano e cinese. L’Algeria non fu da meno, e la sua rivolta lacerò la società francese, che nella sua parte più cosciente reagì praticando l’insoumission, la non-accettazione di una guerra che, pochi anni dopo la Liberazione, mandava ancora i suoi giovani a morire per una causa evidentemente ingiusta. A tutto questo si aggiungeva il rifiuto, da parte di chi, per esempio, aveva preso parte alla Resistenza antinazista, di accettare la più atroce delle pratiche di guerra, la tortura. Furono i giovani francesi insoumis a mettere in crisi l’ordine coloniale, e a provocare la coscienza collettiva con le loro testimonianze e denunce, mentre, dall’altra parte, i Fanon o i Camus che la società coloniale conoscevano bene, sollecitavano altre risposte, anche se diverse tra loro soprattutto nel richiamo alla violenza.
Sul “territorio metropolitano” nacque il réseau Jeanson, la rete clandestina di sostegno agli insoumis e al Fronte di liberazione nazionale algerino, che prese il nome dal giovane filosofo che redigeva la rivista “Les temps modernes” insieme a Sartre, e nacquero altre piccole reti di opposizione politica e culturale, che sul fronte cattolico trovarono la loro sede nella rivista “Esprit”, mentre la casa editrice Les éditions de Minuit diretta da Jérome Lindon affrontò una lunga serie di processi per la pubblicazione di materiali di denuncia sulla condotta della guerra da parte francese. (In Italia, fu attorno a Giovanni Pirelli e alla casa editrice Einaudi che si prestò l’attenzione più assidua a quella produzione).
Il ritorno di de Gaulle al potere risolse infine la grande lacerazione della società francese ma lasciò aperte non poche ferite, dovute alla sorte della rivoluzione algerina, ben diversa da quelle che erano state le loro speranze, anche tra gli stessi firmatari del manifesto. Se la ferita della tortura periodicamente si riapre nel mondo, è ancora aperta in Francia quella del rapporto tra una società aperta all’integrazione degli immigrati dal tempo della grande Rivoluzione, che nei confronti dei nord-africani che vi si sono stabiliti mantiene forme di ostilità e discriminazione in ragione, spiegano alcuni, proprio del trauma di quella guerra. Resta che il manifesto dei 121 può essere ancora di modello per un agire etico-politico degli intellettuali, che oggi sono la gran parte di una popolazione frastornata e ciarliera, che molto parlano e scrivono e ben poco agiscono e dimostrano, e non sembrano disposti a rischiare un bel niente, in special modo nel nostro paese. (Goffredo Fofi)
Dichiarazione sul diritto all’insubordinazione nella guerra d’Algeria
Un movimento molto importante si sviluppa in Francia ed è necessario che l’opinione pubblica francese e internazionale ne sia meglio informata al momento in cui la nuova svolta della guerra d’Algeria deve portarci a guardare attentamente, e non già a dimenticare, la profonda crisi che si è aperta da sei anni a questa parte.
Di giorno in giorno è maggiore il numero dei francesi che sono perseguitati, imprigionati, condannati per essersi rifiutati di partecipare a questa guerra o per essere venuti in aiuto ai combattenti algerini. Snaturate dai loro avversari ma anche edulcorate da quelli stessi che avrebbero il dovere di difenderle, le loro ragioni restano generalmente incomprese. È pertanto insufficiente dire che questa resistenza ai pubblici poteri è rispettabile. Protesta di uomini colpiti nel loro onore e nella giusta idea che essi si fanno della verità, essa ha un significato che sorpassa le circostanze nelle quali è venuta affermandosi e che è importante riconfermare, quale che sia la piega che prendono gli avvenimenti.
Per gli algerini, la lotta che prosegue sia su un piano militare sia su un piano diplomatico non comporta equivoci di sorta. È una guerra di indipendenza nazionale. Ma quale ne è la natura per i francesi? Non si tratta di una guerra straniera né d’altra parte è stato mai minacciato il territorio della Francia. C’è di più: essa è condotta contro degli uomini che lo Stato ostenta di considerare francesi, mentre questi lottano proprio per non esserlo più. Non basta dire che si tratta di una guerra di conquista, di una guerra imperialista, accompagnata, per sovrappiù, da razzismo. C’è un po’ di questo in tutte le guerre e l’equivoco persiste.
In effetti, in seguito a una decisione che costituisce un vero e proprio abuso, lo Stato ha prima di tutto mobilitato intere classi di cittadini con il solo scopo di realizzare un compito che esso stesso ha definito come di polizia, contro una popolazione oppressa, che si è ribellata unicamente per un elementare senso della dignità dal momento che essa pretende di essere finalmente riconosciuta come una comunità indipendente.
Né guerra di conquista, né guerra di “difesa nazionale”, né guerra civile, la guerra d’Algeria è diventata poco a poco una vera e propria azione dell’esercito e di una casta che rifiutano di cedere di fronte a una sollevazione di cui lo stesso potere civile, rendendosi conto del crollo generale degli imperi coloniali, sembra pronto a riconoscere il senso.
Oggi è soprattutto la volontà dell’esercito che mantiene in atto questa guerra assurda e criminale, e questo esercito, attraverso il ruolo politico che molti dei suoi più alti rappresentanti gli fanno giocare, agisce talvolta apertamente e violentemente al di fuori della legalità, tradendo i fini che il paese gli ha affidato, compromette e rischia di pervertire la stessa nazione, forzando i cittadini ai suoi ordini a rendersi complici di una azione faziosa e avvilente. Bisogna forse ricordare, a quindici anni di distanza dalla distruzione del regime hitleriano, che il militarismo francese, in seguito alle esigenze di una tale guerra, è giunto a restaurare la tortura e a farne nuovamente come una istituzione in Europa?
È in queste condizioni che molti francesi hanno rimesso in dubbio il senso dei valori e degli obblighi tradizionali. Cos’è il civismo, quando in certe circostanze diventa una vergognosa sottomissione? Non vi sono dei casi in cui il rifiuto di obbedienza è un sacro dovere e il “tradimento” è coraggioso rispetto del vero? E quando, a causa della volontà di quelli che l’utilizzano come uno strumento di dominio razzista o ideologico, l’esercito si afferma in aperta o in latente rivolta contro le istituzioni democratiche, la rivolta contro l’esercito non prende forse un nuovo significato?
Il caso di coscienza si è posto fino dagli inizi della guerra. È normale che al suo prolungarsi questo caso di coscienza si sia risolto concretamente in atti sempre più numerosi di insubordinazione, di diserzione oltre che di protezione e di aiuto ai combattenti algerini. Movimenti liberi si sono sviluppati in margine a tutti i partiti ufficiali e senza il loro aiuto e, alla fine, malgrado le loro sconfessioni. Ancora una volta è nata una resistenza al di fuori dei quadri e delle parole d’ordine prestabilite, attraverso una presa di coscienza s...

Indice dei contenuti

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