Giro del mondo in una Coppa
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Giro del mondo in una Coppa

Informazioni su questo libro

Ventuno sono le edizioni della Coppa del Mondo. Quarantaquattro i passi di Maradona prima di segnare il leggendario gol contro l'Inghilterra. Tre i minuti che separano quel gol dalla piroetta diabolica della «Mano de Dios». Ancora tre sono i minuti – i più belli della storia – in cui il Brasile di Garrincha e Pelé segna e colpisce due pali contro l'Unione Sovietica. Duemilatrecentosettantanove sono le reti segnate dal 1930 al 2014. Zero le foto che immortalano la prima, segnata da Lucien Laurent il 13 luglio del 1930. Sette i secondi dell'urlo di Marco Tardelli che riempie le strade di una notte italiana. Ventitré sono i cuori che battono in campo, arbitro compreso. Ventitré uomini, ventitré storie da raccontare. Perché i Mondiali non sono solo un evento, non sono solo una sfida o una battaglia. Sono le vite di chi li gioca e li guarda. Sono corpi e ricordi. Sono le passioni di chi li ha vissuti, i volti di chi li ha animati, le voci di chi li ha raccontati. La voce di Stefano Bizzotto ha raccontato sfide memorabili. In questo Giro del mondo in una Coppa ci accompagna attraverso capolavori sportivi, incontri mancati con il destino, grandi e piccoli momenti di tragedia, generosità e trionfo. Saliamo con lui sull'autobus di linea che accompagna i giocatori dell'Uruguay a disputare la finale del 1930; ci accostiamo al prato di Pasa-dena su cui scivola Andrés Escobar; ci fermiamo al semaforo londinese che suggerisce all'arbitro Aston l'idea dei cartellini; entriamo nello stadio Monumental mentre Daniel Passarella solleva la coppa, a poche centinaia di metri dalle celle dove i desaparecidos ascoltano la partita alla radio; scendiamo a San Siro, davanti agli occhi azzurro tenebra di Buffon, in lacrime per il Mondiale che non giocherà mai più. Nulla può compensare la perdita dell'attesa, dell'ansia e della gioia che esplode in una sera d'estate, la luce azzurrina dei televisori tra le vie deserte, i bar che risuonano delle voci metalliche delle telecronache. Nulla se non le storie. Giro del mondo in una Coppa fa rivivere le partite attraverso le parole di Rivera e Mazzola, Thuram e Bierhoff, Paolo Rossi e Rummenigge; dipinge immagini con il profumo della pipa di Bearzot, la grinta di Tardelli, il genio spiritato di Maradona, la malinconia di Riquelme. Sedetevi comodi: i Mondiali cominciano adesso.

Domande frequenti

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Informazioni

eBook ISBN
9788865766392
Capitolo
1
Uruguay
1930

Autobus per
la vittoria

L’idea gli era entrata in testa una decina d’anni prima. Roba da togliergli il sonno la notte. «Ma come, il calcio ha diritto di cittadinanza all’Olimpiade, dove si affrontano i più forti, e non si riesce a organizzare qualcosa di equivalente fra un’edizione e l’altra dei Giochi? Assurdo!» Se lo chiedeva, e lo chiedeva a chiunque gli capitasse a tiro, Jules Rimet. Francese, classe 1873, una laurea in legge chiusa nel cassetto per dedicarsi da subito alla sua grande passione: il calcio, appunto. Tra i fondatori della fifa nel 1904, presidente dal 1921. Un tipo decisamente testardo.
Vagheggiava un torneo aperto a tutti, anche a chi aveva fatto del calcio un lavoro. Non molti, in quegli anni, ma il vento stava cambiando. Il pallone, nelle intenzioni di monsieur Rimet, doveva diventare strumento di emancipazione per chi – in special modo contadini e operai – partiva da una posizione sociale sfavorevole. Senza contare che già allora prendevano parte alle Olimpiadi giocatori (sudamericani, soprattutto) che poco o nulla avevano da spartire con lo stereotipo del dilettante. Gente che grazie al calcio si guadagnava da vivere, e piuttosto bene, peraltro. In una parola, professionisti; con tanti saluti al barone de Coubertin. E allora ecco il torneo, ed ecco la coppa messa in palio per chi vince: la Coppa del mondo. L’idea prende corpo in occasione del congresso Fifa del 1928 e viene messa ai voti: 23 favorevoli, 5 contrari, 1 astenuto. Il trofeo lo realizzerà un orafo parigino, Abel Lafleur. A finanziare l’opera, Jules Rimet in persona.
Ma a chi spetterà l’onore di organizzare il torneo? «Se non avete nulla in contrario, potremmo pensarci noi.» La proposta dell’Uruguay è quella che si usa chiamare una candidatura forte: la «Celeste» ha vinto le ultime due edizioni dell’Olimpiade. Le ha vinte in Europa (Parigi, Amsterdam), impartendo memorabili lezioni di calcio a chiunque incrociasse il suo cammino. Ma l’Uruguay non si limita a esibire i recenti successi sul campo, cala sul tavolo due carichi da undici: «Primo, le spese di viaggio e di alloggio le paghiamo noi. Secondo, siamo pronti a costruire uno stadio che vi lascerà a bocca aperta». L’Estadio del Centenario, cento come gli anni della costituzione uruguaiana. 80 mila spettatori circa, un vero gioiello architettonico. Almeno sulla carta, perché a 14 mesi dall’inizio del Mondiale di pronto esiste solo il progetto: le ruspe si mettono al lavoro il 1º febbraio 1930, la partita inaugurale è fissata per il 13 luglio.
Intanto, fioccano le defezioni. L’Europa, quella che conta, si tira indietro. Fra viaggio e permanenza in Uruguay, la trasferta durerebbe due mesi: uno scoglio insormontabile per i giocatori (la stragrande maggioranza) che hanno un lavoro. Puntano i piedi anche le Federazioni, che pensano soprattutto alla pianificazione dei rispettivi campionati. Una dopo l’altra si sfilano Italia e Austria, Spagna e Ungheria: «Grazie dell’invito ma se ne riparla un’altra volta, magari dalle nostre parti». Per tacere degli inglesi, campioni del mondo di presunzione, che mai si confronterebbero con avversari ritenuti non all’altezza. Lo faranno quattro anni dopo, invitando l’Italia fresca di titolo a misurarsi in un’amichevole, ben poco amichevole, che diverrà nota come la Battaglia di Highbury, e di cui parleremo in seguito.
Il bello è che fino all’ultimo resta in bilico persino la Francia. Per Jules Rimet sarebbe una figuraccia epocale, forse il capolinea della carriera di dirigente. Figuraccia evitata per un soffio, ma quella di Rimet è una vittoria a metà: della delegazione francese non fa parte l’allenatore Gaston Barreau. Lavora all’Accademia Musicale di Parigi e gli hanno negato quei due mesi di «vacanza», pena il licenziamento. La buona notizia per lui è che la federazione non lo scarica: tornerà a guidare la nazionale dopo il Mondiale e lo farà ininterrottamente fino al 1945, per poi riprendere l’incarico nel biennio 1953-1954. In tutto totalizzerà 197 panchine. Se fosse andato in Uruguay, avrebbe toccato quota duecento.
Alla fine, a rappresentare l’Europa restano in quattro: Romania, Jugoslavia, Belgio e, appunto, Francia. Serve una nave, che viene prontamente trovata. È il Conte Verde, realizzato nel 1921 nei cantieri Beardmore di Glasgow su incarico del Lloyd Sabaudo di Genova. Ed è da Genova che di solito salpa per il Sudamerica con il suo carico di uomini e merci. Per prima si imbarca la Romania. A proposito: come mai la Romania? Da quelle parti il calcio lo praticano in pochi, nel disinteresse generale. Possibile che una nazionale «giovanissima», istituita solo nel 1922, sia in grado di giocare il Mondiale? Possibile. Il motore dell’operazione è il re Carlo in persona, gli dicono che i giocatori convocabili sono tutti o quasi operai di una società inglese e che, tanto per cambiare, non possono assentarsi così a lungo. Il sovrano prende il telefono e fa capire ai datori di lavoro che, se non «liberano» gli operai-calciatori, farà chiudere la fabbrica. «Ci mancherebbe, Maestà, capiamo benissimo. Il Mondiale è il Mondiale. Prenda pure i giocatori di cui ha bisogno, qui faremo tutti il tifo per loro.» La Romania fa rotta su Genova e si imbarca sul Conte Verde. A Villefranche-sur-Mer sale la Francia, a Barcellona è la volta del Belgio. Quella belga è la delegazione più striminzita (22 giocatori più l’allenatore e 2 dirigenti), ma in compenso c’è un altro passeggero che viene da Bruxelles: è il signor John Langenus, l’arbitro più bravo e famoso del mondo che in Uruguay avrà un gran lavoro da sbrigare. La Jugoslavia invece si arrangia diversamente, prende un’altra nave a Marsiglia dopo aver viaggiato in treno per tre giorni e tre notti.
La traversata sul Conte Verde dura due settimane, con poche possibilità di praticare sport. I palloni finiscono quasi subito in mare, restano così gli immancabili esercizi atletici, qualche nuotata nella piscina della nave, il ping-pong e addirittura un po’ di boxe: questo, almeno, narrano le cronache. In compenso, pare che si mangi piuttosto bene: il belga Bernard Voorhoof, al suo arrivo in Uruguay, scoprirà di essere aumentato di ben 8 chili. Non è dato sapere se sia riuscito a smaltirli in tempo per l’inizio delle partite.
A bordo, naturalmente, non ci sono solo quelli che andranno a giocare il Mondiale. In mezzo a tanta bella gente spicca Fëdor Ivanovič Šaljapin, uno dei più conosciuti cantanti d’opera dell’epoca. A Rimet viene un’idea: «E se una sera cantasse per noi?». «Non ci penso nemmeno» risponde senza tanti giri di parole Šaljapin. E qui le versioni divergono: pare che la richiesta di soldi dell’artista sia stata respinta al mittente, ma c’è anche chi sostiene che il cantante fosse infastidito dal comportamento di quei giovanotti che nella vita non avevano nulla di meglio da fare che tirare calci a un pallone.
Niente concerto, insomma. Poco male. Intanto la nave va, il Rio de la Plata è sempre più vicino, la prima edizione del Mondiale anche. Peccato che in Uruguay il meteo abbia giocato «contro». È stato un autunno piovoso, e l’inizio dell’inverno promette neve. In sé nulla di eccezionale, solo che a Montevideo è in corso una lotta contro il tempo. Bisogna terminare la costruzione del Centenario entro il 13 luglio, giorno di Francia-Messico e Stati Uniti-Belgio, le prime due partite del Mondiale. Sono talmente fiduciosi, in Uruguay, da non aver neanche lontanamente pensato a un piano B. Le partite si disputeranno tutte al Centenario, costi quel che costi. Ma lo stadio, per il 13 luglio, non è pronto. Ci sono altri impianti, a Montevideo? Certo che ci sono: il Pocitos, quello del Peñarol, e il Parque Central. Si giocherà lì, sperando che al Centenario i lavori finiscano in fretta. Come passare da un hotel a cinque stelle a una pensioncina a conduzione familiare.
13 luglio 1930, ore 15. Si comincia. In campo Francia e Messico. Dal cielo cade qualche fiocco di neve. A rompere il ghiaccio è Lucien Laurent, di professione operaio alla Peugeot. Lui, il permesso per giocare il Mondiale, l’aveva avuto. Segna al volo, di destro. Non rimane alcuna immagine a fissare il primo gol della storia dei Mondiali, e così tante volte nella sua lunga vita Laurent prenderà carta e penna e disegnerà lo svolgimento dell’azione. Non contento, quasi novantenne tornerà in campo mimando a uso e consumo delle telecamere il gesto tecnico che, in una giornata di neve di tanti anni prima, gli ha consegnato un posto nella storia del calcio. Per la cronaca, Francia-Messico finisce 4-1. Gli spettatori del Pocitos sono, a essere generosi, un migliaio. Altro che gli 80 mila del Centenario.
A proposito, come procedono i lavori nel nuovo stadio? La scadenza adesso è diventata quella del 18 luglio, giorno del debutto della Celeste. L’impresa, alla fine, riesce. Uruguay-Perù si gioca nello stadio delle meraviglie. Sospiro di sollievo. Il cemento sulle tribune è ancora fresco, qualcuno appende dei cartelli con scritto «pericolo di crolli». Per molti è la prima occasione di vedere dal vivo la squadra che a suon di vittorie ha fatto innamorare un paese intero. Conoscono a memoria la formazione, a cominciare dal portiere Andrés Mazali, un mito. Calciatore ma non solo: campione uruguaiano di basket, medaglia d’oro ai Campionati sudamericani di atletica leggera nei 400 ostacoli. Eccola, la formazione scelta dall’allenatore Alberto Horacio Suppici: Ballesteros, Tejera, Nasazzi… Ballesteros? E Mazali che fine ha fatto? È successo che a un certo punto del lungo ritiro, durato ben due mesi, il portiere titolare non ce l’ha più fatta e ha lasciato l’albergo per un appuntamento galante. Al suo ritorno, ha trovato ad aspettarlo Suppici: «Ragazzo, le regole erano altre. Con me hai chiuso». Si dice che Mazali abbia tentato di giustificarsi sostenendo che la signora che aveva incontrato altri non era se non la moglie. Tutto inutile.
Mazali o Ballesteros, poco cambia. L’Uruguay macina vittorie su vittorie, e così l’Argentina. Si va verso la finale più attesa, quella più logica: la rivincita dell’Olimpiade del 1928. Strada facendo, accadono episodi curiosi, che lo scorrere del tempo e l’assenza di testimonianze scritte o visive relegano in una zona grigia fra la cronaca e il mito. Ma è bello comunque raccontarli, questi episodi, perché in qualche modo rendono l’idea di un calcio che ha ancora qualcosa di pionieristico.
Argentina-Messico, per esempio. Non c’è Manuel Ferreira, attaccante, capitano della nazionale che vuole contendere il titolo all’Uruguay. Infortunio? Scelta tecnica? Niente di tutto questo. Il giovanotto, studente in giurisprudenza, deve sostenere un esame: ha chiesto e ottenuto di lasciare il ritiro per raggiungere Buenos Aires; tornerà e giocherà tutte le altre partite. Dopo aver smesso con il calcio, diventerà un apprezzato notaio. Restiamo ad Argentina-Messico e scorriamo il tabellino: arbitro, Saucedo. Saucedo come l’allenatore della Bolivia, altra nazionale presente al Mondiale. Un divertente caso di omonimia, pensano in molti. E invece no: è proprio il Saucedo allenatore, che di nome fa Ulises. Uno sdoppiamento di ruoli che a distanza di quasi novant’anni fa sorridere (o rabbrividire), ma che in quel 1930 viene accettato senza che nessuno batta ciglio. Tanto più che uno dei guardalinee si chiama Radulescu: è il vice allenatore della Romania, un altro insomma a recitare due parti in commedia. Come se la cava l’arbitro-commissario tecnico? Diciamo che vive un pomeriggio piuttosto movimentato. Concede parecchi rigori: 4 o 5, a seconda delle fonti. Uno solo viene trasformato, autore il messicano Manuel Rosas. Percentuale di realizzazione bassissima, ma ecco spuntare un particolare che potrebbe spiegare tante cose. Pare che nessuno abbia provveduto a disegnare il dischetto del rigore, e allora Saucedo ogni volta deve contare i passi, come si fa nelle sfide del doposcuola su campi improvvisati. Forse il boliviano ha esagerato nell’apertura di gambe e così gli 11 metri sono diventati 13 o 14. Alla fine vince l’Argentina, 6-3.
Dalla Francia non sono partiti giornalisti. Troppo costoso il viaggio, e poi nelle settimane del Mondiale si corre il Tour de France: altro che pallone, alla gente interessano le due ruote. Qualcosa però bisogna pur scrivere. Il giornale L’Auto, che in seguito cambierà nome e diventerà L’Équipe, durante il torneo pubblica delle brevi corrispondenze corredate da una sigla: «p.c.». Sono le iniziali di due cognomi, Pinel e Chantrel. Due giocatori della Francia. Saranno loro a raccontare il Mondiale. L’idea è venuta a un redattore del giornale, Lucien Gamblin, che da giovane ha indossato la maglia della nazionale, ed è stata subito sponsorizzata dal giovane collega Jacques Goddet, futuro patron del Tour. Marcel Pinel e Augustin Chantrel accettano con entusiasmo. La Francia tornerà a casa dopo la prima fase, giocando l’ultima partita contro il Cile. Ormai l’eliminazione è certa, e arrivano gli immancabili cambi di formazione. L’allenatore Raoul Caudron, che sostituisce Barreau per i motivi già ricordati, fa esordire Célestin Delmer. Nel tabellino e nella breve cronaca dell’Auto, però, Delmer non compare. Per più di mezzo secolo, lui quella partita non l’ha giocata. Invece c’era, eccome. Un giorno del 1992, un solerte impiegato della federcalcio prenderà in mano una foto della squadra schierata in quel Francia-Cile e scoprirà che il giocatore a fianco del portiere Thépot altri non è se non Célestin Delmer. La spiegazione più plausibile è che fra Delmer e la coppia Pinel-Chantrel non corresse buon sangue e che i due «inviati» avessero deciso di ignorare il compagno al momento della stesura del breve articolo. Quasi un caso di mobbing ante litteram.
La finale. Si gioca il 30 luglio, una domenica: Uruguay e Argentina vengono da due vittorie in fotocopia: 6-1 agli Stati Uniti, 6-1 alla Jugoslavia. Unica differenza, la successione delle reti: la Jugoslavia spaventa l’Uruguay passando in vantaggio e crolla alla distanza, mentre gli Stati Uniti segnano il gol della bandiera sul punteggio di 6-0 per l’Argentina.
È più di una finale, è come aprire un libro di storia. Il primo Uruguay-Argentina risale al 16 maggio 1901 (l’Italia, per fare un paragone, scenderà in campo in una partita ufficiale soltanto nel 1910); quello che assegna il titolo Mondiale è il confronto numero 100 fra le due nazionali. Centesima partita allo stadio Centenario. Perfetto. La rivalità va oltre lo sport e finisce per entrare nelle pieghe della vita quotidiana. Gli argentini si considerano superiori in tutto, non solo nel calcio, e guardano dall’alto in basso gli abitanti di quel piccolo fazzoletto di terra, eredi del popolo charrúa. I quali, manco a dirlo, la pensano in modo completamen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Introduzione
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. I senza mondiali
  26. Bibliografia
  27. Ringraziamenti