C'era una volta il cinema
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C'era una volta il cinema

I miei film, la mia vita

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C'era una volta il cinema

I miei film, la mia vita

Informazioni su questo libro

Due occhi di ghiaccio, un poncho sulle spalle, il mozzicone di un sigaro stretto nel ghigno da pistolero. uel sigaro appartiene a un uomo troppo svelto a sparare, un uomo senza nome la cui mira non conosce perdono. Ad annunciarlo, mentre si avvicina al galoppo al villaggio di San Miguel, è un fischio malinconico che sembra provenire dalla gola del tempo, dai decenni sepolti nella polvere rossastra del West.Quell'uomo spietato è l'eroe di una nuova epica, fatta di sangue e piombo, di carne, cavalli e dinamite. È la Trilogia del dollaro, canto per fucile e macchina da presa, odissea di cacciatori di taglie che ha riscritto il genere western con la lingua di Kurosawa e Céline: film costruiti con gesti ieratici, con tempi dilatati pronti a esplodere in parossismi di violenza, con un ordito di sguardi interminabili, spari improvvisi, dialoghi scarnifi cati le cui battute si dischiudono in formidabili aforismi. Il regista si chiama Sergio Leone.C'era una volta il cinema – frutto di quindici anni di dialogo ininterrotto con Noël Simsolo tra Parigi, Cannes e Roma – è il testo cui Leone ha affi dato il racconto della propria vita e di tutti i film che ha girato. I fotogrammi dei suoi ricordi portano impressi il cappello di Clint Eastwood e la barba mal rasata di Gian Maria Volonté, le melodie di Ennio Morricone, lo sguardo di Claudia Cardinale e il sorriso offuscato di Robert De Niro, gli incontri con Pier Paolo Pasolini, Klaus Kinski e Orson Welles.Leggere questo memoir-intervista, finora inedito in Italia, è come ritrovare in una vecchia cassetta una voce che si credeva smarrita. Una voce acuta, divertita, ferocemente anticonvenzionale, che fra un aneddoto di vita sul set e una riflessione sul cinema finisce per rivelare i segreti di un regista che ha saputo trasformare gli anni del proibizionismo nel romanzo struggente delle amicizie tradite, delle vendette e degli amori perduti. E che, nell'oblio di una fumeria d'oppio come sulle carrozze di un treno a vapore, ha dipinto l'immagine del tempo mentre fugge via.

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1. Origini

La famiglia Leone – La vita culturale nella Napoli del Novecento – Vincenzo Leone diventa Roberto Roberti – Il primo western italiano – Francesca Bertini e le dive – Il fascismo
sergio leone: Sono nato il 3 gennaio 1929, nel centro di Roma, in un palazzo storico: Palazzo Lazzeroni. La mia famiglia non è originaria della capitale. Mia madre vi è nata per caso. Suo padre era lombardo, ma era direttore di un grande albergo romano, che oggi non esiste più: l’Hotel di Russia, in piazza di Spagna. Mio padre, invece, era un proprietario terriero di Avellino, vicino a Napoli.
Mio padre ha studiato dai salesiani, che sono molto più aperti rispetto ai gesuiti. Nei loro istituti si possono incontrare anche professori che non appartengono all’ordine, e proprio per questo mio padre ha avuto la fortuna di essere allievo di Italo Zingarelli.
noël simsolo: Cosa voleva fare suo padre?
Teatro. Ma i suoi genitori non volevano nemmeno sentirne parlare. Erano gli inizi del Novecento, mio padre è nato nel 1879… Bisogna ricordare che a quell’epoca il teatro era un autentico tabù in una famiglia come la sua. Voler diventare artisti significava essere trattati da Pulcinella. Una vera e propria vergogna. Così, mio padre è andato a studiare Diritto a Napoli, che prima della Grande guerra era la capitale culturale dell’Italia intera. Mentre compiva i suoi studi, frequentava gli ambienti artistici della città. Si è fatto molti amici, fra cui alcune personalità importanti. Come Edoardo Scarfoglio, un grande giornalista dell’epoca, che poteva far cadere un governo con un articolo… Mio padre frequentava pure i poeti Michele Galdieri e Italo Bracco. E conosceva bene Gabriele D’Annunzio, con cui era stato a scuola. D’Annunzio era molto famoso, era visto come un romantico, appassionato dell’amore e amante dell’attrice più ammirata: Eleonora Duse.
Com’è diventato attore suo padre?
Mentre si preparava per diventare avvocato, ha cominciato a fare tea­tro a livello amatoriale. Come attore e regista. Un giorno Italo Bracco lo ha presentato a Roberto Talli, che dirigeva una compagnia, la Talli-Gramatica-Calabresi. Questa compagnia, dove mio padre è riuscito a entrare, portava in giro spettacoli per tutta Italia. Dopo essersi laureato, la sua famiglia credeva che facesse l’avvocato a Torino. In realtà, calcava il palcoscenico.
Alla scadenza del suo ingaggio, la Duse gli ha offerto un contratto di cinque anni per lavorare nella sua compagnia. Lui ha firmato. Sapeva che con lei si sarebbero esibiti in giro per il mondo e, a quel punto, sarebbe diventato complicato lavorare con il suo vero nome. La famiglia avrebbe scoperto la verità. E lo avrebbe scomunicato. Poiché uno degli attori della compagnia si chiamava Ruggero Ruggeri, mio padre abbandonò il nome di Vincenzo Leone per adottare lo pseudonimo di Roberto Roberti. Molti anni dopo ho dovuto usare anch’io uno pseudonimo per il mio primo western. In omaggio a mio padre, ho scelto Bob Robertson: Robert, figlio di Robert…
Che ruoli interpretava suo padre?
Da primo attore. Ma dopo quattro anni il contratto con la Duse è stato sciolto. Per colpa di D’Annunzio e della pubblicazione del Fuoco. La Duse pensava che il libro si sarebbe rivelato una sua apologia, ma, nel leggerlo, si è resa conto che il suo amante l’aveva messa a nudo. Sconvolta, ha deciso di fermare tutto. Nello stesso periodo, mio padre aveva appena terminato di girare un film a Torino, che allora era la capitale cinematografica d’Italia. Erano gli esordi di questa nuova forma d’arte. Il film, un melodramma di venticinque minuti, ha avuto un grosso successo in Inghilterra. Mio padre ne era l’interprete principale e la sua partner era mia madre: Bice Valerian. Si conoscevano da due anni. Prima di incontrarlo e di innamorarsi di lui, era fidanzata con il principe Valerian. Il suo pseudonimo proveniva da quella relazione. Lei e mio padre si sono messi insieme immediatamente. In teatro si era specializzata nella commedia, ma avrebbe poi interpretato soprattutto ruoli drammatici per il cinema emergente.
Sono poi entrati a far parte dell’Itala Film, con Giovanni Pastrone. Nel 1913, mio padre ha realizzato il primo western italiano, La vampira indiana, in cui mia madre interpretava la parte di una pellerossa. Qualche anno prima, però, aveva notato un facchino nel porto di Genova: si trattava di Bartolomeo Pagano, che sarebbe diventato famoso interpretando Maciste. Ha recitato in Cabiria, film di successo di Pastrone, a cui Griffith ha risposto, due anni più tardi, con Intolerance… Anche mio padre ha realizzato un Maciste.***
Ha recitato ancora nei film che dirigeva?
Sì. Fino al 1920. Poi si è dedicato solo alla regia.
Proprio prima della Grande guerra, il cinema ha cominciato a essere preso sul serio in Italia.
Esatto. E questo ha permesso a mio padre di riconciliarsi con la sua famiglia. Ciò nonostante, ha mantenuto lo pseudonimo. Aveva un certo successo con quel nome. Lavorava molto.
Nel 1915, mia madre ha smesso di recitare. Allora, mio padre ha girato dei film con Lyda Borelli, Pina Menichelli, Italia Almirante Manzini… Sempre storie d’amore che piacevano al pubblico. Ma la produzione cinematografica italiana si è interrotta durante la guerra. Anche se non è stato chiamato a combattere perché soffriva di soffio al cuore, mio padre per diversi mesi non ha potuto girare alcuna pellicola.
È stato allora che una nuova diva ha fatto la sua apparizione. La diva delle dive: Francesca Bertini. Lavorava per il produttore Giuseppe Barattolo che poco prima aveva fondato l’Unione cinematografica italiana. I suoi film hanno ottenuto un successo enorme. A cominciare dal 1915, con Assunta Spina di Gustavo Serena, che è stato un trionfo. E la Bertini è arrivata a incassare dei cachet favolosi. A questo proposito, esiste un gustoso aneddoto. Un giorno, Febo Mari doveva girare una scena con lei. Lui all’epoca era un attore importante, un «trombone», uno di quelli che recitavano con voce bassa e potente, un po’ come Vittorio Gassman… ed era capace di piangere a comando. Per quella scena, Febo Mari chiede alla Bertini di piangere. Lei annuisce. E domanda delle cipolle o del mentolo. Lui protesta. Afferma che bisogna piangere da dentro. Da soli. Si concentra. E fa lì per lì una dimostrazione, mettendosi a piangere come una fontana. Allora, la Bertini lo indica a tutta la compagnia. E dice: «Sapete perché piange quest’uomo? Perché sa perfettamente che lui due milioni di lire a film non li guadagnerà mai». A quell’epoca, con due milioni ci potevi comprare quasi tutta Roma. E la Bertini arrivava a queste cifre per ogni pellicola girata. Le riprese duravano solo quattro settimane. Faceva otto film all’anno!
Terminata la guerra, Barattolo ha fondato la Bertini Film. Per dirigerla, ha fatto venire un regista tedesco, che ha realizzato dei fiaschi terribili. Per la gioia di Carmine Gallone che portava in scena la concorrente della Bertini: Soava Gallone.
Mio padre ha preso il posto di questo tedesco, salvando la situazione. Uno dei loro film ha battuto tutti i record al botteghino: La contessa Sara. È rimasto in cartellone per più di tre anni. Non si era mai vista una cosa del genere. Conservo una lettera che l’attore Amleto Novelli ha scritto a mio padre, in cui gli raccontava di aver visto il film seduto a fianco di Carmine Gallone. A suo dire, nel silenzio della sala, si sentiva una sola frase, instancabilmente ripetuta da Gallone: «È resuscitata!».
Fino al 1928, mio padre e Francesca Bertini hanno girato decine di film insieme: La donna nuda, La serpe, Amore di donna, La principessa Giorgio, La sfinge, Maddalena Ferat ecc…
Qual è stata la reazione di suo padre all’ascesa del fascismo?
Mio padre era il presidente dell’Associazione dei registi italiani. Era molto conosciuto. Ma era un napoletano, e un romantico… Come tanti altri, ha creduto a Mussolini. In seguito, è divenuto comunista. A quell’epoca ha preso la tessera del partito fascista, ma la sua adesione è stata breve. È durata quattro giorni. Fino a quando alcuni militanti sono venuti a chiedergli di ripagare la quota di iscrizione. Avevano avuto dei problemi perché il loro tesoriere era fuggito portando con sé la cassa. Mio padre ha risposto: «Bene! Capisco. Siete dei ladri come gli altri. Con me avete chiuso. Non voglio più la tessera». E non è mai più stato fascista.
In quegli anni i fascisti hanno penalizzato suo padre?
Essendo il presidente dell’Associazione dei registi italiani, ha subito avuto dei problemi. Ma questo non gli ha impedito di continuare a lavorare. Inoltre, nel 1925, Mussolini gli ha sottoposto un suo romanzo perché ne facesse un film. Mio padre lo ha letto e ha gentilmente declinato la proposta, però ciò equivaleva a dire: «Mi spiace, eccellenza, questo romanzo fa schifo». Il duce ha incassato il rifiuto, ma non ha fatto altrettanto il ministro del cinema, Bottai. Ha messo mio padre nel mirino. Nonostante tutto, lui ha continuato a lavorare e, nel 1928, ha scoperto Lido Manetti. Lo ha fatto debuttare in Fra’ Diavolo. Dopo questa pellicola, Manetti è stato scritturato a Hollywood. La Fox voleva farne il nuovo Rodolfo Valentino e, nel giro di tre anni, è diventato una star. Finché un giorno un’automobile non lo ha investito di proposito all’ingresso degli studios. Un assassinio organizzato dalla mafia ebraica, che da sempre era legata a doppio filo con l’ambiente cinematografico. Non poteva esserci un altro italiano in grado di sostituire Rodolfo Valentino…
Alla fine degli anni venti, molti registi e attori tedeschi erano andati a Hollywood. Come aveva fatto Lubitsch. Di fronte a questa fuga, Berlino ha chiamato in soccorso alcuni registi italiani. È per questo che Pola Negri ha proposto a mio padre di lavorare con lei. In quel periodo, però, mia madre era incinta di me. In quattordici anni di matrimonio, non avevano mai avuto figli! Sembrava un miracolo… Mio padre si è trovato davanti a questa scelta: trasferirsi all’estero per lavorare con Pola Negri o rimanere a Roma con mia madre, che non voleva lasciare l’Italia. Non ha accettato l’offerta. E io sono nato a Roma.
Mario Camerini è stato suo padrino?
Sì. Era entrato nel mondo del cinema grazie alla protezione di suo cugino Augusto Genina. In seguito, mio padre lo ha preso come assistente. Quando sono nato, stava cominciando a fare film. È diventato molto importante negli anni trenta.
Nel 1930 c’è stata una grande crisi economica in Italia…
Non c’erano più soldi. Il cinema ne ha risentito. In quanto presidente dell’Associazione dei registi italiani, mio padre si è recato da Bottai per proporgli la creazione di cooperative. Il ministro si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. 1. Origini
  5. 2. C’era una volta un bambino
  6. 3. La guerra
  7. 4. La formazione
  8. 5. Un bugiardo seriale
  9. 6. Ben-Hur
  10. 7. Il colosso di Rodi
  11. 8. Il collezionista
  12. 9. Per un pugno di dollari
  13. 10. Per qualche dollaro in più
  14. 11. Il buono, il brutto, il cattivo
  15. 12. C’era una volta il West
  16. 13. Giù la testa
  17. 14. Un regista produttore
  18. 15. C’era una volta in America
  19. 16. L’ultimo piano sequenza
  20. Ringraziamenti