Dell'arte della guerra
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Dell'arte della guerra

Informazioni su questo libro

"Deliberai, per non passare questi mia oziosi tempi sanza operare alcuna cosa, di scrivere, a sodisfazione di quegli che delle antiche azioni sono amatori, della arte della guerra quello che io ne intenda. E benché sia cosa animosa trattare di quella materia della quale altri non ne abbia fatto professione, nondimeno [...] gli errori che io facessi, scrivendo, possono essere sanza danno d'alcuno corretti, ma quegli i quali da loro sono fatti, operando, non possono essere, se non con la rovina degli imperii, conosciuti."Scritto attorno al 1520, il dialogo "Dell'arte della guerra" è l'unica opera storico-politica di Machiavelli pubblicata mentre l'autore era ancora in vita.Ledizioni ripubblica in formato epub quest'opera fuori diritti.

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Informazioni

2

Libro secondo

Io credo che sia necessario, trovati che sono gli uomini, armargli; e volendo fare questo, credo sia cosa necessaria esaminare che arme usavano gli antichi, e di quelle eleggere le migliori. I Romani dividevano le loro fanterie in gravemente e leggermente armate. Quelle dell’armi leggieri chiamavano con uno vocabolo Veliti. Sotto questo nome s’intendevano tutti quegli che traevano con la fromba, con la balestra, co’ dardi, e portavano la maggior parte di loro, per loro difesa, coperto il capo e come una rotella in braccio. Combattevano costoro fuora degli ordini e discosti alla grave armadura; la quale era una celata che veniva infino in sulle spalle, una corazza che con le sue falde perveniva infino alle ginocchia; e avevano le gambe e le braccia coperte dagli stinieri e da’ bracciali, con uno scudo imbracciato lungo due braccia e largo uno, il quale aveva un cerchio di ferro di sopra, per potere sostenere il colpo, e un altro di sotto, acciò che, in terra stropicciandosi, non si consumasse. Per offendere avevano cinta una spada in sul fianco sinistro lunga uno braccio e mezzo, in sul fianco destro uno stiletto. Avevano uno dardo in mano, il quale chiamavono pilo, e nello appiccare la zuffa lo lanciavano al nimico. Questa era la importanza delle armi romane, con le quali eglino occuparono tutto el mondo. E benché alcuni di questi antichi scrittori dieno loro, oltre alle predette armi, una asta in mano in modo che uno spiede, io non so come una asta grave si possa da chi tiene lo scudo adoperare; perché, a maneggiarla con due mani, lo scudo lo impedisce, con una, non può fare cosa buona per la gravezza sua. Oltre a questo, combattere nelle frotte e negli ordini con l’arme in asta è inutile, eccetto che nella prima fronte dove si ha lo spazio libero a potere spiegare tutta l’asta; il che negli ordini dentro non si può fare, perché la natura delle battaglie, come nello ordine di quelle vi dirò, è continuamente ristringersi; perché si teme meno questo, ancora che sia inconveniente, che il rallargarsi, dove è il pericolo evidentissimo. Tal che tutte le armi che passano di lunghezza due braccia, nelle stretture sono inutili; perché se voi avete l’asta e vogliate adoperarla a due mani, posto che lo scudo non vi noiasse, non potete offendere con quella uno nimico che vi sia addosso. Se voi la prendete con una mano, per servirvi dello scudo, non la potendo pigliare se non nel mezzo, vi avanza tanta asta dalla parte di dietro, che quelli che vi sono di dietro v’impediscono a maneggiarla. E che sia vero, o che i Romani non avessono queste aste, o che, avendole, se ne valessono poco, leggete tutte le giornate nella sua Istoria da Tito Livio celebrate, e vedrete, in quelle radissime volte essere fatta menzione delle aste; anzi sempre dice che, lanciati i pili, ei mettevano mano alla spada. Però io voglio lasciare queste aste e attenermi, quanto a’ Romani, alla spada per offesa e, per difesa allo scudo con l’altre armi sopradette. I Greci non armavono sì gravemente per difesa come i Romani, ma, per offesa si fondavono più in su l’asta che in su la spada, e massime le falangi di Macedonia, le quali portavano aste che chiamavono sarisse, lunghe bene dieci braccia, con le quali eglino aprivono le stiere nimiche e tenevano gli ordini nelle loro falangi. E benché alcuni scrittori dicono ch’egli avevano ancora lo scudo, non so, per le ragioni dette di sopra, come e’ potevano stare insieme le sarisse e quegli. Oltre a questo, nella giornata che fece Paulo Emilio con Persa re di Macedonia, non mi ricorda che vi sia fatta menzione di scudi, ma solo delle sarisse e delle difficultà che ebbe lo esercito romano a vincerle. In modo che io conietturo che non altrimenti fusse una falange macedonica, che si sia oggi una battaglia di Svizzeri, i quali hanno nelle picche tutto lo sforzo e tutta la potenza loro. Ornavano i Romani, oltre alle armi, le fanterie con pennacchi; le quali cose fanno l’aspetto d’uno esercito agli amici bello, a’ nimici terribile. L’armi degli uomini a cavallo, in quella prima antichità romana, erano uno scudo tondo, ed avevano coperto il capo e il resto era disarmato. Avevano la spada, e una asta con il ferro solamente dinanzi, lunga e sottile, donde venivano a non potere fermare lo scudo; e l’asta nello agitarsi si fiaccava, ed essi, per essere disarmati, erano esposti alle ferite. Di poi con il tempo si armarono come i fanti; ma avevano lo scudo più breve e quadrato e l’asta più ferma e con due ferri, acciò che, scollandosi da una parte, si potessero valere dell’altra. Con queste armi, così di piede come di cavallo, occuparono i miei Romani tutto il mondo; ed è credibile, per il frutto che se ne vide, che fussono i meglio armati eserciti che fussero mai. E Tito Livio nelle sue Istorie ne fa fede assai volte dove, venendo in comparazione degli eserciti nimici, dice: «Ma i Romani per virtù, per generazione di armi e disciplina erano superiori»; e però io ho più particolarmente ragionato delle armi de’ vincitori che de’ vinti. Parmi bene solo da ragionare del modo dello armare presente. Hanno i fanti, per loro difesa, uno petto di ferro e, per offesa, una lancia nove braccia lunga, la quale chiamano picca, con una spada al fianco piuttosto tonda nella punta che acuta. Questo è l’armare ordinario delle fanterie d’oggi, perché pochi ne sono che abbiano armate le stiene e le braccia, niuno il capo; e quelli pochi portano in cambio di picca una alabarda, l’asta della quale, come sapete, è lunga tre braccia e ha il ferro ritratto come una scure. Hanno tra loro scoppiettieri, i quali, con lo impeto del fuoco, fanno quello ufficio che facevano anticamente i funditori e i balestrieri. Questo modo dello armare fu trovato da’ populi tedeschi e massime dai Svizzeri; i quali, sendo poveri e volendo vivere liberi, erano e sono necessitati combattere con la ambizione de’ principi della Magna; i quali, per essere ricchi, potevano nutrire cavagli, il che non potevano fare quelli popoli per la povertà; onde ne nacque che, essendo a piè e volendosi difendere da’ nimici che erano a cavallo, convenne loro ricercare degli antichi ordini e trovare arme che dalla furia de’ cavagli gli difendesse. Questa necessità ha fatto o mantenere o ritrovare a costoro gli antichi ordini, sanza quali, come ciascuno prudente afferma, la fanteria è al tutto inutile. Presono pertanto per arme le picche, arme utilissima non solamente a sostenere i cavagli, ma a vincergli. E hanno per virtù di queste armi e di questi ordini presa i Tedeschi tanta audacia, che quindici o ventimila di loro assalterebbero ogni gran numero di cavagli; e di questo da venticinque anni in qua se ne sono vedute esperienze assai. E sono stati tanto possenti gli esempli della virtù loro fondati in su queste armi e questi ordini, che poi che il re Carlo passò in Italia, ogni nazione gli ha imitati; tanto che gli eserciti spagnuoli sono divenuti in una grandissima reputazione.
COSIMO Quale modo di armare lodate voi più: o questo tedesco o lo antico romano?
FABRIZIO Il romano sanza dubbio; e dirovvi il bene e il male dell’uno e dell’altro. I fanti tedeschi così armati possono sostenere e vincere i cavagli; sono più espediti al cammino e all’ordinarsi, per non essere carichi d’armi. Dall’altra parte sono esposti a tutti i colpi, e discosto e d’appresso, per essere disarmati; sono inutili alle battaglie delle terre e ad ogni zuffa dove sia gagliarda resistenza. Ma i Romani sostenevano e vincevano i cavagli, come questi; erano securi da’ colpi da presso e di lontano, per essere coperti d’armi; potevano meglio urtare e meglio sostenere gli urti, avendo gli scudi; potevano più attamente nelle presse valersi con la spada che questi con la picca; e se ancora hanno la spada, per essere sanza lo scudo, ella diventa in tale caso inutile. Potevano securamente assaltare le terre, avendo il capo coperto e potendoselo meglio coprire con lo scudo. Talmente che ei non avevano altra incommodità che la gravezza dell’armi e la noia dello averle a condurre; le quali cose essi superavano con lo avvezzare il corpo a’ disagi e con indurirlo a potere durare fatica. E voi sapete come nelle cose consuete gli uomini non patiscono. E avete ad intendere questo: che le fanterie possono avere a combattere con fanti e con cavagli, e sempre fieno inutili quelle che non potranno o sostenere i cavagli, o, potendoli sostenere, abbiano nondimeno ad avere paura di fanterie che sieno meglio armate e meglio ordinate che loro. Ora se voi considererete la fanteria tedesca e la romana, voi troverrete nella tedesca attitudine, come abbiamo detto, a vincere i cavagli, ma disavvantaggio grande quando combatte con una fanteria ordinata come loro e armata come la romana. Tale che vi sarà questo vantaggio dall’una all’altra: che i Romani potranno superare i fanti e i cavagli, i Tedeschi solo i cavagli.
COSIMO Io disidererei che voi venissi a qualche esempio più particolare, acciò che noi lo intendessimo meglio.
FABRIZIO Dico così: che voi troverrete, in molti luoghi delle istorie nostre, le fanterie romane avere vinti innumerabili cavagli, e mai troverrete ch’elle siano state vinte da uomini a piè, per difetto ch’ell’abbiano avuto nell’armare, o per vantaggio che abbia avuto il nimico nell’armi. Perché, se il modo del loro armare avesse avuto difetto, egli era necessario che seguisse l’una delle due cose: o che, trovando chi armasse meglio di loro, ei non andassono più avanti con gli acquisti, o che pigliassero de’ modi forestieri e lasciassero i loro. E perché non seguì né l’una cosa né l’altra, ne nasce che si può facilmente conietturare che il modo dell’armare loro fusse migliore che quello di alcuno altro. Non è già così intervenuto alle fanterie tedesche, perché si è visto fare loro cattiva pruova qualunque volta quelle hanno avuto a combattere con uomini a piè, ordinati e ostinati come loro; il che è nato dal vantaggio che quelle hanno riscontro nelle armi nimiche. Filippo Visconti, duca di Milano, essendo assaltato da diciottomila Svizzeri, mandò loro incontro il conte Carmignuola, il quale allora era suo capitano. Costui con seimila cavagli e pochi fanti, gli andò a trovare, e, venendo con loro alle mani, fu ributtato con suo danno gravissimo. Donde il Carmignuola, come uomo prudente, subito conobbe la potenza dell’armi nimiche, e quanto contro a’ cavagli le prevalevano, e la debolezza de’ cavagli contro a quegli a piè così ordinati; e rimesso insieme le sue genti, andò a ritrovare i Svizzeri e, come fu loro propinquo, fece scendere da cavallo le sue genti d’armi; e in tale maniera combattendo con quegli, tutti, fuora che tremila, gli ammazzò; i quali, veggendosi consumare sanza avere rimedio, gittate l’armi in terra, si arrenderono.
COSIMO Donde nasce tanto disavvantaggio?
FABRIZIO Io ve l’ho poco fa detto; ma poiché voi non lo avete inteso, io ve lo replicherò. Le fanterie tedesche, come poco fa vi si disse, quasi disarmate per difendersi, hanno, per offendere, la picca e la spada. Vengono con queste armi e con gli loro ordini a trovare il nimico, il quale, se è bene armato per difendersi, come erano gli uomini d’arme del Carmignuola che gli fece scendere a piè, viene con la spada e ne’ suoi ordini a trovargli; e non ha altra difficultà che accostarsi a’ Svizzeri tanto che gli aggiunga con la spada; perché, come gli ha aggiunti, li combatte securamente, perché il tedesco non può dare con la picca al nimico che gli è presso per la lunghezza dell’asta, e gli conviene mettere mano alla spada, la quale è a lui inutile, sendo egli disarmato e avendo all’incontro uno nimico che sia tutto armato. Donde chi considera il vantaggio e il disavvantaggio dell’uno e dell’altro, vedrà come il disarmato non vi arà rimedio veruno; e il vincere la prima punga e passare le prime punte delle picche non è molta difficultà, sendo bene armato chi le combatte; perché le battaglie vanno (come voi intenderete meglio, quando io vi arò dimostro com’elle si mettono insieme) e, andando, di necessità si accostano in modo l’una all’altra, ch’elle si pigliano per il petto; e se dalle picche ne è alcuno morto o gittato per terra, quegli che rimangono in piè sono tanti che bastano alla vittoria. Di qui nacque che il Carmignuola vinse con tanta strage de’ Svizzeri e con poca perdita de’ suoi.
COSIMO Considerate che quegli del Carmignuola furono uomini d’arme, i quali, benché fussero a piè, erano coperti tutti di ferro, e però poterono fare la pruova che fecero; sì che io mi penso che bisognasse armare una fanteria come loro, volendo fare la medesima pruova.
FABRIZIO Se voi vi ricordassi come io dissi che i Romani armavano, voi non penseresti a cotesto, perché uno fante che abbia il capo coperto dal ferro, il petto difeso dalla corazza e dallo scudo, le gambe e le braccia armate, è molto più atto a difendersi dalle picche ed entrare tra loro, che non è uno uomo d’arme a piè. Io ne voglio dare un poco di esemplo moderno. Erano scese di Sicilia nel regno di Napoli fanterie spagnuole, per andare a trovare Consalvo, che era assediato in Barletta da’ Franzesi. Fecesi loro incontro monsignore d’Ubignì con le sue genti d’arme e con circa quattromila fanti tedeschi. Vennero alle mani i Tedeschi. Con le loro picche basse apersero le fanterie spagnuole, ma quelle, aiutate da’ loro brocchieri e dall’agilità del corpo loro, si mescolarono con i Tedeschi, tanto che gli poterono aggiugnere con la spada; donde ne nacque la morte, quasi, di tutti quegli e la vittoria degli Spagnuoli. Ciascuno sa quanti fanti tedeschi morirono nella giornata di Ravenna; il che nacque dalle medesime cagioni: perché le fanterie spagnuole si accostarono al tiro della spada alle fanterie tedesche, e le arebbero consumate tutte, se da’ cavagli franzesi non fussero i fanti tedeschi stati soccorsi; nondimeno gli Spagnuoli, stretti insieme, si ridussero in luogo securo. Concludo, adunque, che una buona fanteria dee non solamente potere sostenere i cavagli, ma non avere paura de’ fanti; il che, come ho molte volte detto procede dall’armi e dall’ordine.
COSIMO Dite, pertanto, come voi l’armeresti.
FABRIZIO Prenderei delle armi romane e delle tedesche, e vorrei che la metà fussero armati come i Romani e l’altra metà come i Tedeschi. Perché, se in seimila fanti, come io vi dirò poco di poi, io avessi tremila fanti con gli scudi alla romana e dumila picche e mille scoppiettieri alla tedesca, mi basterebbono; perché io porrei le picche o nella fronte delle battaglie, o dove io temessi più de’ cavagli; e di quelli dello scudo e della spada mi servirei per fare spalle alle picche e per vincere la giornata, come io vi mostrerò. Tanto che io crederrei che una fanteria così ordinata superasse oggi ogni altra fanteria.
COSIMO Questo che è detto ci basta quanto alle fanterie, ma quanto a’ cavagli disideriamo intendere quale vi pare più gagliardo armare, o il nostro o l’antico?
FABRIZIO Io credo che in questi tempi, rispetto alle selle arcionate e alle staffe non usate dagli antichi, si stia più gagliardamente a cavallo che allora. Credo che si armi anche più sicuro, tale che oggi uno squadrone di uomini d’arme, pesando assai, viene ad essere con più difficultà sostenuto che non erano gli antichi cavagli. Con tutto questo, nondimeno, io giudico che non si debba tenere più conto de’ cavagli, che anticamente se ne tenesse; perché, come di sopra si è detto, molte volte ne’ tempi nostri hanno con i fanti ricevuta vergogna, e la riceveranno, sempre che riscontrino una fanteria armata e ordinata come di sopra. Aveva Tigrane, re d’Armenia, contro allo esercito romano del quale era capitano Lucullo, cento cinquantamila cavagli, tra li quali erano molti armati come gli uomini d’arme nostri, i quali chiamavano catafratti; e dall’altra parte i Romani non aggiugnevano a seimila, con venticinquemila fanti, tanto che Tigrane, veggendo l’esercito de’ nimici disse: – Questi sono cavagli assai per una ambasceria; – nondimeno, venuto alle mani, fu rotto. E chi scrive quella zuffa vilipende quelli catafratti mostrandogli inutili, perché dice che, per avere coperto il viso, erano poco atti a vedere e offendere il nimico e, per essere aggravati dall’armi, non potevano, cadendo, rizzarsi né della persona loro in alcuna maniera valersi. Dico, pertanto, che quegli popoli, o regni, che istimeranno più la cavalleria che la fanteria, sempre fieno deboli ed esposti a ogni rovina, come si è veduta l’Italia ne’ tempi nostri; la quale è stata predata, rovinata e corsa da’ forestieri, non per altro peccato che per avere tenuta poca cura della milizia di piè, ed essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo. Debbesi bene avere de’ cavagli, ma per secondo e non per primo fondamento dello esercito suo; perché, a fare scoperte, a correre e guastare il paese nimico, a tenere tribolato e infestato l’esercito di quello e in sull’armi sempre, a impedirgli le vettovaglie, sono necessarii e utilissimi; ma, quanto alle giornate e alle zuffe campali che sono la importanza della guerra e il fine a che si ordinano gli eserciti, sono più utili a seguire il nimico, rotto ch’egli è, che a fare alcuna altra cosa che in quelle si operi, e sono alla virtù del peditato assai inferiori.
COSIMO E’ mi occororno due dubitazioni; l’una, che io so che i Parti non operavano in guerra altro che i cavagli, e pure si divisono il mondo con i Romani; l’altra, che io vorrei che voi mi dicessi come la cavalleria puote essere sostenuta da’ fanti, e donde nasca la virtù di questi e la debolezza di quella.
FABRIZIO O io vi ho detto, o io vi ho voluto dire, come il ragionamento mio delle cose della guerra non ha a passare i termini d’Europa. Quando così sia, io non vi sono obligato a rendere ragione di quello che si è costumato in Asia. Pure io v’ho a dire questo: che la milizia de’ Parti era al tutto contraria a quella de’ Romani, perché i Parti militavano tutti a cavallo e, nel combattere, procedevano confusi e rotti ed era uno modo di combattere instabile e pieno di incertitudine. I Romani erano, si può dire, quasi tutti a piè e combattevano stretti insieme e saldi; e vinsono variamente l’uno l’altro secondo il sito largo o stretto; perché, in questo, i Romani erano superiori, in quello, i Parti; i quali poterono fare gran pruove con quella milizia, rispetto alla regione che loro avevano a difendere; la quale era larghissima, perché ha le marine lontane mille miglia, i fiumi l’uno dall’altro due o tre giornate, le terre medesimamente e gli abitatori radi; di modo che uno esercito romano, grave e tardo per l’armi e per l’ordine, non poteva cavalcarlo sanza suo grave danno, per essere chi lo difendeva a cavallo ed espeditissimo, in modo ch’egli era oggi in uno luogo, e domani discosto cinquanta miglia; di qui nacque, che i Parti poterono prevalersi con la cavalleria sola e la rovina dell’esercito di Crasso e i pericoli di quello di Marco Antonio. Ma io, come v’ho detto, non intendo in questo mio ragionamento parlare della milizia fuora d’Europa; però voglio stare in su quello che ordinarono già i Romani e i Greci, e oggi fanno i Tedeschi. Ma vegnamo all’altra domanda vostra, dove voi disiderate intendere quale ordine o quale virtù naturale fa che i fanti superano la cavalleria. E vi dico, in prima, come i cavagli non possono andare, come i fanti, in ogni luogo. Sono più tardi a ubbidire, quando occorre variare l’ordine, che i fanti; perché, s’egli è bisogno o andando avanti tornare indietro, o tornando indietro andare avanti, o muoversi stando fermi, o andando fermarsi, sanza dubbio non lo possono così appunto fare i cavagli come i fanti. Non possono i cavagli, sendo da qualche impeto disordinati, ritornare negli ordini se non con difficultà, ancora che quello impeto manchi; il che rattissimo fanno i fanti. Occorre, oltre a questo, molte volte, che uno uomo animoso sarà sopra uno cavallo vile e uno vile sopra uno animoso; donde conviene che queste disparitadi d’animo facciano disordine. Né alcuno si maravigli che uno nodo di fanti sostenga ogni impeto di cavagli, perché il cavallo è animale sensato e conosce i pericoli e male volentieri vi entra. E se considererete quali forze lo facciano andar avanti e quali lo tengano indietro, vedrete sanza dubbio essere maggiori quelle che lo ritengono che quelle che lo spingono; perché innanzi lo fa andar lo sprone, e dall’altra banda lo ritiene o la spada o la picca. Tale che si è visto per le antiche e per le moderne esperienze un nodo di fanti essere securissimo, anzi insuperabile da’ cavagli. E se voi arguissi a questo che la foga con la quale viene, lo fa più furioso a urtare chi lo volesse sostenere, meno stimare la picca che lo sprone, dico che, se il cavallo discosto comincia a vedere di avere a percuotere nelle punte delle picche, o per se stesso egli raffrenerà il corso, di modo che come egli si sentirà pugnere si fermerà affatto, o, giunto a quelle, si volterà a destra o a sinistra. Di che se volete fare esperienza, provate a correre un cavallo contro a un muro; radi ne troverrete che, con quale vi vogliate foga, vi dieno dentro. Cesare, avendo in Francia a combattere con i Svizzeri, scese e fece scendere ciascuno a piè e rimuovere dalla schiera i cavagli, come cosa più atta a fuggire che a combattere. Ma, nonostante questi naturali impedimenti che hanno i cavagli, quello capitano che conduce i fanti, debbe eleggere vie che abbiano per i cavagli più impedimenti si può; e rado occorrerà che l’uomo non possa assicurarsi per la qualità del paese. Perché, se si cammina per le colline, il sito ti libera da quelle foghe di che voi dubitate; se si va per il piano, radi piani sono che, per le colture o per li boschi, non ti assicurino; perché ogni macchia, ogni argine, ancora debole, toglie quella foga, e ogni coltura, dove sia vigne e altri arbori, impedisce i cavagli. E se tu vieni a giornata, quello medesimo ti interviene che camminando, perché ogni poco di impedimento che il cavallo abbia, perde la foga sua. Una cosa nondimeno non voglio scordare di dirvi: come i Romani istimavano tanto i loro ordini e confidavono tanto nelle loro armi, che se gli avessono avuto ad eleggere o un luogo sì aspro per guardarsi dai cavagli, dove ei non avessono potuti spiegare gli ordini loro, o uno dove avessono avuto a temere più de’ cavagli, ma vi si fussono potuti distendere, sempre prendevano questo e lasciavano quello. Ma perch’egli è tempo passare allo esercizio, avendo armate queste fanterie secondo lo antico e moderno uso, vedreno quali esercizi facevano loro fare i Romani, avanti che le fanterie si conduchino a fare giornata. Ancora ch’elle siano bene elette e meglio armate, si deono con grandissimo studio esercitare, perché sanza questo esercizio mai soldato alcuno non fu buono. Deono essere questi esercizi tripartiti: l’uno, per indurare il corpo e farlo atto a’ disagi e più veloce e più destro; l’altro, per imparare ad operare l’armi; il terzo, per imparare ad osservare gli ordini negli eserciti, così nel camminare, come nel combattere e nello alloggiare. Le quali sono le tre principali azioni che faccia uno esercito; perché, se uno esercito cammina, alloggia e combatte ordinatamente e praticamente, il capitano ne riporta l’onore suo, ancora che la giornata avesse non buono fine. Hanno pertanto a questi esercizi tutte le republiche antiche provvisto in modo, per costume e per legge, che non se ne lasciava indietro alcuna parte. Esercitavano adunque la loro gioventù per fargli veloci nel correre, per fargli destri nel saltare, per fargli forti a trarre il palo o a fare alle braccia. E queste tre qualità sono quasi che necessarie in uno soldato, perché la velocità lo fa atto a preoccupare i luoghi al nimico, a giugnerlo insperato e inaspettato, a seguitarlo quando egli è rotto. La destrezza lo fa atto a schifare il colpo, a saltare una fossa, a superare uno argine. La fortezza lo fa meglio portare l’armi, urtare il nimico, sostenere uno impeto. E sopratutto, per fare il corpo più atto a’ disagi, si avvezzavano a portare gran pesi. La quale consuetudine è necessaria, perché nelle espedizioni difficili conviene molte volte che il soldato oltre all’armi, porti da vivere per più giorni; e se non fusse assuefatto a questa fatica non potrebbe farlo; e per questo o e’ non si potrebbe fuggire uno pericolo o acquistare con fama una vittoria. Quanto ad imparare ad operare l’armi, gli esercitavano in questo modo. Volevano che i giovani si vestissero armi che pesassero più il doppio che le vere, e per spada davano loro uno bastone piombato il quale, a comparazione di quella, era gravissimo. Facevano a ciascuno di loro ficcare uno palo in terra che rimanesse alto tre braccia, e in modo gagliardo, che i colpi non lo fiaccassero o atterrassono; contro al quale palo il giovane con lo scudo e col bastone, come contro a uno nimico, si esercitava; e ora gli tirava come se gli volesse ferire la testa o la faccia, ora come se lo volesse percuotere per fianco, ora per le gambe, ora si tirava indietro, ora si faceva innanzi. E avevano, in questo esercizio, questa avvertenza: di farsi atti a coprire sé e ferire il nimico; e avendo l’armi finte gravissime, parevano di poi loro le vere più leggieri. Volevano i Romani che i loro soldati ferissono di punta e non di taglio, sì per essere il colpo più mortale e avere manco difesa, sì per scoprirsi meno chi ferisse ed essere più atto a raddoppiarsi che il taglio. Né vi maravigliate che quegli antichi pensassero a queste cose minime, perché, dove si ragiona che gli uomini abbiano a venire alle mani, ogni piccolo vantaggio è di gran momento; e io vi ricordo quello che di questo gli scrittori ne dicano, piuttosto che io ve lo insegni. Né istimavano gli antichi cosa più felice in una republica, che essere in quella assai uomini esercitati nell’armi; perché non lo splendore delle gemme e dell’oro fa che i nimici ti si sottomettono, ma solo il timore dell’armi. Di poi gli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Sommario
  5. Proemio di Niccolò Machiavegli, cittadino e segretario fiorentino sopr'al libro dell'arte della guerra a Lorenzo di Filippo Strozzi patrizio fiorentino.
  6. Libro primo
  7. Libro secondo
  8. Libro terzo
  9. Libro quarto
  10. Libro quinto
  11. Libro sesto
  12. Libro settimo
  13. Figure
  14. Digital Classics