L’attribuzione del nome
Italia
Se è vero, da un lato, che il diritto al nome appartiene al più ampio catalogo dei diritti della personalità, dall’altro, come recita l’art. 6 c.c. e come ribadito dalla Corte Costituzionale alla fine degli anni ’80,
«oggetto del diritto dell’individuo all’identità personale, sotto il profilo del diritto al nome, non è la scelta del nome, bensì il nome che è per legge attribuito». Se dunque si può parlare di diritto al nome in relazione all’art. 22 Cost., specialmente se letto in combinato disposto con l’art. 2, esso non è né assoluto né svincolato dal contesto ordinamentale, ma anzi da esso ha la sua origine in quanto tale. Si mostrerà più avanti come lo scarto tra ordinamenti di common law e civil law in tema di nome risieda proprio nella differenza tra il diritto al nome come diritto alla libera scelta del nome e come diritto al nome per legge attribuito. Affermare che si ha diritto al solo nome che è per legge attribuito implica che la sua scelta è in qualche modo regolamentata e “guidata”, e dunque solo parzialmente libera. Il procedimento di attribuzione è regolato dal d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), così come novellato dal d.p.r. 13 marzo 2012, n. 54 (Norme in materia di disciplina del nome e del cognome).
Il primo esercizio del diritto al nome avviene consustanzialmente all’acquisizione della capacità giuridica, ovvero al momento della nascita. Essendo un diritto personalissimo e intrasmissibile, unico titolare ne è il minore, il quale non è tuttavia ancora in grado di esercitarlo a causa della tenera età. Per questo motivo, il diritto al nome, diversamente dagli altri diritti fondamentali, caratterizzabili tramite il concetto di autodeterminazione, non può essere immediatamente fatto valere dal soggetto. A ciò suppliscono i genitori (o il tutore), i quali, lungi quindi dal poter rivendicare un diritto riguardo l’attribuzione del nome del figlio, esercitano soltanto di comune accordo, una potestà temporanea, appartenente alla più ampia responsabilità genitoriale, nell’esclusivo interesse del minore stesso.
Per quanto riguarda il nome proprio, laddove, contestualmente alla dichiarazione di nascita, i genitori si rifiutino di dare un nome al minore, vi supplisce infatti prontamente l’ufficiale dello stato civile, così come nei casi di ritrovamento di minori abbandonati o i cui genitori siano sconosciuti. È fatto divieto in questa circostanza di attribuire nomi propri o cognomi che facciano intendere la nascita al di fuori del matrimonio o cognomi di importanza storica o appartenenti a famiglie particolarmente conosciute nel luogo in cui l’atto di nascita è formato. Sono previsti inoltre alcuni limiti alla scelta del nome del minore. Prima della riforma introdotta con d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, la disciplina previgente, di chiara ispirazione fascista, vietava di imporre al neonato il nome di parenti di primo grado, di utilizzare un cognome come nome proprio, nomi propri ridicoli o vergognosi o contrari al buon costume e al sentimento nazionale e religioso, così come nomi di località o denominazioni geografiche. Vietati erano pure i nomi propri di origine straniera, a meno che il bambino non fosse di cittadinanza diversa da quella italiana. La riforma del 2000 ha semplificato la lettera previgente, stabilendo soltanto che «è vietato imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi ridicoli o vergognosi». Scompaiono quindi tutti i riferimenti al buon costume e al sentimento nazionale e religioso, chiaramente in contrasto con alcuni principi costituzionali. Inoltre, essendo stato abrogato il divieto di assegnare nomi propri stranieri a minori aventi la cittadinanza italiana, adesso, è disposto che tali nomi debbano essere espressi mediante lettere dell’alfabeto italiano, con l’estensione alle lettere J, K, X, Y, W.
Rispetto alla vecchia disciplina, nel regolamento del 2000 è positivizzato l’obbligo, fino ad allora considerato una norma implicita, di attribuire un nome proprio che corrisponda al sesso del minore, composto anche da più elementi fino a un massimo di tre, che andranno sempre indicati in tutti i certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale dell’anagrafe.
Rispetto all’ordinamento previgente, l’ufficiale dello stato civile perde inoltre il suo vecchio potere surrogatorio e ha l’obbligo di assicurare in ogni caso la formazione dell’atto di nascita, anche laddove riscontri una evidente violazione della normativa, così da offrire agli interessati una maggiore garanzia giurisdizionale in un ambito di diritti personalissimo. L’ufficiale dello stato civile è però tenuto a darne immediatamente notizia alla Procura della Repubblica, la quale si attiverà per la richiesta di rettificazione in sede giudiziale.
Per quanto riguarda l’attribuzione del cognome, come è noto il nostro ordinamento non è dotato di una norma positiva in materia di trasmissione al figlio nato all’interno del matrimonio, benché sia profondamente radicata nella coscienza sociale la regola consuetudinaria (rectius: la norma implicita), divenuta ormai diritto vivente, secondo la quale tale figlio assume automaticamente il cognome del padre, considerato come cognome dell’intero nucleo familiare e condiviso pertanto da entrambi i coniugi e dalla figliolanza. Per quanto riguarda il figlio nato al di fuori del matrimonio, esso assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, ma se il riconoscimento è avvenuto congiuntamente da entrambi i genitori assume il cognome del padre. Se tuttavia la filiazione nei confronti del padre è stata riconosciuta successivamente a quella della madre, può scegliere se assumere il nuovo cognome aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Lo stesso dicasi per quanto riguarda il riconoscimento da parte di uno o di entrambi i genitori successivamente all’attribuzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile. In questo caso, laddove tale cognome sia divenuto segno distintivo della sua identità personale, il figlio può mantenerlo aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello del genitore che lo ha riconosciuto. Nel caso di minore età del figlio, spetta al giudice decidere circa l’assunzione del nuovo cognome del genitore che lo ha riconosciuto, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore, ove capace di discernimento. In tale circostanza, il giudice è investito della facoltà discrezionale di prendere in esame ognuna delle soluzioni possibili nell’interesse esclusivo del minore, con pregiudizio, se necessario, della automaticità nell’attribuzione del cognome paterno e della volontà dei genitori. Tant’è che a tutela proprio del minore e del suo diritto all’identità per...