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Dialogo sulle emergenze

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Dialogo sulle emergenze

Informazioni su questo libro

Alberto Abruzzese tratta il tema della crisi del presente in chiave sociale e mediologica. Si rivolge innanzi tutto ai giovani che si sentono estranei al significato dei processi educativi e formativi ai quali sono istituzionalmente sottoposti (dalla scuola primaria all'università e alle discipline della formazione); ai professionisti messi al lavoro da apparati di produzione che non si prendono più cura della loro vocazione, della loro personale esperienza e visione del mondo. Infine ai cittadini che si sentono spaesati in un abitare sempre più dilaniato da etiche, estetiche e politiche che frenano il loro accesso ai linguaggi relazionali delle reti digitali, al tempo stesso riducendole a espressione e potenziamento dei vecchi poteri di sempre, soggetti ormai del tutto incapaci di mutare le loro vecchie rotte. [Kolapsoj in esperanto significa collassi]

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Fisionomia del barbaro

Barbaro è detto il balbuziente, colui che non dispone pienamente o addirittura non dispone del tutto delle facoltà di linguaggio del civilizzato in quanto individuo pienamente umano e cioè pienamente in possesso delle qualità che, secondo questo paradigma, renderebbero l’umano differente dall’animale e da ogni altra cosa vivente sulla terra. Il “noi” occidentale che pronuncia la propria distanza dal barbaro – e si allarma quando lo veda riemergere dall’ombra in cui è stato rimosso o relegato o soppresso – è dunque il frutto di una progressiva distanza tra il soggetto politico del mondo e coloro che lo abitano: il terzo assente dalle declinazioni sociali della prima e seconda persona. Il semiologo Jurij M. Lotman si è occupato a fondo di questioni analoghe, che io stesso ho cercato di approfondire altrove. Ragionare sul barbaro – come è percepito e come entra in gioco nello spazio e nel tempo delle civiltà umane – ci aiuta a ripensare la natura dei conflitti, anche se è difficile quanto inseguire la pallina in una partita di ping pong. Lo scambio tra barbaro e civilizzato è istantaneo. L’uno rimanda immediatamente all’altro. Al barbaro è imputata la colpa di non essere un soggetto civilizzato, ma in un certo senso quest’ultimo proietta nel barbaro la paura che egli stesso ha di tornare a essere a sua volta barbaro. Il barbaro è all’insegna dell’esclusione; è un confinato; viene nominato tale in quanto porta in se stesso la colpa di non essere civilizzato; le sue azioni sono colpevoli a fronte delle azioni di quanti si ritengono innocenti (individui che non nuocciono, non fanno danno) e dunque superiori d’elezione e di diritto nell’agire e nel governare il mondo. Nel barbaro, i civilizzati vedono il rischio che, per la sopravvivenza della propria doppia identità di civilizzati e civilizzatori, rappresenta la sua naturale “invadenza”: la sua necessità vitale di invadere l’altro, persona o territorio che sia. In comune al barbaro e al civilizzato c’è dunque la paura che qualcosa di se stessi manchi o venga a mancare. Tanto per il barbaro quanto per il civilizzato le invasioni sono mosse dal desiderio di invadere per non essere invasi. Nel dirsi civilizzatore il civilizzato si prepara a farsi barbaro. Il barbaro non si nomina tale, se lo fa è già un civilizzato e un civilizzatore potenziale: se riconosce nella propria persona un soggetto di barbarie, lo fa trasformando la propria condizione di sopravvivenza in tecnica, in violenza, e dunque riconoscendosi soggetto in conflitto con l’altro che sente resistergli e attaccarlo con eguale violenza. Il barbaro agisce nel nome e insieme contro il nome di chi lo nomina. Scatta, nel dire qualcuno barbaro o civile (civilizzato e civilizzatore), un impulso a dominare l’altro. Questo impulso umano a esercitare potenza sul mondo dipende dal vivere in-divisibile tra civiltà e barbarie. L’una inestricabile dall’altra. Ripeto: l’idea di barbaro dipende in tutto dall’idea di civilizzato e questa dall’idea di barbaro: sono – una in due e due in una – la cultura fondativa del progresso. Del potere in quanto strategia di sopraffazione del proprio nemico. Paradossalmente, della sua stessa necessità. Al fine di impedire che venga oltrepassato il punto di equilibrio tra barbarie e civiltà, il civilizzatore – soggetto di tale equilibrio, o meglio di tale finzione di equilibrio – è disposto ad adottare la stessa violenza imputata al barbaro, è deciso a dichiararsi soggetto depurato di ogni ambivalenza e doppiezza, unica e ultima possibile garanzia di sopravvivenza del potere in quanto civilizzazione, volontà sovrana sul mondo: “al di là del bene e del male”. La vicenda novecentesca del nazismo sta a dimostrarlo.
Il presente della globalizzazione sembra annunciarlo. Misurati sul dritto e rovescio dei canoni dello sviluppo “civile” del mondo, a produrre ora le fluttuanti linee di confine tra civiltà e barbarie sono modelli, canoni, di vita culturale, religiosa, sociale, etica ed economica, per quanto quest’ultima abbia sempre piú una sua particolare e terribile forza invasiva su tutti gli altri modelli e ne sia sempre piú il regista, il burattinaio. Questo è il nostro finale d’epoca, il “momento critico” di relitti e derelitti del tempo e dello spazio della civilizzazione che invadono, accerchiano e penetrano al proprio interno e al loro esterno: sono percepiti come barbari tanto da chi è disposto o crede di essere disposto a includerli, magari per farli fruttare nel corpo esangue della civiltà occidentale, quanto da chi li esclude credendosi ultima barriera di difesa dei vecchi regimi della modernità. È il “momento” di profondi rigurgiti di una civilizzazione che precipita nelle forme di imbarbarimento di cui si è sempre immaginata – e ha preteso di farsi immaginare – esente. Di generazioni che hanno voluto e dovuto convincere e convincersi di una natura umana buona e compassionevole, misericordiosa, a fronte dei soprusi della società, del capitalismo e dell’economia. E di altre generazioni in cui la civiltà delle nazioni e popoli garantiti dalla storia dei vincitori è ancora una terra da raggiungere, un futuro da costruire, un destino da condividere. O di imperi nascenti in nome di altri dèi e dunque di altri costumi e valori. Di altra violenza. Ogni distinzione tra barbaro e civilizzato sarà sempre meno “chiara”. Questa è l’ombra emersa sul mondo attuale: la rivelazione della tragedia incarnata nella commedia umana di una tale “ingiusta” – ingiustamente “naturale” – distinzione. In Punto zero ho parlato di “crepuscolo dei barbari” proprio in questo senso: nella con-fusione non piú distinguibile del crepuscolo – l’intervallo tra il prima del sorgere del Sole e il dopo del suo tramonto – il tempo della dialettica trascolora. Sprofonda. Si perde.

I barbari e la società del documento

È la stessa soggettività della civilizzazione come atto di necessario sterminio di ciò che le resiste a perpetrare il proprio crimine su se stessa in quanto forza legiferatrice, ordinatrice di colpe e di pene. Per sopravvivere a se stessa è obbligata a divorare se stessa (a partire a questa sua natura, sarebbe bene riflettere con minore retorica sul principio di “responsabilità” del quale, pur con ogni buona intenzione, si tende a fare cosí grande uso). Benjamin è maestro in veggenza nel suo stesso conferire uno straordinario fascino alle meraviglie del progresso, fascino proporzionato alle rovine che esso si lascia alle spalle. “Non lasceranno in pace nemmeno i morti”. Questa frase è illuminante. Appunto preveggente. L’immaginario dell’industria culturale di massa è sempre stato dotato di una eccezionale forza rivelatrice. A parte l’insistenza con cui è andato sviluppando la simulazione di scenari catastrofici sempre piú ravvicinati nel tempo – mondi in cui la differenza tra “case del potere e della bellezza” e “case della desolazione” si compenetrano in una stessa barbarie di sudditi e sovrani, di piacere e sofferenza – è caduta non solo ogni linea di confine tra razionalità strumentale dei moderni e follia, caos, ma è caduto anche ogni confine naturale tra la vita e la morte. Lampante la frequenza con cui è trattato il tema dello zombie. Per una ragione in particolare: il fatto che se ne parli al plurale, dicendo “gli” zombie invece che “lo” zombie. Significa che c’è nell’immaginario una pulsione a ricostruire come società le rovine stesse della sua vita passata, estinta: a dare un futuro di “individui”, e dunque una dialettica del potere e del conflitto, ai morti che “ritornano” dalla qualità indistinta e muta della morte, dal mondo senza piú linguaggio ma purtuttavia vivente del “fango”.
Credo che sia da guardare con massima attenzione ai motivi per cui la fiction operata da linguaggi non-alfabetici, “analfabeti”, sta riuscendo a trattare pubblicamente, di continuo e su vasta scala, rappresentazioni del mondo cosí rivelatrici (appunto apocalittiche). Cosí sociologicamente e filosoficamente pregnanti. Per quanto sia la scrittura (romanzi e sceneggiature) a fornire di contenuti le immagini dell’industria di massa, la potenza delle immagini – tanto piú fantasmagoriche quanto piú numeriche – va operando in una direzione che le modalità espressive del sapere scritto e letto non possono piú eguagliare.
È nelle forme di produzione, fruizione e riproduzione dell’immaginario che sta accadendo qualcosa di fondamentale: di cosa sia e stia diventando il mondo; di come si percepisca il nostro presente e il nostro futuro: si parla saltando e “tagliando” tutte le complesse operazioni che appesantiscono il discorso scientifico, storico, sociologico, filosofico affidato alla scrittura e alle tradizioni del libro. Si tratta in sintesi di piattaforme espressive che trasmettono la propria verità in quanto verità del desiderio. È il desiderio a consumare le immagini in modi che si avvicinano alla natura indecifrabile, subliminale, del sacro, lasciandosi alle spalle i vincoli religiosi e sociali che lo hanno oscurato. Di fronte a questa svolta sempre piú evidente, i modelli di sapere istituzionali – scambiando il problema del sapere umanistico con il conflitto tra scienze dure e scienze umane – rivendicano la necessità che le forme di produzione e consumo del “significato emotivo” del mondo che abitiamo recuperino le qualità razionali dei linguaggi tradizionali. Al contrario bisognerebbe convincersi dell’urgenza di procedere in direzione opposta, rovesciata: a dovere riuscire a semplificare i propri apparati in modo da rispondere direttamente alla complessità in cui siamo immersi e in cui si è chiamati ad agire, sono proprio le piattaforme espressive della scrittura e delle conoscenze di cui essa è strumento (non di rado, anche il solo fine). La scrittura sapienziale s’è accumulata, aggrovigliata sino a essere inestricabile, sino a dovere ricominciare sempre di nuovo dal principio, oppure sino a divulgare questa sua stessa sconfitta – paradosso di una civilizzazione fondata sulla promessa e certezza di felicità – in una testualità sempre piú semplificata. Inutilmente e dannosamente semplificata persino a fronte dei suoi meri fini utilitaristi. Infatti, l’opposizione tra cultura alta e divulgazione non può funzionare nell’immaginario catastrofico contemporaneo in quanto esso è indifferente alle tradizionali gerarchie tra sapienti e ignoranti. Semmai, l’intensità emotiva, psicosomatica, dell’immaginario di consumo è una forma di critica, di decostruzione istintiva e rituale, che tende a scardinare l’individuo dalla corazza del proprio ruolo sociale ricomponendo la “persona” che tali gerarchie hanno storicamente e socialmente diviso in padroni e servitori. Dalle rispettive opposizioni tra educazione scientifica e divulgazione si dovrebbe passare a una mossa congiunta tra processi dis-educativi e processi de-vulgativi.

La mossa del cavallo

Dato il brevissimo intervallo di tempo che divide la vita di Benjamin da quella di McLuhan (pur cosí diverso par varie buone e cattive ragioni), ho sempre pensato che quest’ultimo sia stato in certa misura la reincarnazione del primo. Sicuramente per il metodo e per la spregiudicatezza, l’azzardo, e a volte persino il carattere enigmatico che faceva del loro discorso una sorta di “approssimazione”: un sapere approssimativo nel senso di avvicinamento al nodo reale della realtà. Un invito a pensare molto oltre e molto lateralmente alla propria scrittura, pur cosí assertiva, fulminante. Per quanto siano altri gli autori che si citano a tale proposito, Benjamin e McLuhan sono stati eccelsi mediologi della “vita quotidiana”, con uno scarto – nel loro rispettivo orientamento della ricerca – che richiama quello tra Edgar Morin e Michel de Certeau. Del significato che assume la velocizzazione del mondo a opera del rapporto tra desiderio e tecnologia, ha parlato il libro di Alessandro Baricco (I barbari. Saggio sulla mutazione, 2013), al quale nel mio Punto zero ho dedicato varie pagine perché, pur costituendo uno dei migliori recenti contributi sull’argomento, è paradigmatico per il suo modo di vedere nel barbaro le qualità del civilizzatore ma senza definire una adeguata distanza critica dal civilizzato. La “mossa del cavallo” è il gesto necessario a ogni mutazione. L’andare lateralmente per andare dritto. La ferita che tocca infliggere e infliggersi per progredire nella propria “vocazione”. Leggendo Benjamin e McLuhan ci viene fatto capire che la velocizzazione della vita quotidiana a opera della soggettività tecnologica dei moderni mette in gioco il barbaro in quanto discontinuità del civilizzato: il dispositivo ha funzionato per le avanguardie storiche e queste hanno funzionato per l’industria culturale di massa. E ora?
Bisogna avere paura della velocizzazione? È piú facile rispondere rovesciando la domanda: è la paura del soggetto moderno di perdere il controllo sulla vita quotidiana – su una vita quotidiana che sembra liquefarsi tra le sue mani – a farlo precipitare verso il proprio destino per mezzo di una eccezionale accelerazione delle sue stesse forme espressive? A questa domanda credo che si debba rispondere affermativamente. E includerei nella paura del soggetto moderno le paure delle singole persone che lo abitano: la paura quotidiana di perdere terreno o di essere invase riguardo alle piccole cose della vita pubblica e privata, familiare e istituzionale, interiore e esteriore. Tutte le retoriche con cui letteratura e filosofia hanno affermato l’ideologia della “lentezza” sono falsa coscienza, e come accade per ogni eccesso di falsa coscienza, non fanno che accelerare ciò che vorrebbero frenare. Non fanno che andare all’origine della voragine temporale dell’identità. Sta qui – sul tempo dei mutamenti, sulla implicazione che essi hanno in campo politico – la questione che attraversa il dibattito presente tra chi vede nell’avvento delle reti l’imbarbarimento della società oppure la liberazione dai suoi vincoli, la rivoluzione dei suoi valori: la Civilizzazione “vera” in virtú del suo “giusto mezzo”. Credo che a tale proposito sia necessario convincersi che i giudizi sulla natura positiva o negativa degli effetti delle reti siano misurati sull’idea – tipicamente moderna, progressista e civilizzatrice – di rivoluzione (azione politica tanto radicale da permettersi, grazie allo stato di necessità che la ispira, persino la revoca e sospensione delle sue qualità piú umane e umanitarie). Mutamenti dall’oggi al domani, da uno stato di diritto a un altro; da una condizione di vita a un’altra. Idea, questa, peraltro alimentata dai ritmi dello sviluppo industriale a fronte delle epoche precedenti, oggettivamente assai distante dalla specifica qualità delle mutazioni antropologiche che caratterizzano l’abitare in rete: mutazioni che, in qualità se non in durata, richiamano invece i transiti plurimillenari dal regime dei raccoglitori al regime delle culture stanziali. E via procedendo.

Alterità e diversità

L’alterità non muta la sostanza, è la diversità a metterla in discussione. Una distinzione fondamentale è proprio quella tra il corpo, fisico e sociale, di un individuo e la carne che lo attraversa dell’interno all’esterno e viceversa: ci sono pagine di Roberto Esposito che mi hanno aiutato a comprendere meglio il significato di questa distinzione e a ritrovarla già pienamente realizzata in McLuhan, in cui la carne costituisce anche le rete di relazioni digitali in cui il corpo è immerso, spingendosi bel oltre la propria pelle.
La frase (piú una sentenza e dunque brusca) “quello dei diritti civili è un campo dove è la sofferenza degli altri a fare da concime” vuole dire che i diritti procedono a prezzo di altri diritti: nasce proprio dalla scarsa mia convinzione sulle retoriche – apparentemente post-moderne e anti-moderne – sull’altro, scritto con “a” minuscola o maiuscola che sia. Ogni gioco sull’alterità che ci resiste o che tentiamo di negare, per quanto sia il frutto di una nobile e forse “utile” letteratura, a me sembra perfettamente organica al soggetto moderno, al suo progetto. Le analisi simmeliane e benjaminiane sulla metropoli e sullo “straniero” – il quale arriva ad abitare la città dall’esterno delle sue mura di cinta, là dove s’apre lo spazio di foreste, deserti, belve e disordine, diventando proprio grazie alla sua alterità soggetto propulsore della civiltà urbana – mi sembra bastino a cogliere i travestimenti ideologici che il soggetto moderno è stato capace di realizzare proprio in virtú e per mezzo di tutto ciò che gli si oppone.

Reti e imperi

Non è facile distinguere nelle turbolenze del presente tra processi disgregativi e processi di ricomposizione della modernità, tra processi rigenerativi e generativi dei suoi valori e dei suoi mezzi. Paradossalmente, si potrebbe dire che quanto piú lo spirito moderno dovesse uscire dalla stretta in cui si è chiuso, tanto piú sarebbe per cosí dire costretto a potenziare la propria tragedia invece del suo desiderio di pacificazione: e qui mi riferisco alla svolta presente e piú ancora futura del capitalismo finanziario con la sua determinazione, volontà, di distruggere ogni istituzione della società moderna. Certo è che la volontà di potenza che si manifesta in questi processi costituisce anche le ragioni di una sempre piú forte usura e stanchezza della natura umana. La tecnologia delle reti costituisce l’unico versante radicalmente positivo – meglio dire oggettivo – di civiltà sempre piú stanche di se stesse o di culture emergenti in quanto sempre piú rapite in vortici simili a quelli che l’occidente ha consumato. La rete è al momento il teatro in cui le persone singole vanno esprimendosi negli spazi intermedi, liminari o nodali, tra chi se ne serve in termini di vecchi e nuovi poteri.
Le reti – i social network, facebook e quant’altro di virtuale e interattivo – rendono visibile le dimensioni di due opposti movimenti: sciami dal basso verso l’alto e informazioni dell’alto verso il basso. L’impero che, rispetto ad altri imperi calanti o nascenti, è piú consapevole della propria decadenza, del suo tempo scaduto, a rischio, è quello della cristianità. La pregnanza simbolica che hanno assunto Ratzinger e Bergoglio riguardo alla salvezza del genere umano, dimostra quanto questi movimenti dal basso e dall’alto possano sovrapporsi per contrasto. Il problema – la cosa che viene avanti – in ogni annuncio di Bergoglio al popolo dei credenti e dei non credenti (un impero è tale perché si ritiene sovrano anche al suo esterno) risulta sempre piú chiaro: mira alla ricostruzione dal basso del potere di dio mediante la chiesa degli esseri umani. Mentre invece Ratzinger è il papa che annuncia la rigenerazione di dio mediante la restaurazione della potenza universale della sua chiesa. Due immagini di uno stesso prisma: quella umana, intrisa di vita quotidiana e sottoposta al vento del tempo e quella celeste e insieme antidiluviana dell’Anticristo in quanto potenza che precede la salvezza.

La sofferenza del soggetto

Condizione antropologica ineludibile è la necessità per ciascuno di sopravvivere attraverso l’infelicità di qualcun altro. Dico necessità in quanto ineludibile condizione di bisogno di cui si nutre ogni essere vivente, ogni organismo. Quella condizione conflittuale, sino all’ultimo sangue, che la civilizzazione ha creduto di potere contenere sotto il manto di dispositivi di potere in grado di governarla, controllarla e asservirla. Vorrei evitare qualsiasi confusione con i principi di carità laica o cristiana che appunto dalla sofferenza altrui – del vicino che non gode dei tuoi stessi beni – fanno dipendere la propria visione del mondo e le proprie azioni, limitandosi a una propria militanza personale e/o a una propria partecipazione politica. In opposizione all’altruismo, quanto può apparire scandaloso mettere in primo piano la sofferenza a partire dal proprio esclusivo interesse? Persino le sacre scritture alludono a questo rovesciamento (“am...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Premessa
  5. Fisionomia del barbaro
  6. I barbari e la società del documento