Subway
eBook - ePub

Subway

  1. 306 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Paolo Maria è un uomo di trent'anni che di giorno vive tra le stazioni del metrò, trascinando con sé sempre la sua pianola e cercando di sbarcare il lunario chiedendo l'elemosina. La sera dorme in un ostello. Coriandolo è una senzatetto sui cinquant'anni, anoressica e con problemi di memoria, che vive e dorme nella Subway.Tutto l'impianto della storia gira intorno a questi due personaggi, affiancati da altri altrettanto importanti, ognuno con un proprio bagaglio ingombrante e una storia da risolvere.Subway è uno straordinario viaggio a ritroso tra meandri nauseabondi abitati da reietti. Gli autori, con coraggio e forti di un linguaggio duro e realistico, puntano l'obiettivo nitido e senza fi ltri sulle vite dei personaggi dell'insolito giallo/noir, a metà strada tra vita e morte, luci e ombre, oblio e dannazione. Di costoro si conosce appena il passato, eppure si vive con loro un presente duro, aspro, dove si consumano eff erati delitti e si vivono brutali passioni che disumanizzano la coscienza dei personaggi.È una storia di emarginazione, dove due mondi, quello degli esclusi e quello considerato normale, s'intersecano e spesso si confondono in un susseguirsi di luci e ombre.

Domande frequenti

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Informazioni


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Ciro Pinto, Rossella Gallucci



Subway







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Prologo







Maledetto re bemolle, si era inceppato, roba da fargli torcere le budella. Bella mattinata, incominciamo bene, pensò guardando con raccapriccio la sua pianola di quattro ottave; pigiò più volte il tasto nero, ma quello era rigido e tosto come una pietra.
Quel problema inaspettato rischiava di rovinargli l’intera giornata.
Doveva cercare il Tondo, lui lo avrebbe riparato, ma chissà dove stava, in quale stazione si era fermato.
Paolo Maria storse la bocca, richiuse il coperchio sulla tastiera, ripiegò il carrellino e lo assicurò alla pianola così che lo strumento divenne un trolley.
Raccattò la bottiglia mezza piena di birra, il baschetto con dentro due monetine, lo zaino nero, sdrucito e logoro. Quindi, con tutto l’armamentario cominciò a spostarsi verso l’alto, nel piano di mezzo, tagliando il flusso di persone che scendevano frettolose e serie verso i binari.
Non disdegnò di porgere il cappellino tra la folla e di sciorinare qualche frase a effetto: ho fame, mia sorella piccola sta morendo e altre formule del genere. Qualcuno gli mollò dieci o venti centesimi, una signora grassa lo spinse via, un paio di ragazzi gli calarono una bustina arrotolata di M&M’s, qualcuno lo mandò a quel paese.
Era l’ora più prolifica, quella dove i treni erano pieni, zeppi di persone tutte di corsa al lavoro, e lui non poteva suonare. Maledetta sfiga, imprecò.
Decise di andare al cesso, doveva pensare al da farsi.
I cessi della 24 erano tra i più puliti della linea rossa.
Nel puzzo di piscio e tra le cartacce che imbrattavano il pavimento si appoggiò con le mani a un lavello tutto striato di calcare, ficcò lo sguardo nello specchio sfregiato in più punti e cominciò a pensare.
Doveva cercare Stella; la cosa lo infastidiva non poco, ma era l’unica soluzione. Lei cantava d’incanto, dal fado al blues, aveva una voce che le usciva dal petto, una chitarra elettrica e un piccolo amplificatore. Strimpellava quattro accordi, cercava un solista e aveva chiesto a lui di darle una mano.
Io non suono quella roba lì, l’unica musica che ha senso viene da qui, le aveva detto indicando la sua creatura, la quattro ottave che portava in giro per i treni.
Lei lo aveva ancora pregato di pensarci, perché assieme avrebbero raccattato più soldi. Ma lui era stato irremovibile.
«Coglione» si disse con gli occhi fissi nello specchio opaco e sfregiato.
Decise di andare in cerca di Stella, la donna con dieci anni in più e dieci chili di troppo aveva un debole per lui. Paolo Maria sputò nel lavandino, forse gli sarebbe toccato scoparsela. Ma quello non sarebbe stato un problema.
Svuotò la bottiglia di birra e la buttò nel cesto, raccolse il baschetto, tirò fuori la monetina da dieci centesimi e ficcò in bocca due palline di cioccolata rivestite di caramello verde, accartocciò la bustina di M&M’s ormai vuota e la gettò. Si girò a prendere zaino e pianola, e lo vide.
O meglio, vide una scarpa che spuntava dalla parete che delimitava i cessi. Si avvicinò, l’uomo di mezz’età era steso a terra, aveva il viso congestionato, quasi rosso rubino, e una mano stretta al petto.
Gli occhi erano sbarrati; era morto, lo capì subito. Era malconcio, sporco. Gli pareva di averlo già visto prima.
«Sì, è Devil» disse a voce alta. Di lato a lui c’era una sacca di tela blu, l’aprì, c’erano dei fogli e delle maglie di lana. Cercò nelle tasche e gli tastò il petto, non aveva nient’altro.
Il giovane prese la sacca e uscì in tutta fretta; nessuno entrava in quei cessi, almeno nessuno che fosse a posto con la testa, ma meglio andar via subito e così fece.
Ritornò giù ai binari, andò lontano dalla calca, quasi all’imbocco del tunnel, si sedette a terra e cominciò a rovistare nella sacca blu: due maglie intime di lana ingiallite e infeltrite, un pezzo di pane raffermo, un coltello a serramanico, due giornali del giorno prima, un portafotografie di plastica della Kodak con qualche foto ammuffita, una corda arrotolata e un blocco di fogli bianchi, una penna senza tappo e una busta chiusa. Sulla busta c’erano un marchio: Ali, e un simbolo: un uccello con la testa di uomo. Gli sembrò familiare.
Perché? si chiese.
Il cuore gli fece un balzo, cosa diavolo significava? Girava e rigirava la busta tra le mani senza decidersi ad aprirla; gli occhi azzurri e arrossati ebbero una scintilla, come se d’improvviso gli fosse sovvenuto qualcosa. Doveva risalire al piano di mezzo, rientrare nel cesso e osservare meglio il cadavere.
Si mosse verso le scale mobili, la gente scendeva parlottando in modo allarmato, sentì: poveraccio, sarà morto stanotte per il freddo e la Polizia è già lì. Ritornò sui suoi passi, cercando di nascondere il più possibile la sacca blu. Il treno stava arrivando, si fece spazio tra la calca e con tutto il suo armamentario salì appena le porte si aprirono.












Prima Parte






Subway
Si persero nel mondo
per ritrovarsi nel fondo,
giù giù dove il treno
girava in tondo.
Dove vernici acide
chiazzavano le ombre
e il tanfo riempiva di sudore.
Qualche spicciolo tintinnava
a bucare lo stomaco,
un lembo di donna
appariva in una curva,
guardava cieca sempre oltre.
Il grasso scuro e flaccido
l’impregnava e l’urina
scorreva lenta, lungo
un muro mai più dritto.
Alzarono gli occhi
a sbattere sui metalli,
cercando stelle
che non c’erano.
E la notte non s’alzava mai!

Capitolo primo





L’aria già si appesantiva, infeltrendosi di tanfo e di umori portati da passeggeri frettolosi, ansiosi. Sudori e profumi si mescolavano, ma Argo riusciva a dipanare la matassa e ad attribuire a ognuno il suo aroma. Del resto che poteva fare se non restare ad annusare, steso con il muso sulle zampe accanto al suo padrone?
Il problema era l’odore ferroso che faceva da sottofondo e impregnava tutto, riusciva a confondere persino l’odore del piscio; per questo, a volte, non era in grado di schivare rigagnoli fetidi di urina, e quello era un guaio. Stamattina quest’odore di ferro mi ha fregato, maledizione! pensò.
«Che hai combinato, Argo? Mi hai fatto camminare sul piscio. Sento la puzza che mi arriva al naso, non vedo ma il mio olfatto è intatto. Stai invecchiando, amico mio, siamo bell’e combinati.»
Argo si alzò sulle zampe e poggiò il muso sulle gambe di Omero, così da fargli capire che lo aveva inteso. Il vecchio lo carezzò a lungo tra le due orecchie emettendo sospiri che parevano sbuffi di una locomotiva di altri tempi.
Omero era cieco da quasi vent’anni, nei primi cinquanta della sua vita la vista era sempre stata poca, e alla fine si era spenta lasciandolo al buio e togliendolo dal lavoro. Argo e l’assegno di una pensione appena decente divennero i suoi nuovi compagni. Sicuri e affidabili, certo più di suo figlio che la mattina all’alba lo scaricava all’ingresso del metrò e se ne andava in giro a combinare guai.
«È tutto strano, questa mattina, Omero. Non hai mica visto passare Paolo Maria?»
Argo alzò la testa un attimo, trattenne un po’ di bava ma inutilmente. Appena lo vedeva gli succedeva così. Kostas era un insulso, sempre a temere tutto, a chiedere favori a ognuno e a non farne a nessuno. Un pezzente nell’animo, ecco cos’era, sentenziò dentro di sé.
«Beh, se chiedi a me se ho visto qualcuno, allora sei davvero fuori, ragazzo» gli rifilò infastidito il vecchio.
«L’ho visto alla fermata 24 della linea rossa, armeggiava con quella cazzo di pianola, poi ha richiuso tutto e se n’è salito; è ridisceso e all’improvviso si è infilato in un treno.»
«E allora? Lo incontrerai prima o poi. Cos’hai di così urgente da dirgli?» sibilò Omero alquanto seccato.
Kostas gli faceva saltare i nervi con le litanie dei suoi lamenti. Lui e Argo avevano sempre la stessa opinione su tutto, anche sul giovanotto greco che sfoggiava un fisico da culturista, una voce acuta da femminuccia e movenze ambigue che Omero intuiva dal suo modulare della voce.
«Te l’ho detto che da ieri tutto è strano. Millie parla di un tizio, un ubriaco, caduto per cercare di accarezzare la Sirena. Morto, a suo dire, ma scomparso in un attimo. Stamattina un altro è morto nei cessi. Paolo Maria si è dileguato. Questo è un giorno che non mi piace.»
Argo era intontito dagli effluvi alla pesca dello shampoo dozzinale che aveva reso i capelli del greco ancora più lucidi e fluenti. È a caccia, pensò il cane.
Omero non rispose, l’altro continuò a blaterare ancora un po’ e poi rassegnato se ne scese ai treni.
Omero e Argo stazionavano sempre nel piano di mezzo, allo Snodo, tra la linea rossa e la verde. Il vecchio era seduto su una seggiola che il figlio gli portava da casa, una di quelle pieghevoli, il cane restava accucciato al suo fianco, davanti a loro un cappello di paglia tutto sfilacciato per raccogliere gli spiccioli.
Omero ripensò a Unico, il figlio che chiamava così con l’aria soddisfatta di chi sa di aver limitato i danni. Quel figlio di puttana non lavorava, spendeva i pochi soldi della sua pensione. Se lui non avesse raccattato un po’ di monete ogni giorno, sarebbe finito alla casa dei poveri. Argo la pensava esattamente come lui, a ogni passante metteva su lo sguardo triste e commovente oppure slinguazzava le mani del padrone, così per fare un po’ di scena.
Il cane non era d’accordo sul nome affibbiatogli dal vecchio. Lui era un pastore tedesco, non c’entrava nulla con i cani da caccia, ammesso che il cane di Ulisse lo fosse stato, un cane da caccia.
Ma il suo padrone era fissato con l’Odissea, Argo pensava fosse l’unico libro che avesse letto quando gli occhi gli funzionavano. Perciò tutti lo chiamavano Omero, e nessuno conosceva o ricordava più il suo vero nome. Non solo perché era cieco, lo chiamavano così perché conosceva tutta l’opera a memoria, pareva quasi che l’avesse scritta lui.
Il vecchio cominciò la sua litania. Argo rizzava le orecchie e lo guardava ammirato; nessuno ci faceva caso, però di tanto in tanto qualche spicciolo centrava il cappello.

Sì disse orando e l’udì Palla. Il veglio
Guidava intanto al suo regal palagio
Generi e figli. Giunti, in su gli scanni
Tutti posâr per ordine e sui troni.
Mescea il Re nella coppa a ciascheduno,
A mano a mano, un dolce almo licore
Che la custode nell’undecim’anno,
Dall’urna allora scoverchiata, attinse.
Com’ebbe empiuta Nèstore la tazza,
Libando, i vóti alzò supplici a Palla,
Inclita figlia dell’Egìoco Giove.

Coriandolo era stremata, non mangiava da due giorni, il ciclo la prostrava, perdere sangue e non ficcare niente nello stomaco era una combinazione micidiale. Avrebbe preferito avere già la menopausa, sarebbe stato molto meglio. I suoi cinquant’anni e la vita raminga l’avevano consumata nel corpo ben oltre i suoi anni, ma dentro la sua biologia funzionava ancora come un orologio.
Non poteva certo rubare. Da questo principio non aveva mai derogato. Nei casi estremi si era fatta scopare da qualcuno in cambio di un po’ di soldi, ma era successo tanto tempo prima, quando era ancora passabile e si lavava almeno ogni paio di giorni.
Ora era una crosta, non ci badava nemmeno più agli strati di sporcizia che le imbrattavano la pelle. L’ultima volta che si era lavata era stato circa un mese prima, quando stremata dal freddo e dalla fame era andata dalle suore. Le avevano chiesto di fare il bagno, altrimenti non le avrebbero dato da mangiare. Lei aveva supplicato, implorato che non la costringessero, ma non c’era stato verso. Le suore l’avevano messa alla porta. Aveva ribussato. L’avevano ripulita con una spugna che le era sembrata una retina da cucina, l’avevano massacrata. Tutte le piaghe avevano perso la crosta e avevano sanguinato per giorni. Aveva perso un mare di capelli in quel lavaggio. Una parte della testa era rimasta quasi scoperta, come un cratere malefico.
Coriandolo non ci voleva tornare dalle suore. Doveva trovare un’altra soluzione.
Era così minuta che Geremia, quel maledetto birbante di un vecchio, l’aveva chiamata Coriandolo e se n’era innamorato.
Quanti anni sono che hai tirato le cuoia, Geremia? pensò, sperando di riuscire a ricordare. Ormai negli ultimi tempi i pensieri le venivano in mente e sostavano solo pochi attimi, portandole via un po’ di memoria, come i tre...

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