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Scrivere
Formarsi e formare dentro gli ambienti della comunicazione digitale
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Informazioni su questo libro
Grazie ai dispositivi digitali lo scrivere è oggi alla portata di tutti. Mai come adesso l'accesso alla scrittura è stato così diffuso. Bisogna riflettere, e farlo seriamente, su questo stato di cose. Intanto sarebbe bene riconoscere che il verbo 'scrivere' non è intransitivo, usarlo senza indicare che cosa si scrive significa negare l'ampia varietà delle attuali pratiche scrittorie. Poi va riconosciuto che la compresenza in ciascuno di noi di comportamenti di scrittura di tipo fisico, o terrestre, e di comportamenti di scrittura virtuale, o acquatica, sollecita a pensarci, educarci ed educare in quanto esseri anfibi, capaci di vivere e praticare la scrittura nei diversi ambienti e con le relative grammatiche.
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Informazioni
1. Machiavellismi
“Io sto in villa e quale la vita mia vi dirò”. Nel rispondere all’amico Francesco Vettori, ambasciatore presso il Sommo Pontefice, che gli dice delle sue alte frequentazioni romane, Niccolò Machiavelli scrive di sé e di come trascorre le giornate, “confinato” al podere dell’Albergaccio sotto l’accusa di aver preso parte alla congiura contro i Medici.
La lettera, datata 10 dicembre 1513, è famosa per due ragioni: sono quelle che mi invitano a iniziare di lì un ragionamento sulla realtà e le prospettive dello scrivere che si aprono per noi, oggi, immersi come siamo, lo vogliamo o no, dentro l’universo digitale.
Nella lettera Machiavelli fa cenno a un opuscolo, in via di composizione, dove si disputa del potere: “che cosa è principato, di quali spezie sono, come e’ si acquistano, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono”. Sarà Il Principe, come sappiamo.
Inoltre dà alcune indicazioni che, se intese per bene, permettono di inquadrare la genesi di una scrittura destinata a diventare modello per la futura scienza politica, all’interno della quale ogni argomento dovrebbe innestarsi sull’analisi della “realtà effettuale”.
Ritengo che questo secondo aspetto meriti una particolare attenzione, per via del ruolo che la lettera riconosce all’attività del parlare e dell’ascoltare; e poi dello scrivere.
Entro dunque nei particolari.
La mattina, racconta Machiavelli, gli capita di partecipare ad accese dispute tra i boscaioli e si trova pure coinvolto, in quanto proprietario di una tenuta, in litigi con gli acquirenti dei legnami. Poi, intervallando queste esperienze vive con la lettura di poeti (“ho un libro sotto”) e così rivivendo le altrui e le personali “amorose passioni”, si intrattiene con i viandanti che incontra per strada, e chiede loro dei paesi di provenienza: “parlo con quelli che passano... intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini”. A fare da sfondo a simili frequentazioni, così diverse da quelle curiali del suo corrispondente (e di cui egli stesso aveva avuto ampia esperienza prima dell’esilio), c’è il bosco, c’è la strada e, infine, in un crescendo “gaglioffo”, compare la taverna. Lì staziona un’umanità ancora più diversa e varia: sono “l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai” coi quali giocare a carte o ai dadi, tra innumerevoli, inevitabili ingiurie e litigi.
Così va la giornata, per come Machiavelli la racconta al suo corrispondente.
La sera, col ritorno a casa e allo “scrittoio”, smessa “quella veste cotidiana” e messi “panni reali e curiali”, il parlare e l’ascoltare cambiano di registro: “entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro”.
Provo ora a tirare le fila.
Da una parte, e alla luce, stanno i dialoghi esperiti dentro i mondi vissuti; da un’altra parte, nelle tenebre, sta il dialogo con e dentro i mondi dell’immaginazione.
Di questa distinzione, che a un primo approccio sembrerebbe corrispondere alla differenza che intercorre tra l’oralità degli scambi reali e la scrittura degli scambi virtuali, è lecito dare due diverse interpretazioni.
La prima è la più diffusa, anche in ambito scolastico, ma è anche quella che meno serve al discorso che intendo sviluppare qui. La seconda invece (la trovo proposta, recentemente, anche da Sandro Landi in Lo sguardo di Machiavelli. Una nuova storia intellettuale, Il Mulino, Bologna 2017) si rivelerà particolarmente utile, nella sua paradossale attualità.
Vediamo perché.
C’è, nella lettera, un evidente “stacco” che separa i dialoghi diurni da quelli serali. Lo cogliamo sia nella diversa qualità dei fatti riportati sia nella diversità della lingua usata per darne conto.
Tutto sta a capire se esso davvero istituisca ed evidenzi, come generalmente si crede, un confine netto e insuperabile tra l’universo del rumore e quello del silenzio: dunque tra una parola sonora, rozza e confusa, destinata a morire appena prodotta, senza che lasci una traccia significativa di se stessa, e una parola visiva, nobile e limpida, destinata a sopravvivere, a permanere.
Tra chi discute di questi argomenti, anche indipendentemente dalla questione Machiavelli, la differenza fra oralità e scrittura è spesso vissuta e interpretata come uno stacco irriducibile, difficilmente colmabile, addirittura esistenziale. Dispersione e dissipazione starebbero su un fronte, fissazione e codifica sul fronte opposto: la volgarità che abbruttisce, da una parte, contro la cultura che eleva, dall’altra; là il suono evanescente, qui la scrittura permanente. Questa è tuttora l’idea più diffusa riguardo lo scrivere e il rapporto che esso intrattiene con il parlare.
In considerazione dei suoi aspetti generali, che vanno ben al di là del confronto sulla lettera di Machiavelli, e che la fanno essere una chiave complessiva di interpretazione della realtà, la chiamerò qui, per comodità, ipotesi M1.
È possibile dare un’altra interpretazione di quella differenza? Sì, è possibile. Forse è addirittura doveroso, soprattutto se intendiamo muoverci al di là dei rigidi schemi scolastici e vogliamo leggere il presente alla luce del passato. Ma un simile abbozzo di ragionamento vale soprattutto nella prospettiva, che propongo qui, di cogliere e valorizzare elementi di continuità tra una cultura per lo più intesa “a bassa definizione” e una intesa “ad alta definizione”: la scrittura potrebbe, dovrebbe garantire quegli elementi di continuità. Ma come?
La lettura più diffusa dello “stacco”, l’abbiamo fissata or ora, muove dall’esigenza di presidiare quel confine: il parlare del volgo e col volgo, da una parte, e il parlare delle scritture e con le scritture, dall’altra; il buio dello spirito che è proprio dell’ora diurna, e la luce dell’intelletto che illumina l’ora serale. Due mondi più che diversi, due mondi opposti. Però analizzando con più attenzione e meno pregiudizi la lettera possiamo trovare elementi che autorizzano un modo diverso di intendere la differenza.
C’è prima di tutto quel “noto”, che ha per oggetto “i gusti e le fantasie” dei passanti e viene dopo il parlare, il domandare, l’intendere: vale come un “annoto” che rimanda a una sorta di registrazione mentale, sintomo e preludio allo scrivere o addirittura scrittura stessa, sia pure interna.
È difficile poi non cogliere, nei litigi tra venditori e acquirenti, negli incontri con l’umanità itinerante, e pure nei giochi brutali di taverna, una propensione tutta umana dell’uomo Machiavelli ad adattarsi alle diverse situazioni ed entrare in un contatto non solo esteriore con l’altro. E questo vale come espressione di una disponibilità mentale e per così dire “sensitiva” a un impegno di indagine che, a sua volta, si sviluppa attraverso la continua interazione tra dialogo e scrittura, come si evince da quel libro di poesia sempre disponibile. Ecco allora che il parlare serale con “gli antiqui huomini” e il “domandarli della ragione delle loro actioni”, senza vergognarsi, comincia ad apparire come un legittimo spostamento di prospettiva all’interno però dello stesso campo: quello dove, appunto, dialogo e scrittura si rapportano tra di loro, e dove l’uno e l’altra hanno un valore a un tempo reale e metaforico. Di questo scambio potrebbe essere sintomo ulteriore quel “io non mi vergogno parlare con loro” rivolto esplicitamente agli autori delle scritture contattati nelle ore serali, ma indirizzato implicitamente anche agli “humani” contattati di giorno nel contado.
In una simile prospettiva la lettura, lo scambio orale e pure l’alterco stanno dentro gli orizzonti comuni di una “conversazione” necessaria a elaborare conoscenza, e a fare di quelle esperienze “scrittura immaginativa”, cioè testo elaborato.
Passando da un ambiente all’altro, da contesti reali a contesti immaginati, Machiavelli intende ugualmente e positivamente immedesimarsi nelle situazioni ed elaborare risposte ai medesimi interrogativi: l’approdo sarà comunque una scrittura, vale a dire l’espressione manifesta e codificata di uno “sguardo laterale”, ma denso, sulle cose, sugli uomini, sui pensieri.
L’idea di una scrittura non separata, non in conflitto ma in continuità con l’oralità e in costante dialogo con essa, è ciò che intendo contrassegnare, qui, come ipotesi M2.
Ci dovrebbe aiutare a cogliere con più attenzione di quella che generalmente vi si dedica il quadro dentro cui collocare il problema attuale dello scrivere. Servirà anche a individuare le risorse per affrontare una situazione che di “crisi” certamente è, ma dove il cambiamento non necessariamente dev’essere inteso, soltanto, come una irreparabile perdita.
2. La taverna e lo scrittoio
Veniamo dunque a noi, nell’oggi.
Lo scenario non potrebbe essere più diverso, rispetto a quello appena visto. Basti pensare alla distinzione tra campagna e città, così netta là. Oggi non ce n’è più traccia. Dentro l’Albergaccio troviamo adesso Firenze e Roma, e gli attori della nuova scena sono molto più simili, tra di loro, di quanto non erano quelli di allora. Sono urbanizzati, infatti. Lo sono tutti. Anche chi vive fuori città è cittadino, per via dell’insieme di media (stampa, radio, tv, internet) dentro cui risulta comunque inserito. Sul piano storico città e scrittura nascono assieme e si rinforzano vicendevolmente, come manifestazioni del medesimo bisogno collettivo di tracciare e vivere il mondo.
Usiamo tutti scrittura, ora, perché siamo tutti cittadini, e viceversa.
Se ai tempi della lettera di Machiavelli poteva avere un senso, ma questo è tutto da provare, che in sede di analisi si distinguesse nettamente l’orale dell’incontro diretto dallo scritto dell’incontro mediato, oggi tenere in vita una simile cesura esplicativa, e intenderla come uno “stacco” incolmabile, rischia di agire non già come aiuto a capire le cose e i problemi quanto come invito a scivolarvi sopra. Nella sostanza, è questa la tesi che vorrei poter mostrare e dimostrare con il proseguimento di questo mio discorso.
Il tema della “continuità” orale/scritto può risultare tanto più significativo quanto più prendiamo atto, appunto, che nel tessuto urbano non “ci vergogniamo” – uso l’espressione di Machiavelli – di avere contatto l’uno con l’altro e di esprimere questo contatto attraverso la forma di una parola e di un gesto “urbani”, distanzianti o “laterali”, certamente, ma non sprovvisti dei germi di una potenziale parola “corporea”. Tanti e tali sono gli incontri casuali cui siamo esposti nella vita quotidiana della città da rendere necessaria, per ognuno di noi, la costruzione di una sorta di scafandro di protezione del proprio sé e della propria identità: uno scafandro fatto di maschere mobili e intercambiabili, prodotte anche dalla forza simulativa della scrittura, ma che non ci dà costante e assoluta garanzia. Incrociamo incessantemente avventori e viandanti, strade facendo. E noi stessi figuriamo ai loro occhi come viandanti e avventori. Capita, talvolta, che le maschere cadano, o perché individuiamo un senso o perché l’altro ci spinge a individuarlo. E allora comunichiamo, interagiamo, colloquiamo direttamente. Insomma, l’orale (e con esso la vita) è sempre lì, alla nostra portata.
A tutto ciò va aggiunto un elemento che non è certo di poco conto, anche se spesso viene trattato come sprovvisto di valore.
Ed è il fatto che tutti o quasi, oggi, e qui in Italia in misura perfino superiore di quanto non è altrove, pratichiamo scrittura continuativamente, grazie ai dispositivi digitali di cui disponiamo (i cellulari in circolazione sono più di noi, numericamente parlando), e lo facciamo anche per svolgere funzioni e comunicazioni che fino a ieri mettevamo in atto soltanto tramite scambi diretti.
Il Machiavelli di oggi, cioè lo studioso (insegnante, giornalista, romanziere, scienziato che sia), non è il solo a nutrirsi e servirsi di scrittura, ma scrivono pure i corrispettivi attuali del boscaiolo e dell’oste. Né andrebbe ignorato che l’esperienza di scuola, che è ormai universale, vale, almeno in linea di principio, come traduzione in termini contemporanei di quel rituale spogliarsi di una veste “piena di fango e di loto” per vestire “panni reali e curiali”: è o dovrebbe essere il luogo dove la frequentazione delle scritture e della sapienza a esse collegata contribuisce a illuminare il buio dell’insipienza.
Quale condizioni migliore di questa ci potrebbe dunque essere perché tutti noi si sia come Machiavelli, e ci si comporti come lui, ciascuno evidentemente e liberamente esercitando un suo personale rapporto fra il dialogare, il notare e lo scrivere?
Insomma, in teoria quella che stiamo vivendo sarebbe la situazione ideale perché ciascuno di noi arrivi a essere un individuo capace di trarre nota, e poi scrittura, dagli scambi conversazionali della “villa”: includendo, tra questi, gli scambi casuali, infinitamente di più di quelli di un tempo (se riesce a procurarli e ricavarne un frutto), e, ancor più, gli scambi che in un numero elevatissimo egli, se è “uomo di mondo”, esperisce senza interruzione con la normale frequentazione degli universi contigui e socialmente densi della comunicazione di rete. Mettendo assieme le conversazioni volute e quelle capitate, gli scambi dialogici del mondo fisico e quelli delle comunità di rete, di materia tramite la quale impegnarsi a interagire con l’universo delle scritture ne avremmo in abbondanza. In linea di principio è così. Di fatto no.
Provo a dirlo in diverso modo.
Ogni cittadino del mondo presente, e dei mondi inscritti nel suo presente, ha a portata di mano, e di nota (dunque di “annotazione”), un repertorio infinito di situazioni, incontri, interazioni, oggetti, parole: sono materiali che egli potrebbe “marcare” e portare all’incontro con le scritture ufficiali (“delli antiqui huomini”, e non solo) sì da arrivare a produrre, autonomamente, una sua personale scrittura “alta”. Alta perché pensata e realizzata nel rispetto delle caratteristiche che all’occhio del lettore garantiscono comunicabilità e funzionalità del testo scritto: vale a dire la coesione logica e la coerenza semantica degli elementi che lo costituiscono. Alta sì, cioè formalmente ineccepibile, ma non formalistica, non totalmente astratta e decontestualizzata, non carente di umori e vita; altrimenti che scrittura sarebbe e chi la leggerebbe? Alta anche e soprattutto perché posta, dal suo generatore, in contatto continuo e fecondo con la nebulosa di provvisorie marcature o protosegni che in lui produce l’esercizio degli sguardi laterali sui mondi d’esperienza.
Riconosciamolo apertamente. I casi in cui, nei media o negli scambi di vita quotidiana ma anche nei contesti più elevati e istituzionalizzati di riflessione sui comportamenti comunicativi, compare il riferimento al tema dello scrivere e i modi collettivi con cui si tende a pensarlo sono ben lontani dal corrispondere a simili prospettive.
Per provarlo basterà riflettere attorno all’atteggiamento più diffuso nei confronti del problema del “saper scrivere”.
Frequentemente avviene, infatti, che l’etichetta di “scrittura” e il riconoscimento della sapienza e competenza a essa collegate siano riconosciute soltanto a un qualcosa che aspira a porsi al di là di questo rapporto di continuità con la vita, e ad alimentarsi esclusivamente di altre scritture, altrettanto disgiunte dall’opaco “mondo reale”. La necessità, così sentita, di far deporre i panni mondani per assumere quelli curiali, dimenticando o addirittura cancellando i primi, è coerente con una rappresentazione dei rapporti fra esperienza e scrittura più sbilanciata sul versante della discontinuità (ipotesi M1) che su quello della continuità (ipotesi M2): lì, in quella separazione, la scuola (o meglio, la più pervasiva immagine di scuola di cui disponiamo) tende a identificare e riproporre, secondo tradizione, la sua prioritaria e pressoché indiscussa missione educativa.
Alla luce del ragionamento che sto sviluppando non sarebbe del tutto illogico riconoscere e denunciare, in un simile modo di vedere e trattare le cose, che dalla scuola si irradia a buona parte della società, il residuo di una concezione aristocratica e intellettualistica della cultura: prospettiva quanto mai lontana dall’esigenza, che invece dovrebbe essere dell’oggi, di promuovere la democratizzazione del sapere e saldare il vincolo che stringe conoscenza, esperienza e scrittura. Se ci si convincesse di questo, cioè dei limiti di ciò che tanti si trovano a pensare (soprattutto quando non pensano, perché questa è la forza delle cosiddette “ideologie dominanti”, presentare un contenuto di pensiero come evidente), il dover fare i conti, e seriamente, con i presupposti logici ma anche con i condizionamenti materiali che danno legittimazione e autorevolezza alla sopravvivenza materiale e ideologica di quel modo di credere e di agire diventerebbe un impegno politico di grande importanza e urgenza.
In gioco, in tutta questa faccenda, non c’è solo l’idea collettiva di scrittura: ci sono le realtà e le immagini che la collettività associa a scuola, a cultura, a società.
Intendiamoci, però.
Non voglio negare la “diversità” di una scrittura elaborata, di livello elevato, rispetto alle pratiche scrittorie di tipo empirico e immediato o ai provvisori scambi di parole, sia pure scritti, del tipo di quelli che si realizzano dentro le comunità di rete. Tanto meno intendo disconoscere il fatto che la scuola debba assumere lo sviluppo e l’esercizio di una produzione scritta di tipo sofisticato come suo irrinunciabile obiettivo formativo.
Desidero invece sollecitare chi si interroga sul tema del saper scrivere a individuare, prima di tutto, la molteplicità e varietà dei tratti distintivi di un sapere scrittorio il quale presenta oggi, molto più di un tempo, quantità ed eterogeneità di manifestazioni: queste non coincidono tutte, ma variamente si collegano, e non solo in termini negativi (come vuole l’ipotesi M1), con la produzione di scrittura che di solito consideriamo giusta e corretta, vale a dire la scrittura complessa e formale di tipo “alto”. Una simile apertura mentale dovrebbe metterci nelle condizioni di valorizzare le istanze di rispetto della logica e del senso che sono connaturate ai tratti distintivi della scrittura “colta”, ma, nello stesso tempo, ci aiuterebbe a evitare che se ne faccia dei dogmi e li si confini, così come troppo frequentemente avviene, dentro gli spazi rarefa...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- 1. Machiavellismi
- 2. La taverna e lo scrittoio