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Informazioni su questo libro
La città è il luogo comune della nostra vita quotidiana, lo spazio elettivo del nostro abitare. Entro i suoi confini trovano casa le culture politiche e quelle del consumo, la globalizzazione e il precariato, l'esclusione e l'accoglienza, la meraviglia e il terrore.Nelle sue strade si incontrano e convivono innovazione e crisi, integrazione e conflitti, storiche marginalità e nuovi privilegi. Solo attraversandola nelle sue contraddizioni possiamo comprendere il nostro presente. E i suoi molteplici collassi.
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Informazioni
Dentro la crisi. Ripartire dalla città!
Ripartire! Ci sono almeno tre possibili significati, compresenti, in questa maiuscola esortazione. Il primo, il più immediato: ripartire, come riavviare, rimettere in moto, riprendere un cammino – di crescita, di sviluppo, di progresso – che sì è bruscamente interrotto. Il secondo, su cui proveremo in qualche modo a tornare più avanti: ripartire, ovvero ridistribuire le risorse, limitate, che si hanno a disposizione e ridistribuire il peso che una situazione di crisi strutturale di lungo periodo ha caricato sul sistema sociale. Una ridistribuzione che non può non seguire criteri di equità, di giustizia sociale e di tutela delle classi e dei gruppi sociali più deboli. Ma c’è anche un terzo significato che questo infinito invito in qualche modo ci restituisce: ripartire può anche voler dire riavvolgere il nastro. E ritornare sui propri passi, come quando ci accorgiamo di esserci persi qualcosa. Chissà se funziona anche quando ciò che abbiamo perso è il nostro posto nel mondo. Un’esortazione dunque non all’azione, ma alla riflessione. Non tanto un movimento verso il futuro, piuttosto uno sguardo al passato. È questo il significato che abbiamo scelto.
Ma quale bobina dobbiamo provare a riavvolgere? Quale storia dobbiamo provare a ripercorrere? Quale riflessione può aiutarci a comprendere il tempo critico del nostro presente e i suoi multipli collassi?
La nostra prospettiva coincide qui con quella adottata da Jacques Attali nella sua Breve storia del futuro (2006): «La dinamica della Storia è semplice: le forze del mercato controllano il pianeta. Ultima espressione del trionfo dell’individualismo, questa marcia trionfante del denaro spiega la gran parte dei più recenti sussulti della Storia mondiale». È una storia capitalista, la storia del Mercato, dei suoi meravigliosi trionfi e delle sue catastrofiche battute d’arresto, quella da cui dobbiamo ripartire per provare a dar senso all’attuale crisi sistemica in cui sembriamo, irrimediabilmente, impantanati.
E se è una storia del mercato quella che ci interessa, allora abbiamo bisogno, prima di tutto, di una prospettiva economica, di lungo periodo, che fornisca al nostro racconto la sua strutturale trama. A scrivere dunque il master plot della nostra storia è Nikolaj Kondrat’ev con la sua teoria delle onde lunghe (1926): la vita del capitalismo è segnata da un ciclico susseguirsi, nell’arco di intervalli di tempo regolari di circa 50-60 anni, di periodi di crescita e momenti di crisi. La scelta di Kondrat’ev non è particolarmente originale, ma ci serve per definire la cornice di base della nostra ricostruzione: se si guarda alla storia di lungo periodo del capitalismo, immediatamente si deve prendere atto che la crisi non è un’anomalia del sistema, ma una forma regolare di punteggiatura nella dinamica della sua secolare evoluzione. E se la crisi è sistemica, allora uscirne dovrebbe esserne la regola…
Il sistema capitalistico regolarmente ha prodotto le condizioni per la sua crisi, ma sempre ha trovato il modo per uscirne. Possiamo allora trarre qualche insegnamento dal passato? Se guardiamo a quali sono state le azioni, le condizioni e i presupposti che storicamente hanno consentito al sistema di ripartire, di porre fine a un momento depressivo e rimontare sull’ottovolante della crescita, possiamo trovare qualche indicazione che ci aiuti a comprendere il nostro presente? Il destino di una crisi che sembra non finire?
Tempi di crisi…
Per provare a trovare queste risposte, abbiamo però bisogno di mettere in correlazione lo schema strutturale di Kondrat’ev con un’altra variabile, quella dell’innovazione. L’innovazione tecnologica (ma anche culturale) svolge infatti un ruolo determinante per le sorti delle economie capitaliste avanzate. Un solo dato sull’economia industriale degli Stati Uniti restituisce chiaramente la centralità strutturale di questa relazione: tra fine Ottocento e prima metà del Novecento «non più del 15% della crescita stimata del prodotto dell’economia statunitense poteva essere spiegato dalla crescita degli input di capitale e lavoro. L’impressionante ampio “residuo” dell’85% indicava che la crescita economica americana del ventesimo secolo era in stragrande parte dovuta all’estrazione di un maggior output da ciascuna unità di input nel corso dell’attività economica, piuttosto che al semplice aumento degli input» (Mowery, Rosenberg, 1998). Il principale fattore candidato a dare spiegazione di questo impressionante «residuo» è rappresentato proprio dall’innovazione tecnologica.
Che rapporto c’è dunque tra l’andamento ciclico dell’economia capitalista, con la sua regolare alternanza di espansione e contrazione, e i momenti di creazione dell’innovazione tecnologica? Possiamo trovare storicamente qualche costante nel rapporto tra le curve di Kondrat’ev e i processi dell’innovazione tecnologica? Prendiamo un ambito specifico dell’innovazione: le tecnologie della comunicazione. Peppino Ortoleva nel suo Mediastoria. Mezzi di comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo (1995) nota come la storia dei media nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo sia «segnata da periodi “esplosivi”, in cui le innovazioni nel campo della comunicazione appaiono addensarsi e sovrapporsi l’una all’altra […] e periodi che potremmo definire “riflessivi”, nei quali le innovazioni di rilievo sono sporadiche e si hanno invece soprattutto processi di diffusione delle tecnologie già introdotte» (p. 40). Nei momenti esplosivi dunque si crea innovazione nel campo dei media, mentre nei momenti riflessivi l’industria della comunicazione in qualche modo si presenta alla cassa: l’innovazione è messa a regime, e si comincia a riscuotere i dividendi dell’investimento fatto nel periodo esplosivo. Per Ortoleva quattro sono stati i momenti esplosivi che hanno segnato la storia moderna della comunicazione: il primo, compreso tra il 1830 e il 1840, ha visto la sperimentazione del telegrafo e l’introduzione del francobollo, l’invenzione della macchina fotografica e l’utilizzo delle macchine a vapore per modernizzare i processi di stampa tipografica; il secondo, che va dal 1877 al 1895, ha prodotto la lynotipe, gli esperimenti di stereotipia, la macchina da scrivere, la Kodak, il fonografo, il grammofono, il modello cinematografico di Edison (cinetoscopio) e quello, vincente, del cinematografo Lumière, il telefono e la radiotelegrafia; il terzo momento esplosivo, 1920-1935, ha visto la nascita del rotocalco, l’invenzione della telefotografia, il cinema a colori e quello sonoro, le prime sperimentazioni di trasmissione televisiva; l’ultimo periodo di innovazione tecnologica (1975-1995) è stato segnato dall’avvento dei nuovi media, dalla costruzione delle reti di comunicazione e dei linguaggi digitali, da Internet e dal web, dall’informatica e dalla telefonia mobile.
È stato Andrea Miconi (2005) a mettere in correlazione le curve di Kondrat’ev con la tempistica innovativa segnata dai momenti esplosivi di Ortoleva: «se si confrontano i cicli della storia dei media alle onde lunghe, non potrà non sfuggire […] come tutti i periodi esplosivi – proprio tutti – cadano nelle fasi critiche della curva di Kondrat’ev […] è regolarmente nelle fasi di discesa del ciclo, di contrazione dell’economia, che vengono messe a punto le tecnologie del comunicare» (p. 42). Quando il sistema è in difficoltà investe in processi creativi, in innovazione, si arrovella il cervello per trovare nuove soluzioni tecnologiche che gli consentano di uscire dalla crisi. E questo rapporto interessa, come ricorda lo stesso Kondrat’ev, non solo il sistema dei media, ma il mondo dell’innovazione tecnologica tout court: «durante la fase discendente delle onde lunghe vengono fatte […] molte scoperte e invenzioni nel campo della tecnica della produzione e degli scambi, che tuttavia vengono di solito applicate in larga scala nell’attività economica solo all’inizio della nuova lunga fase ascendente» (1926, pp. 57-58).
Sostituendo alle innovazioni “sovrastrutturali” della comunicazione le più dure tecnologie industriali che hanno visto la luce nel corso dei quattro momenti esplosivi individuati da Ortoleva abbiamo conferma della tendenza allo stabilirsi di una correlazione diretta tra i tempi della crisi e i momenti dell’innovazione tecnologica.
L’anomalia è rappresentata dall’ultimo momento esplosivo (1975-1995): l’innovazione nella comunicazione qui per la prima volta è diventata “struttura”. La base del nuovo paradigma tecnologico che offre al sistema la soluzione per uscire dalla sua ennesima crisi e che gli consente di ristrutturare le proprie logiche per rilanciare il proprio progetto di governo del mondo è infatti tutta incentrata sulle nuove tecnologie digitali dell’informazione. Eccola la prima grande discontinuità storica del capitalismo tardo-moderno: «A differenza di qualsiasi altra rivoluzione […] il nucleo della trasformazione che la società sta vivendo con la rivoluzione attuale riguarda le tecnologie di elaborazione e comunicazione delle informazioni. La tecnologia dell’informazione sta a questa rivoluzione come le nuove fonti di energia stavano alle rivoluzioni industriali che si sono susseguite, dalla macchina a vapore all’elettricità» (Castells 1996, p. 30).
Spazi di innovazione…
Finora abbiamo preso in considerazione soltanto il fattore tempo. Cosa succede però se inseriamo nell’equazione che stiamo provando a risolvere anche la variabile dello spazio? Proviamo a farlo arrampicandoci sulle spalle di un altro gigante della storia – economica – di lungo periodo: Giovanni Arrighi. Nel suo Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo (1994) Arrighi individua cinque egemonie, cinque cicli sistemici di accumulazione che hanno scandito la storia del Capitalismo moderno. Gli ultimi due domini di questa signoria, l’imperialismo del libero scambio inglese e il sistema di libera impresa made in USA, coincidono quasi perfettamente con i duecento anni di capitalismo industriale (e post-industriale) che vengono idealmente “coperti” da cinque cicli di Kondrat’ev. Se continuiamo dunque a giocare sulla correlazione tra momenti esplosivi dell’innovazione tecnologica e andamento dell’economia capitalista, collocando sullo sfondo di questa storia i due territori, britannico prima e americano poi, che hanno guidato il sistema del capitalismo globale negli ultimi due secoli, troviamo un’altra coincidenza: quasi sempre, in tre occasioni su quattro, il momento esplosivo si inserisce perfettamente in quella fase cruciale della storia capitalista che Arrighi definisce di «caos sistemico», vale dire in quel particolare periodo di incertezza e instabilità che caratterizza la transizione tra la vecchia e la nuova egemonia (momento che ha inizio con la «crisi spia» del regime dominante e che si conclude con la sua «crisi terminale»). È in queste zone “grigie” della storia, in questo spazio “liquido” in equilibrio precario tra un solido eccesso di ordine e un eccesso gassoso di anarchia, ai «margini del caos» – scrive Christopher Langton (1992) – che i sistemi innovativi, configurati in reti, proliferano.
Per comprendere anche le origini del ciclo sistemico di accumulazione britannica dobbiamo però includere nel nostro orizzonte spazio-temporale anche un altro momento caotico di transizione: quello che va dalla crisi spia dell’egemonia olandese (circa 1740) alla sua crisi terminale (1789). È infatti in questo intervallo di tempo che la Gran Bretagna pone le basi tecnologiche del suo dominio commerciale e si “inventa” la Rivoluzione industriale. Nel 1764 arriva la Spinning Jenny (filatoio meccanico) di James Hargraevs; nel 1776 James Watt inventa la sua macchina a vapore; nel 1779 viene costruito l’Iron Bridge sul fiume Severn, a Coalbrookdale, infrastruttura poi significativamente celebrata nel suo bicentenario «come la prima attrazione della rivoluzione industriale» (Briggs, Burke 2000, p. 139); nel 1803 la carrozza a vapore costruita da Richard Trevithick gira per le strade di Londra. A conferma della straordinaria centralità dell’innovazione tecnologica in quel momento determinante nella storia moderna dell’Inghilterra si assiste in territorio britannico a un rapido e continuo incremento dei brevetti registrati: se prima del decennio 1760-1770 il loro numero annuale «superava di rado la dozzina; nel 1769 ce ne furono 36 e nel 1783 […] si arrivò a 64» (ivi, p. 133).
C’è un altro fattore “spaziale” però che dobbiamo prendere in considerazione se vogliamo capire perché proprio in quel preciso momento storico la Gran Bretagna è stata così capace di generare innovazione. Ed è il fattore urbano. La dimensione dello spazio urbano, la sua centralità (politica, economica e culturale) è inscritta nel DNA della storia del capitale. Questa infatti è sempre stata anche una storia di capitali, direttamente (come nel caso dell’egemonia urbana di Genova) o indirettamente (nei regimi nazionali e continentali della Gran Bretagna e degli Stati Uniti). Ma la città riveste un ruolo determinante anche nei processi di innovazione tecnologica. Tra invenzione e spazio urbano esiste storicamente una sorta di affinità elettiva. Quando Steven Johnson (2010) si interroga, nella sua Storia naturale dell’innovazione, su Dove nascono le grandi idee non può che ritrovarsi, in cerca della risposta, nelle strade, nei luoghi, nel contesto delle grandi città. Nella lettura di Johnson le città rappresentano gli spazi privilegiati dell’innovazione, costituiscono uno straordinario motore di creatività a scala superlineare, si strutturano in architetture della serendipità che, incoraggiando la formazione di ambienti marginali e l’incontro tra culture devianti, favoriscono l’emergere delle nuove idee e l’attivarsi dei processi creativi.
Per definire le condizioni strutturali che hanno consentito l’imporsi della Gran Bretagna come nuova economia egemone del capitalismo mondiale dobbiamo allora osservare lo straordinario processo di crescita urbana che il suo territorio ha vissuto negli anni della sua affermazione: Londra, in particolare, tra la fine del XVIII secolo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Dentro la crisi. Ripartire dalla città!
- Riferimenti bibliografici