VII
uno strano modo di gestire le ferrovie
…è giunta l’ora che il proprietario della British Rail, vale a dire lo Stato, rappresentato dal governo, decida una volta per tutte che cosa fare di questo bene di immenso valore che gli appartiene. Perché è davvero un bene di immenso valore, anche se non porta profitti in denaro nelle casse della nazione. Vi è già chi progetta avidamente la sua svendita e vorrebbe cedere i quasi 17.000 chilometri di terreni di proprietà delle ferrovie che si snodano per tutto il Paese, oltre alle numerose aree urbane di consistente valore. Altri, intuendo la possibilità di contratti vantaggiosi derivanti da un’eventuale cementificazione del tracciato ferroviario, stanno brigando per ottenere sovvenzioni governative per un progetto di riconversione. Prelevare succulenti bocconi di lucrose appendici della ferrovia per offrirli ad acquirenti privati è diventata una forma di sciacallaggio mascherata sotto il grande manto della privatizzazione.
Come mai le ferrovie sono così vulnerabili a questo genere di cose e scarseggiano tanto palesemente di amici influenti?
Michael R. Bonavia, Twilight of British Rail?, 1985
All’inizio dell’era dell’automobile, la Gran Bretagna aveva una straordinaria rete ferroviaria. Era stata costruita, insieme a monumentali opere ingegneristiche quali ponti, viadotti, gallerie e terrapieni, da armate di manovali itineranti, simili agli uomini che nel corso del secolo precedente avevano scavato canali e vie di navigazione interna. Come in tutto il continente, lavoravano duramente per paghe bassissime e a prezzo di pesanti costi in termini di vite umane. Nel 1900 le macchine li hanno già rimpiazzati. «Un paio di scavatrici a vapore fatte funzionare da venti uomini svolgeva il lavoro che cinquant’anni prima avrebbe richiesto l’impiego di duecento manovali».1
Una volta costruite le linee, arrivavano le compagnie ferroviarie che assumevano manodopera dalle campagne, strappandola a un mondo feudale per inserirla in una specie di feudalesimo industriale. In cambio della garanzia di un impiego, che voleva dire lunghe ore di lavoro e paghe basse, si richiedeva una fedeltà totale. Il personale delle ferrovie era tenuto a un rigido codice di norme, simile a quello di un esercito. Già nel 1839, una Commissione per la Selezione riferiva al governo che «è essenziale per la sicurezza pubblica e per il mantenimento di un servizio regolare sulle strade ferrate che le compagnie abbiano il pieno controllo dei propri dipendenti… quando la vita di molte persone dipende dalla buona condotta e dalla pronta obbedienza dei subordinati, e quando la più piccola irregolarità può avere conseguenze fatali, è necessario istituire un sistema di rigorosa disciplina…».2
Questo stile militaresco si ritrovava in tutte le operazioni ferroviarie. Il ragazzo che iniziava come pulitore delle macchine poteva, grazie a un ruolino ineccepibile, farsi strada lentamente nella scala gerarchica fino a diventare fuochista e alla fine conducente. C’era poi una classe separata di ufficiali funzionari con i due «reggimenti» rivali dei tecnici e degli amministratori. C’era lo stesso implacabile atteggiamento dell’esercito verso chiunque avesse una «macchia» sul proprio curriculum. Per esempio, coloro che erano stati segnalati come «militanti» durante lo sciopero generale del 1926 erano ancora sulla lista nera, cosa che ne impediva la promozione, nel 1946 all’epoca della nazionalizzazione,3 e probabilmente lo furono anche dopo.
Alla base della buona condotta c’era una serie di norme e regolamenti accuratamente stilati e applicati meticolosamente. Sul versante operativo, il libro delle regole ferroviarie è diventato un’istituzione nazionale. «Fare ostruzionismo» attenendosi rigidamente al regolamento è un’espressione dei ferrovieri passata nell’uso corrente. Le norme che conducenti, sorveglianti e addetti ai segnali dovrebbero rispettare sono così numerose e circostanziate che osservarle alla lettera significherebbe praticamente portare i treni alla paralisi. In pochi altri casi un lavoratore ha ricevuto istruzioni tanto precise e onnicomprensive come il ferroviere britannico.4
Come nell’esercito, nei ranghi inferiori c’era una vera e propria cultura difensiva e un sentito impegno a far funzionare il servizio nonostante il sistema. La storia dei lavoratori ferroviari di Frank McKenna ci spiega come a ogni livello ciascuno mantenesse un certo grado di competenza autonoma. «All’interno di un limitato territorio, spesso ci si poteva creare un proprio sistema amministrativo. Le compagnie capirono che una netta definizione dei confini giocava a favore della chiarezza di rapporti e che il lungo orario di lavoro e la disciplina ferrea potevano essere compensate dal fatto che un ferroviere potesse dare la propria impronta personale a una certa zona o a una tratta».5
Come tutti i dipendenti delle grandi organizzazioni, anche i lavoratori della ferrovia crearono enclavi proprie per rendere tollerabile l’esistenza. La lobby ambientalistica dell’epoca deplorava gli slums di baracche, tuguri, capanne, casupole e vagoni senza ruote, ognuno con il suo tubo da stufa e le piastre di acciaio lucido per friggere le uova e il bacon.
Quelle però erano le manifestazioni visibili del territorio difendibile che ognuno si ricavava. Tra i vari sindacati di mestiere, uno dei quali divenne l’Aslef, e i sostenitori di One Big Union (un Solo Grande Sindacato), influenzati dalla propaganda dell’Iww statunitense, inevitabilmente ci fu battaglia. Ad arrivare più vicino alla vittoria fu la Nur (Unione Nazionale dei Ferrovieri), che cercò di unire tutti i lavoratori di quella struttura accuratamente gerarchica che era il servizio ferroviario. Ma qualche frangia aristocratica tra i fuochisti e i macchinisti si eresse contro l’ideologia della Nur, nonostante il trionfo ottenuto dal sindacalismo settoriale nello sciopero del 1911.
Viaggiatori e strateghi industriali deprecano la continua difesa da parte dell’Aslef dei privilegi attestati e delle pratiche restrittive, ma non è difficile capire come mai i guidatori dei treni si aggrappino ostinatamente al livello di autonomia (in cambio di faticosissime ore di lavoro) ottenuto dai loro predecessori. Il colpo da maestro delle compagnie ferroviarie anteguerra fu affidare ai migliori conducenti macchine «proprie». «Nell’industria britannica non si era mai visto niente di simile fino ad allora» commenta Frank McKenna. I guidatori dedicavano la propria esistenza alla loro macchina, lavandola, lucidandola e decorandola, con le parti in rame e in ottone che brillavano come gioielli. «Per capire la mentalità di questi uomini, bisogna tener presente che essi svolgevano un lavoro di grande responsabilità senza uno stretto controllo da parte dei superiori. Erano completamente affidati a se stessi, da quando entravano in servizio fino a quando staccavano… lavorando per la propria soddisfazione, comportandosi secondo il livello elevato ...