Il pane selvaggio
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Il pane selvaggio

Informazioni su questo libro

Nell'Europa fra Quattro e Settecento, larga parte della società era non solo schiacciata dal peso degli status piramidali, immodificabili per legge divina e volontà regale, ma anche oltraggiata dalla fame e dalla miseria, tiranneggiata dall'uso quotidiano di pani ignobili, spesso mischiati volontariamente con erbe e granaglie tossiche e stupefacenti.Mentre i Galilei, i Cartesio e i Bacone fabbricavano una macchina del mondo razionale e ordinata, la sottoalimentazione cronica e l'ubriachezza domestica generata da queste droghe campestri e familiari lanciavano il corpo sociale in un viaggio onirico di massa, in trance ed esplosioni dionisiache che coinvolgevano interi villaggi, nei meandri di un immaginario collettivo demonico e notturno che compensava un'esistenza invivibile, alle soglie dell'animalità.Nel Pane selvaggio Piero Camporesi, ricorrendo a un'ampia campitura di fonti letterarie d'età moderna, racconta un'umanità narcotizzata, preda di una colossale vertigine oppioide, che viveva in un mondo di squallida apatia intellettuale e morale e di disinteresse per le cause più alte, sprofondata in un universo fantastico. Un'umanità, tuttavia, che ancora conosceva la percezione extrasensoriale della realtà, forme di coscienza e di scienza diverse da quelle, a una sola dimensione, della razionalità, e che dunque ancora poteva attingere ai serbatoi onirici che l'interdizione delle erbe allucinogene ha poi distrutto.Piero Camporesi – che per statura può essere avvicinato a Jacques Le Goff, e che come questi si è adoperato per restituire il ritratto storico e sociale dell'Europa preindustriale attraverso i sensi degli uomini che vi avevano materialmente vissuto – è stato un maestro, con la sua ricerca, per generazioni di studiosi, e con la sua prosa ricca eppure nitida impersona una delle massime vette raggiunte dalla scrittura italiana secondo-novecentesca. Tra i molti scritti di cui è stato omaggiato dai più importanti intellettuali e uomini di lettere contemporanei figura quello di Umberto Eco con cui si apre questa edizione del Pane selvaggio, con la quale il Saggiatore dà avvio al progetto di ripubblicazione del corpus delle opere di Camporesi: per rendere nuovamente al pubblico l'illuminante lettura che egli ha dato del nostro comune passato.

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Informazioni

Anno
2016
eBook ISBN
9788865765241
Categoria
Antropologia
1. La «miserabile malattia»
«On était vraiment las d’être au monde», annotava nel suo diario un curato di campagna francese nel xvii secolo1 interpretando la disperazione dei parrocchiani più miserabili che morivano di fame nel suo villaggio.
All’inizio dello stesso secolo un canonico bolognese, Giovan Battista Segni, ricordava che
in Padoa del 1529 ogni mattina si ritrovavano per la città vinticinque e trenta morti di fame sopra i lettami nelle strade. Li poveri non avevano effigie umana.2
Uno squarcio orribile – proveniente da una delle più dotte città d’Europa – che illumina sinistramente l’ultimo stadio d’una tormentata metamorfosi, il lungo, miserabile viaggio verso la distruzione dell’umano e la nascita effimera dell’uomo-bestia a diuturno contatto col letame, attratto dal miraggio del suo tiepido e fermentante calore, rifugio nauseabondo per chi – novello Giobbe – era costretto a dormire nudo nello sterco.
Nei tempi di carestia, anche in quelli meno devastanti, gli affamati si trasformavano in grotteschi simulacri di esseri umani, in incartapecorite mummie spossate dalla fatica di continuare a vivere e dallo sforzo intollerabile di reggersi in piedi.
Si vede quasi ognuno ridutto a magrezza sformata a guisa di mumie, sì che… la pelle parla, sostenuta dall’ossa con pochissima carne. E va’ dove vuoi, che non s’incontrano per le strade se non tristezza, malinconia, debilità, mestizia, miseria e morte.3
Nei villaggi, nelle città afflitte e calamitose si muovevano stancamente luridi stracci abitati da labili estenuate ombre rinsecchite dagli stenti, metafisiche presenze e deprimenti allegorie della Mestizia, della Miseria e della Consunzione. Lo spazio urbano diveniva allora simile a una allucinante promenade percorsa – per usare una immagine cara a un classico della fame, san Basilio – da uomini-ragno, dalla cute rinsecchita e cinerognola, dagli occhi al fondo delle occhiaie incavate chiusi, come garigli di noci disseccati, fra le ossa. La sua Homilia dicta tempore famis et siccitatis delineava magistralmente un ritratto dell’affamato che sarebbe restato modello inarrivabile fino al momento in cui le carestie non avessero cessato di tormentare l’Occidente: uno stereotipo drammatico la cui memoria riemerge, indelebile, anche in un passo famoso della Divina Commedia.
Esurientis morbus, fames scilicet, miserabilis affectio est. Humanarum calamitatum caput est fames. Mors omnium miserrima est, finem hunc sortiri… Fames vero affert supplicium lentum, dolorem longum, morbum intus insidentem ac delitescentem, mortem semper praesentem et semper tardantem. Naturalem namque humorem absumit, refrigerat calorem, molem corporis contrahit, vires paulatim exedit. Caro araneae instar circumjacet ossibus. Non flos inest in cute. Nam, consumpto sanguine, fugit rubor; non adest albor, superficie per maciem nigrescente; corpus livet, pallore atque nigritudine per morbum misere admistis; genua non sustentant, sed vi et aegre trahuntur. Vox tenuis et languida; oculi in cavis suis debilitati, frustra in thecis ac valvulis inclusi, tanquam nucei fructus intra putamina arefacti. Venter vacuus, contractus, informis, sine mole, sine naturali viscerum distensione, ossibus dorsi adhaerescens… Coegit non paucos saepenumero famis angustia, terminos etiam naturae excutere, hominemque vesci tribulium corporibus, et matrem filium quem ex ventre protulit, ventre rursus improbe excipere.4
La stessa carne livida e lo stesso colore nero del volto, la stessa facies precadaverica d’una testimonianza francese del 1683: «… des milliers de pauvres… avec des visages noirs, livides, attenuez comme des squelettes, la plupart s’appuyant sur des bâtons et se traînant comme ils pouvaient pour demander un morceau de pain».5
Una grande, tetra e smagliante letteratura ha inciso in un’acquaforte velenosa e crudele il tópos agghiacciante della carestia. A san Basilio fa eco Procopio di Cesarea che nel vi secolo, al seguito di Belisario, poté vedere da vicino gli orrori della guerra goto-bizantina tracciandone in una pagina memorabile un’agghiacciante sceneggiatura:
Tutti divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro mancando di alimento secondo l’antico adagio, consumava sé stessa, e la bile prendendo predominio sulle forze del corpo dava a questo un colore giallastro. Col progredir del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come aderisse alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li facea parere come torce abbrustolite. Nel viso erano come stupefatti e come orribilmente stralunati nello sguardo. Quali di essi morivano per inedia, quali per eccesso di cibo, poiché essendo in loro spento tutto il calor naturale delle interiora, se mai alcuno li nutrisse a sazietà e non a poco per volta, come si fa dei bambini appena nati, non potendo essi già più digerire il cibo, tanto più presto venivano a morte. Taluni furono che sotto la violenza della fame mangiaronsi l’un l’altro: e dicesi pure che due donne in certa campagna al di là di Rimini mangiassero diciasette uomini: poiché sendo esse sole superstiti in quel villaggio, coloro che di là viaggiavano andavano a stare nella casa da loro abitata, ed esse, uccisili mentre dormivano, se ne cibavano.
Dicono poi che il decimottavo ospite svegliatosi quando queste donne stavano per trafiggerlo, balzato loro addosso, ne risapesse tutta la storia, ed ambedue le uccise.
Così dicesi andasse tale cosa. Ben molti travagliati dal bisogno della fame, se mai in qualche erba si incontrassero, avidamente vi si gettavan sopra, ed appuntate le ginocchia cercavan di estrarla dalla terra, ma non riuscendo, perché esausta era ogni loro forza, cadean morti su quell’erba e sulle proprie mani. Né v’era alcuno che li seppellisse, perché a dar sepoltura niuno pensava; non eran però toccati da alcun uccello dei molti che soglion pascersi di cadaveri, non essendovi nulla per questi, poiché, come ho già detto, tutte le carni la fame stessa avea già consumate.6
Molti secoli dopo, nel territorio riminese che aveva conosciuto gli orrori goto-bizantini, in un villaggio posto nelle immediate vicinanze della «linea gotica», nel terribile inverno del 1943-1944 si verificarono episodi di macellazione clandestina e di consumo di soldati morti. Le loro carni, in parte fresche e in parte salate, aiutarono a risolvere la crisi di sussistenza della piccola comunità indigena, fornendo una provvidenziale razione di cibo altamente proteico. Eccessi sporadici, estranei a una cultura non antropofaga, nei quali tuttavia, cambiando il quadro generale, si potrebbe sempre ricadere.
Le generazioni che ci hanno preceduto, abituate a lottare contro carestie praticamente endemiche, avevano tentato di elaborare una serie di prae­cepta contra famem che andavano dal pane biscottato al fegato arrostito di qualunque animale. Nei casi di assoluta emergenza era consigliata, contro la fame e la sete, l’urina.
Legimus… quendam, ruinis aedificiorum obrutum, cum nullam vitae spem reliquam haberet, septem dies noctesque, sola urina epota, famem ac sitim tolerasse.7
C’era chi credeva nelle pillole di Avicenna (globuli contra famem), grandi come una comune noce, a base di mandorle tritate, grasso bovino liquefatto, olio di viola e succo di radici d’altea.8
Fra tutte le insidie che cospiravano al disfacimento e alla distruzione del corpo umano, la fame era la più crudele ma, come le altre calamità, sfuggiva a ogni meccanismo di controllo.
Il senso dell’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. Occhiello
  5. Introduzione
  6. 1. La «miserabile malattia»
  7. 2. Il pane frangente
  8. 3. Cannibalismo sacro e profano
  9. 4. «… se ne vanno per il mondo malabiando»
  10. 5. «Computruerunt in stercore suo»
  11. 6. Il «mondo a capinculo»
  12. 7. La «carestia di vivere» e il «tempo del sospetto»
  13. 8. Il tempo di notte
  14. 9. Battaglie rituali e furori popolari
  15. 10. Medicina pauperum
  16. 11. «Strettezza di borsa»
  17. 12. Vertigini collettive
  18. 13. Sogni iperbolici
  19. 14. Paradisi artificiali
  20. 15. Il pane papaverino
  21. 16. La «volubile e verminosa colonia»
  22. 17. Putridi vermi e sordide lumache
  23. 18. Una città di mummie
  24. 19. Il trionfo della povertÃ