8 febbraio 1849: la parola
Su una cosa Farini aveva certamente ragione: Bonaparte non era normale. La sua logorrea era inarrestabile, ineluttabile, una forza scatenata della natura. Era evidente che spesso parlava solo per il gusto di farlo. Per esempio quel giorno, giovedì 8 febbraio, quando egli per primo doveva aver fretta di arrivare al punto di discussione che più gli stava a cuore, quando un altro al posto suo si sarebbe speso a limare il discorso che avrebbe fatto per convincere tutti della bontà dell’ordinamento repubblicano, ecco che in apertura di seduta lui ne improvvisava un altro, per dire meriti e demeriti della Commissione provvisoria di governo. Così spiegò che il maggior merito dei ministri era la convocazione di quella Costituente: «La storia consegnerà per questo fatto i loro nomi nelle sue più gloriose pagine e dureranno scolpiti nei cuori de’ nostri nepoti fino alla più remota posterità». Ma poi citò i principali appunti che faceva al governo e fra questi ce n’era più d’uno, per la verità, molto condivisibile; uno per tutti, il codice militare troppo severo: «Vi dirò che con dispiacere e con ribrezzo ho veduto proclamare un codice militare di leggi draconiane in cui ci si parla di bende, d’inginocchiature, di decimazioni in questo tempo, in cui la stessa Camera dei deputati romani aveva dichiarato il suo voto per l’abolizione della pena di morte».
Non era, si badi, un attacco al governo provvisorio, era una precisazione. Non c’è quasi pagina dei verbali che non contenga almeno una volta il nome del principe di Canino, che ormai si chiamava solo Bonaparte. Quella precisazione naturalmente comportò le repliche dei ministri Sterbini e Armellini e così se ne andò una prima oretta dei lavori, chiusa dal voto con il quale l’Assemblea decretò, con soddisfazione dello stesso Bonaparte, che i ministri restassero nelle loro funzioni.
Il presidente Galletti propose allora di ascoltare il rapporto del ministro degli Esteri Muzzarelli sulle relazioni fra lo Stato Romano e gli altri stati, come richiesto nella seduta precedente dal deputato Audinot e approvato dall’Assemblea. Si aprì un piccolo dibattito, in cui alcuni spingevano per rinviare il rapporto e passare subito alla questione costituzionale, altri invece sostenevano che le relazioni esterne dello Stato erano un elemento capitale di valutazione. Fra questi c’era, ovviamente, Rodolfo Audinot, che disse: «Le nostre deliberazioni non sono deliberazioni teoriche, non sono deliberazioni le quali debbono poggiare sopra principi astratti, ma semplicemente nella questione dei fatti, sulla cognizione della politica positiva, sulla cognizione della politica pratica». L’argomentazione di Audinot suscitò la replica del deputato della provincia di Forlì Felice Orsini, sì, proprio lui: «Guai a noi» disse «se nella mente nostra volgessero pensieri di transazione; guai a noi se nelle attuali circostanze volgessimo nel nostro animo intendimento di chinare nuovamente la fronte a nuovi re; guai a noi se fossimo per prendere risoluzioni inutili e meschine di governi provvisori. Queste non potrebbero condurci che alla schiavitù, e ci attireremmo addosso la taccia di avere, per la prima volta che i rappresentanti del popolo italiani si sono riuniti in Assemblea Costituente, di avere, dico, tradito gl’interessi del popolo».
La questione che si leggeva in filigrana sotto quei battibecchi era quella dei rapporti fra l’Assemblea romana e il Piemonte. Non molto altro poteva dire l’espressione usata da Felice Orsini «chinare nuovamente la fronte a nuovi re». La proposta Audinot fu in ogni modo approvata e Carlo Emanuele Muzzarelli salì alla tribuna per leggere la sua relazione, che però diceva poco o niente e poco di più avrebbe potuto dire. Parlò degli agenti incaricati a Parigi e Londra, ma non poté ovviamente addurre risultati. Poi parlò del Piemonte e della Toscana: «Vengo agl’incaricati in Torino. Il loro mandato era particolarmente diretto a trattare della Costituente Federativa. Essi l’avrebbero già esattamente adempito, se la proclamazione di questa Commissione provvisoria di governo in data del 16 dello scorso gennaio e le posteriori risoluzioni del Parlamento toscano non fossero apparse tali al governo sardo da doverne formare oggetto di nuove discussioni e trattative; ma ciò non ostante la Costituente italiana sarà, come lo è per favore di Dio questa nostra, e i deputati piemontesi non mancheranno a far parte degli altri deputati di tutta intera l’italiana famiglia». E si vede bene che questo, più che un fatto, era un auspicio.
Più avanti Muzzarelli disse: «Finalmente dovrò io parlarvi di minaccie e di timori di straniera intervenzione, dovrò dirvi come più volte si tentasse di far penetrare nel nostro Stato il demone della guerra civile e dell’anarchia? No, che voi stessi troppo bene sapete tali cose, e non giova qui rattristare co’ sozzi fatti del passato le sicure e gloriose speranze dell’avvenire». Il ministro consegnò alla presidenza una documentazione, perché l’Assemblea ne potesse prendere visione. Armellini dette informazioni sulla situazione ai confini, in particolare a Rieti e a Ferrara. Il ministro delle Armi Campello provocò l’ilarità dei deputati con questa affermazione: «Aggiungerò un’altra notizia venutaci questa mattina: il generale Zucchi si trova a Pontecorvo con un’armata di ottanta uomini». Eppure doveva essere chiaro a tutti che, se si poteva ancora scherzare sulle forze riunite dal generale rimasto fedele a Pio IX, ben altre minacce incombevano sulla Repubblica non ancora nata.
Intervenne di nuovo Audinot: «O cittadini, da quanto compresi dal discorso del ministro degli Affari esteri, dai documenti, che ha deposto al banco presidenziale, noi possiamo aver maggiori lumi intorno a quello che abbiamo udito dal suo rapporto. Io propongo che la seduta sia sospesa per mezz’ora per prendere cognizione di questi documenti, che poi regoleranno le nostre deliberazioni». Così fu fatto e i «maggiori lumi» vennero, ma non per suscitare nei rappresentanti del popolo la cautela invocata da Audinot.
Durante la sospensione, che durò circa tre quarti d’ora, i deputati vennero a conoscenza, fra le altre cose, della lettera che Gioberti aveva scritto il 23 gennaio a Muzzarelli. In quella lettera Gioberti asseriva che il santo padre avrebbe visto «di buon occhio che il Governo Piemontese s’interponesse amichevolmente presso i rettori e il popolo di Roma per venire ad una conciliazione», suggeriva che la Costituente romana riconoscesse «per primo suo atto i diritti costituzionali del Santo Padre» e invitasse a partecipare ai suoi lavori una delegazione pontificia. Gioberti raccomandava prudenza e moderazione: «Nello stabilire l’accordo tra il popolo romano ed il Pontefice bisognerebbe aver riguardo agli scrupoli religiosi di questo. Pio IX non farà mai alcuna concessione contro ciò che crede debito di coscienza». Infine affrontava la questione più delicata, della sicurezza del pontefice:
Per sortire questo intento senza gelosia del popolo e pregiudizio della dignità romana, il nostro Governo offrirebbe al Santo Padre un presidio di buoni soldati piemontesi che lo accompagnerebbe in Roma, ed avrebbe per ufficio di tutelare non meno la legittima podestà del Pontefice contro pochi tumultuanti, che i diritti costituzionali del popolo e del Parlamento contro le trame ed i conati di pochi retrogradi. Sono più settimane che io vo pensando essere questa la via più acconcia e decorosa per terminare le differenze.
Ho cominciato a questo effetto delle pratiche, verso le quali il Pontefice pare ora inclinato. Se non si adopera questo partito, l’intervento straniero è inevitabile; e benché io metta in opera tutti i mezzi per impedire questo intervento, ella vede che durante l’attuale sospensione delle cose, la voce del Piemonte non può prevalere contro il consenso di Europa. Io la prego, Ill.mo sig. Presidente, a pigliare in considerazione questi miei cenni che muovono unicamente dall’amore che porto all’Italia, e dal desiderio che tengo di antivenire ai mali imminenti.
Nella lettera del presidente del Consiglio piemontese c’era prudenza, buon senso, un po’ di millantato credito e anche un po’ d’ingenuità: valeva quel che poteva valere in quanto lettera. Certo, Gioberti non ne avrebbe fatto un manifesto e non prevedeva che fosse resa pubblica. Sui deputati romani che la conoscevano allora fece l’effetto esattamente contrario a quello per cui era stata scritta: piuttosto che moderarli, li fece infuriare.
Rientrarono in aula e Carlo Luciano Bonaparte disse: «Dopo la stomachevole corrispondenza che ci è stata comunicata, desidero che immediatamente si passi alla discussione importante della forma di Governo, poiché sono sicuro che se alcuni dei nostri colleghi esitavano ad unirsi prima di passare in quelle stanze, ora saranno i primi ad unirsi alla bandiera dell’onore, alla bandiera dell’Italia». Così cominciò il dibattito sulla scelta dell’ordinamento e il primo a parlare fu il deputato di Bologna Savino Savini, che era scrittore di commedie e dal teatro mutuò i termini della questione che, secondo lui, doveva porsi l’Assemblea: «Vorrò compiere un atto unico, immortale, o tradirò il mandato del popolo, recitandogli una farsa dopo avergli promesso salute?». Nell’intervento, che fu breve, non pronunciò la parola «repubblica» ma disse chiaro ciò che si aspettava: «Io credo sanzionerete la decadenza di diritto della sovranità temporale dei pontefici, poiché non esisteva in politica e in religione fatto più mostruoso, più colpevole ed anticristiano di questo». Fu più volte e lungamente applaudito.
Dopo di lui toccava a Terenzio Mamiani, il quale sapeva di dover parlare contro corrente e può darsi anche che intuisse che quel suo discorso sarebbe stato il primo e l’ultimo nel nuovo Parlamento. Era stato male negli ultimi tempi e non si era del tutto ripreso. Portava male i suoi cinquant’anni. Pure, era l’uomo più rispettato che potesse alzarsi in quell’assemblea e, per quanto piccolo di statura ed esile di figura, una volta alzato, doveva ancora apparire un gigante. Fu un capolavoro di oratoria, un capolavoro inutile.
«Signori» dichiarò nel suo intervento «siamo schietti e fuggiamo le sottigliezze e gli equivoci. In Roma non v’ha via alcuna di mezzo; in Roma non possono regnare che i Papi, o Cola di Rienzo. Siamo dunque franchi e sinceri, come s’appartiene più propriamente a un’Assemblea forte dei propri diritti, quale è questa qui presente. Dichiarare la decadenza dei Papi in tutte e due le significazioni anzi espresse, vuol dire né più né meno che stabilire in Roma il Governo repubblicano.» E qui uno scroscio d’applausi dalla tribuna del pubblico e, invece, qualche mormorio, se non proprio schiamazzo, dai banchi della sinistra, nei quali facilmente s’intuiva dove Mamiani volesse andare a parare. Quanto alle due «significazioni» della decadenza dei papi, Mamiani aveva spiegato all’inizio del suo discorso che c’era differenza fra l’affermare che i papi non potevano «più pretendere ad alcun diritto sovrano» – principio sul quale egli stesso si trovava d’accordo – e l’affermare che i papi non dovessero «essere mai più investiti, neppure da noi, di autorità principesca». E su questo si trovava molto meno d’accordo. Il papa, insomma, per Mamiani poteva essere reinvestito dal popolo e dai suoi rappresentanti di quella sovranità che non gli spettava più di diritto.
Volse lo sguardo ai banchi della sinistra e continuò: «Approfittando della benignità ed anche della ragionevolezza per cui volete lasciarmi libertà piena di opinioni e di parole, dovete concedermi su questo argomento che io vi esponga il mio parere un po’ per disteso. E innanzi a tutto vi annunzio, che io qui non intendo discutere dei principii. In quanto ai principii, io vo persuaso che poca, o niuna differenza interviene fra me e buona parte di questa Assemblea. Io, nel vero, ho sempre pensato che se il potere temporale dei Papi non riesca in niuna guisa a conciliarsi e accordarsi colla piena libertà; se il potere temporale dei Papi venir non possa in massima parte delegato alle Assemblee ed ai Ministeri e conformato colla pubblica opinione, esso potere temporale continuerebbe oggi ad essere quello che, secondo il giudizio mio, è stato troppo sovente, cioè un flagello per l’Italia, un flagello per la religione». Qui scoppiò un grandissimo applauso, che però doveva essere anche l’ultimo.
Mamiani, con calma, arrivava al punto: «Similmente io vi dico che la Repubblica, al mio sentire, è la più bella parola che suonar possa sul labbro dell’uomo, e, dove la virtù dei popoli sia sufficiente all’uopo, la Repubblica è il Governo il quale si confà meglio con la dignità della nostra natura, e tocca l’ideale della perfezione civile. Io non questiono adunque né di principii, né di massime universali, né di diritti: io voglio solo condurre l’attenzione vostra sull’essere di alcuni fatti; io voglio indurvi a considerarne alcune gravissime conseguenze; voglio che ne esaminiate l’opportunità: e soprattutto, io voglio con voi ponderare ciò che possono apportare quei fatti alla comune salute d’Italia, la quale io so bene essere nel petto vostro il primo, il sommo dei sentimenti e degl’interessi. Quando i francesi pensarono di atterrare il trono di Luigi XVI, avevano a requisizione loro, ed esecutrici del loro volere, trecento e più mila baionette agguerrite e disciplinate. Io mi volgo a guardare intorno di voi, o signori, e non vedo l’esercito che deve seguire i vostri voleri; perché non suppongo bastare all’uopo le non molte migliaia di uomini che noi possediamo non assai peranche agguerriti e disciplinati».
«Ma v’ha di più» aggiunse Mamiani e il di più era «la forza del popolo», che nella Rivoluzione francese era stata più potente delle stesse baionette. Quel popolo era mosso dall’interesse vivo di liberarsi dalla schiavitù feudale. Ma la liberazione era appunto avvenuta ed era arrivata anche in Italia: «Laonde quello che si può promettere oggi da noi alle moltitudini perché ci seguano coraggiose e infiammate, perché versino largamente e con letizia il sangue delle lor vene si è un profitto ed un bene poco visibile e poco palpabile, non molto certo, non vicino, non bastante ad accender la fantasia e lusingar l’interesse».
A volte, solo scartabellando un verbale di seduta, si possono incontrare, seminascosti nella loro soggettiva ovvietà, i pensieri più profondi, più lunghi, più problematici che accompagnarono la vita di alcuni protagonisti del nostro Risorgimento e che i più ponderosi saggi non bastano a riportare alla loro immediatezza. Terenzio Mamiani non credeva, non poteva e non sapeva credere, che l’Italia fosse un ideale capace di muovere le moltitudini e neppure credeva che quelle moltitudini trovassero altro interesse nella libertà che il beneficio, già acquisito, della liberazione dalla servitù. Più era alto il concetto della libertà, meno si comunicava facilmente al popolo: e il concetto di Repubblica era altissimo, lo aveva detto, era il più alto di tutti.
Il filosofo dava lezione di pragmatismo: così dal confronto fra questa Rivoluzione romana e la grande Rivoluzione passò poi all’esame del panorama politico che lo Stato Romano aveva attorno. Parlò della Toscana: «E prima concedo che non sarà molto malagevole fare repubblicana la vicina Etruria e confesso che nel trambusto e scomposizione, in cui trovasi quella contrada, tanto è facile imporle qualunque forma di Governo, quanto difficile il conservarla». Parlò del Piemonte: «Ora in Piemonte la cosa non può succedere certamente con uguale facilità e con uguale prontezza: il popolo piemontese ha la mente e l’animo pieno e informato di memorie, di tradizioni, di costumi monarchici. Il popolo piemontese, il quale partecipa più di qualunque altro italiano della natura settentrionale, ha la fantasia meno mobile, il consiglio più posato, molta gravità e costanza negli usi, negli affetti e nell’intimo convincimento». E su questo concluse: «Chiamando il Piemonte sotto la bandiera repubblicana, voi non potete ottenere che uno di questi due effetti: o si sveglierà nel paese una sanguinosa reazione, contro le idee repubblicane e contro le libere istituzioni, ovvero si empirà di partiti e di sette, di tumulti fieri e incessanti, di sospetti e cospirazioni; nell’uno e nell’altro caso, il Piemonte verrà senza meno scompigliato e disfatto; cosa per la quale l’esercito piemontese nel cui cuore, nelle cui braccia sta la vera, la sola forza italiana, non potrà mantenersi ordinato e disciplinato stretto da un solo legame, al solo intento rivolto della guerra del riscatto».
Passò a parlare dell’Europa, invitando i colleghi a non farsi illusioni: «Signori, il danno d’Italia si è che più volte ella intraprende e incomincia ciò che altrove è finito: ella procaccia di rialzar quelle insegne che altrove sono cadute; ella per sua sventura non sa ben cogliere né il tempo né l’occasione. Se mesi addietro aveste appoggiato i vostri disegni e le vostre speranze sul democratico movimento di Europa, io ci avrei veduto assai fondamento, ma oggi nessun può negare che invece incomincia a predominare in Europa uno spirito di conservazione e di resistenza; pur troppo cotesto spirito ha guadagnato assai vittorie sui popoli, e torna inutile il volerlo celare e negare a noi stessi».
Si avviava alla conclusione dell’...