1.
1Nel 1962-63, l’artista danese Dea Trier Mørch visita la Polonia – «febbricitante e ansimante paziente, saltata sul letto – che, in una luce rembrandtiana, ora tendeva le mani, invitando ad avvicinarsi per comunicare le sue più radiose visioni1«Qui, tramite Eugenio Barba, viene in contatto con «un piccolo teatro assolutamente sconosciuto», il Teatr Laboratorium 13 Rzedow, guidato dal ventinovenne Jerzy Grotowski e dal poco più anziano Ludwik Flaszen.
2Dea Trier Mørch si reca apposta a Opole per visitare questo teatro, nel quale «viene annullata la separazione fra attore e pubblico e tutta la sala si riduce a uno spazio oscuro, semplice, privo di scenografie, mentre la rappresentazione implica che lo spettatore partecipi».2In un ristorante, rincontra Barba e con lui c’è Grotowski,
un giovanotto, seminascosto dai suoi occhiali scuri, pallido e molliccio [che] parlava francese […]. I capelli erano biondi. Il naso appuntito. L’espressione del viso singolarmente riservata, ipersensibile e contemporaneamente attentissima. Il portamento chino, l’abito – biondo come i suoi capelli o for-se incolore. Ci porse una mano molliccia di benvenuto e fece posto al tavolo che serbava tracce di un pranzo abbondante. Sembrava così largamente perso nelle sue fantasie che c’era davvero una distanza – quasi di anni – fra lui e il mondo circostante, sebbene si sforzasse amichevole e curvo d’interessarsi ai discorsi di chi gli sedeva intorno3.
3L’Opole del socialismo reale appariva agli occhi dell’artista scandinava amabilmente «dimessa e scialba»:
C’era uno spiazzo con una sorta di verzura al centro. Le case attorno allo spiazzo erano intonacate di giallo ocra, giallo limone o erano semplicemente colorate dalla polvere, che continuamente sciamava dal corso principale. C’era gente che si fermava, guardava le vetrine dei negozi, restando assolutamente tranquilla nei suoi informali completi scuri, con una sigaretta pendula a un angolo della bocca. Corpulente giovani madri oltrepassavano gli uomini con le loro carrozzine dalle ruote alte, mentre le scolarette con le uniformi scure consunte e i nastri bianchi annodati ai capelli camminavano tenendosi per la vita e lanciando sguardi alle spalle dei ragazzetti, che con i berretti e in leggeri impermeabili tornavano a casa stanchi morti dalle loro scuole. E a queste persone si offriva il teatro di Grotowski4.
4Il teatro stava proprio al centro della cittadina, al numero 14 di Rynek:
Era piccolo e assai ordinato, in bianco e nero come un’opera di grafica. Nulla vi era lasciato al caso. Manifesti di varie rappresentazioni stavano appesi a due o tre pannelli di linoleum nell’atrio. Sugli scaffali di un angusto ufficio davanti al quale passammo c’erano a schiere contenitori e raccoglitori, cassette piene di ritagli e materiali di studio. Grotowski faceva allenare i suoi attori ogni giorno. Era mol-to esigente. Dovevano essere in forma come ginnasti, agili come artisti del circo e possedere il completo controllo della loro respirazione e della loro voce.
Nelle rappresentazioni non si doveva utilizzare altra musica che quella che l’attore stesso poteva creare – o con la voce e il canto o con l’ausilio di strumenti. Dopo gli esercizi ginnici, si faceva pausa, quindi si riprendeva a lavorare sulla rappresentazione che si stava provando5.
5Un pomeriggio, Dea Trier Mørch poté assistere al Faust da Marlowe, da poco ultimato. Gli spettatori si potevano contare sulle dita di una mano ed erano
allocati a un lungo tavolo. Faust stava seduto a capotavola abbigliato con drappi bianchi. La sala era dipinta di nero, eppure la luce diurna ricadeva su di noi – voglio dire che avevo luce sulle spalle.
Grotowski seduto prendeva in continuazione note su un libricino. Quasi non alzava gli occhi per osservare gli attori. Forse era arrivato a un punto di elaborazione da riuscire a valutare ciò che si rappresentava esclusivamente con l’udito. Imperava la massima concentrazione. Faust si muoveva su e giù sui bordi ai quali noi si stava seduti. Li congiungeva, giaceva sull’uno e sull’altro, gridava, esclamava, intimava, piangeva. Mai furono introdotti altri elementi scenici a parte quelli che già si trovavano al principio della rappresentazione.
Ci si accorgeva all’improvviso di essere completamente sudati in volto – e ci si destava dalla propria trance. Che cosa era accaduto propriamente? Era stato come un sogno brutto e bello. Qualcosa vi si muoveva in profondità, si liberava e fluiva. Si riprendeva fiato e ci si avvertiva come stranieri.
6Nel breve resoconto, si rende essenzialmente l’idea di un teatro che «deve diventare una specie di purificazione, di catarsi».6
7Che cosa poteva desiderare Grotowski dal suo minimo pubblico e dal fortuito contatto con un’artista straniera? si chiedeva infine Dea Trier Mørch. Grotowski – all’epoca isolato in una cittadina di provincia, poco amato dal regime comunista e quasi senza spettatori – aveva esigenze assolutamente primarie, sicché «guardò cortesemente con il suo viso insieme molliccio e aguzzo, e disse: – Non dimenticatemi7!». Il regista avvertiva che il suo lavoro era una specie di messaggio affidato a una bottiglia, che poteva facilmente perdersi non tanto nell’oceano internazionale, la cui navigazione gli era peraltro preclusa, quanto nelle paludi della burocrazia politica e artistica della sua patria.
2.
8Dea Trier Mørch, con Walter Weideli, Raymonde e Valentin Temkine, fu infatti tra i non molti stranieri che ebbe la possibilità di avvicinare il periferico catacombale lavoro di Grotowski a Opole8. Parallela però si sviluppava l’instancabile «opera di missionario» di Eugenio Barba, che contribuì in maniera determinante a rompere l’isolamento attorno al regista polacco. In un suo ispirato libro di memorie del 1998, Barba si è soffermato, tra l’altro, sulla sua azione di convincimento e di organizzazione di un manipolo di prestigiosi critici internazionali, riuniti a Varsavia, nel giugno del ’63, per un congresso ITI, al fine di far loro assistere a una rappresentazione del Faust a Lodz, suscitando «per la prima volta una eco internazionale attraverso una cinquantina di stranieri» e segnando in tal modo «una svolta nel destino» di Grotowski9.
9Fu certo grazie a questa eco che, nel giugno del 1966, Grotowski – dopo due opportunità mancate (a causa delle resistenze del governo polacco) nei cruciali anni 1964-6510 – poté approdare con Il principe costante (1965) al Théâtre des Nations di Parigi, diretto da Jean-Louis Barrault, esplodendo come «una bomba»: «Conquistato dallo spettacolo, il pubblico non si muove, non fiata. Dopo tanti programmi che fanno dormire, eccone uno che ci cambia…», scrisse «L’Humanité11».
10Se Parigi rappresentò senz’altro la consacrazione internazionale di Grotowski, non marcò, tuttavia, la sua apparizione all’estero. Questa avvenne invece – come anticipato nella nota 9 – immediatamente prima, in Scandinavia, tra il 6 febbraio e il 25 marzo 1966, con 23 rappresentazioni del Principe costante ed estese attività di seminario12. Forza trainante del debutto internazionale di Grotowski fu ancora una volta Eugenio Barba, che – persona ormai sgradita alle autorità polacche – il 1 ottobre 1964, aveva fondato a Oslo l’Odin Teatret13.
11Barba ha rievocato la laboriosa organizzazione di questa tournée, che implicò una complessa concertazione con l’organizzazione culturale svedese Fylkingen (che si occupava di musica e arte sperimentale), il teatro studentesco universitario di Copenaghen e il Ministero degli Esteri norvegese. Almeno a Oslo, «un problema quasi insormontabile si rivelò trovare il locale giusto», servendo un ampio spazio, con il pavimento di legno e completamente oscurabile:
Impossibile far capire che serviva per uno spettacolo. A quel tempo, quando si parlava di teatro, tutti pensavano a un palcoscenico e a una platea. Alla fine, affittammo la sala degli industriali norvegesi14…
12Nonostante queste difficoltà, in Scandinavia – in quegli an-ni ovunque così straordinari per il nuovo teatro – non mancavano fermenti o aneliti sperimentali e con il penetrante brechtismo interagiva ormai una diversa sensibilità. Certo a Oslo, Studioteatret – un «teatro d’attori», che aveva imposto Stanislavskij nel fervido dopoguerra norvegese – aveva chiuso i battenti fin dal 195015, e Barba «lavorava nella più assoluta oscurità», pur appoggiato da un drammaturgo del peso di Jens Bjørneboe16, ma a Copenaghen, nel gennaio del 1962, era stato inaugurato l’intimo Fiolteatret, largamente legato all’affermazione di Beckett in Danimarca17. In Svezia, inoltre, operava il Pistolteater di Stoccolma, dal 1964 attivo propagandista degli happening come di una nuova drammaturgia di orientamento radicale18, e Carl-Erik Proft era l’animatore della Skara Skolscen (fondata nel 1962), che avrebbe avuto, con Barba, una parte di rilievo anche nella tournée nordica di Grotowski19.
13Il 6 novembre 1964, si era verificato uno dei più significativi punti di rottura fra tradizione e nuovo teatro con l’intervento (e conseguente polemica), sul quotidiano liberale
14«Dagens Nyheter», di un intellettuale del peso di Olof Lagercrantz, che si era schierato, contro la regia di Hedda Gabler di Ingmar Bergman, a favore degli happening presentati nello spazio d’avanguardia di quel Moderna Museet che avrebbe ospitato anche Grotowski: «Al Dramaten» – scriveva il critico – «[ho visto] il germoglio degenerato di un vecchio albero teatrale. Un dramma scritto per l’eternità, ma che puzzava di morte… Contro questo i quadri viventi di Moderna Museet. Qui nulla era pensato per durare, niente realizzato per l’eternità. E per questo c’era la vita20«. Al di là delle contingenze, Lagercrantz contrapponeva ormai il luogo teatrale o, meglio, una sorta di brookiano hollow space all’istituzione; l’informale della performance alla regia studiata; un’arte dell’evento e della presenza del performer al mito di un drammaturgo garante della più raffinata tradizione psicologica; il pregnante effimero del vivente all’eternità statuaria del classico.
15Sempre in Svezia, alla fine del 1965, dopo tempestose re-cite a Vienna, era infine approdato il Living Theatre, con Mysteries e The Maids, a Malmö, Lund, Göteborg, Stoccolma, Uppsala21, spinto dai direttori Michael Meschke di Marionetteatern e Gösta Folke del Malmö Stadsteater. I giornali si erano subito chiesti: «Ne verranno nuovi scandali o successo?», ma intanto dovevano registrare che, «all’Intima Teatern di Malmö, gli applausi non volevano mai finire» («Aftonbladet», 6 dicembre 1965). Il Living appariva come «un gruppo senza pari nella moderna scena d’avanguardia», esponente di «un teatro politico che ha bisogno d’intensa partecipazione sociale». Julian Beck predicava, infatti, «un teatro di esperienze forti, per metà sogno e per metà rito, con il linguaggio del nostro tempo e sui nostri problemi» («Arbetet», 6 dicembre 1965). Il critico Leif Zern, su «Stockholms Tidningen» del 13 dicembre...
