Il sovversivo
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Pisa, 7 maggio 1972, ore 9.45. Franco Serantini, vent'anni, muore in carcere dopo essere stato trattenuto e interrogato per due notti e un giorno, senza ricevere le cure di cui ha un evidente bisogno.Due giorni prima, nel centro della città, una manifestazione degenera in guerriglia urbana, tra barricate, molotov, fumi di lacrimogeni. All'angolo tra Lungarno Gambacorti e via Mazzini, Franco – che è solo come sempre – viene accerchiato e aggredito da una decina di poliziotti suoi coetanei, tempestato di calci, pugni e manganellate con una ferocia che non risparmia neppure un lembo del suo corpo.Fino ad allora quella di Franco Serantini è stata un'esistenza priva di luce, trascorsa nella più assoluta povertà e assenza di affetti. La sua storia è quella di un orfano che ha perso anche la madre adottiva, costretto a passare da un brefotrofio a un istituto, fino a ritrovarsi in riformatorio a Pisa anche se non ha commesso alcun reato. Proprio qui, in una città che gli appare come un bellissimo teatro, perso fra tanti altri ragazzi, Franco vive i suoi anni più felici. Gli ultimi.Sembra la trama di un romanzo ottocentesco, ma nel Sovversivo l'indagine sulla morte dell'anarchico Serantini è condotta attraverso un coro di documenti e testimonianze reali, componendo una narrazione civile di limpido rigore e grande partecipazione emotiva. Come sempre accade nelle opere di Corrado Stajano, la vicenda di un solo individuo svela il male di un paese intero, e nel corpo di un ragazzo si rintracciano i segni di un tempo spietato, lacerato dai conflitti politici e sociali.Rileggere le pagine dedicate a Serantini, qui proposte con gli straordinari disegni di Costantino Nivola, significa riportare alla memoria anche i volti di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi. Storie di oggi: soprusi delle forze di polizia, depistaggi giudiziari, giovani vite finite che mettono sotto accusa uno Stato incapace di processare se stesso, e raccontano la notte di una democrazia che abdica violentemente alle proprie regole.

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Informazioni

Anno
2019
Print ISBN
9788842825432
eBook ISBN
9788865766972
Argomento
Storia
Il posto dove fu colpito a morte è sul Lungarno Gambacorti di Pisa, tra la via Toselli e la via Mazzini. Si lascia sulla sinistra, venendo dal ponte di Mezzo, il palazzo del Comune e si cammina lungo una ininterrotta serie di piccole botteghe che forse esistono da secoli e hanno mutato soltanto il genere dei loro minuti commerci. Una mescita di vino al numero 10, all’angolo di via delle Belle donne; un tappezziere al numero 13; un aggiustatore di macchine fotografiche al 14; la calzoleria La rapida al 16; l’agenzia Sbrana, compravendita e affitti, al 18; il circolo Enal al 19.
Alle spalle dell’isolato, la Nunziatina, l’intricato quartiere del sottoproletariato rosso. Di là dall’Arno, sotto i palazzi aristocratici e inaccessibili, lo scalo del carbone con la lapide che ricorda l’approdo della barca di Garibaldi ferito sull’Aspromonte.
Non lontano dal Lungarno Gambacorti, tante volte citato nei rapporti dei commissari di pubblica sicurezza, nei verbali dei sostituti procuratori della Repubblica, nelle sentenze dei giudici istruttori, nelle cronache dei giornali e nelle relazioni dei periti medico-legali, splendono i gioielli dell’arte e della religione, Santa Maria della Spina, San Paolo a Ripa d’Arno e, a pochi passi, la chiesa di Santa Cristina dove, il 1º aprile 1375, santa Caterina da Siena ricevette le Sacre Stimmate, «cinque lucidissimi raggi sanguigni, usciti dal Santissimo crocifisso sull’altare e andati a ferire le mani di Caterina, i piedi, il suo castissimo e virgineo petto».
Ma la sera del 5 maggio 1972, né la patrona d’Italia, né la presenza antica di bellezza e di arte, né i segni della storia e della cultura servirono a salvare dalla furia della polizia, tra la bottega del vinaio e quella del tappezziere, un giovane non alto, ricciuto, gli occhiali da miope, il viso serio e sofferto, vestito con una giacca marrone, un paio di pantaloni di lana nera, una camicia con le maniche lunghe dai disegni fantasia color gialloarancione. Franco Serantini, di vent’anni, sardo, anarchico, figlio di nessuno nella vita come nella morte.
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Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 luglio 1951. Abbandonato al brefotrofio, deve forse il nome e il cognome a un ufficiale di stato civile dalle inclinazioni letterarie o a qualche prete o maresciallo dei carabinieri che in quei giorni lesse sotto la novella pubblicata da un giornale il nome di Francesco Serantini, scrittore romagnolo, autore di romanzi pittoreschi che si rifanno alla storia e alle cronache dell’Ottocento, come i Fatti memorabili della banda del Passatore in terra di Romagna, Il fucile di Papa della Genga ed anche I bastardi.
Serantini resta all’Infanzia abbandonata fino al 16 maggio 1953, quando viene dato in affidamento a due coniugi siciliani. Lui si chiama Giovanni Ciotta, lei Rosa Alaimo. Ciotta è una guardia di pubblica sicurezza, figlio di braccianti, la moglie appartiene a una famiglia che possiede qualche tumulo di terra, coltivata dai genitori e dai quattro fratelli e che non ha visto di buon occhio il matrimonio di Rosa festeggiato però con la dovuta solennità. La fotografia delle nozze ritrae gli sposi davanti al fondale di un giardino d’Oriente: Giovanni in doppiopetto nero, con la cravatta a farfalla, guarda Rosa, in bianco, con un lungo strascico di velo ai piedi, gli occhi pudichi su un mazzolino di fiori d’arancio. I due sposi sembrano fratelli, hanno gli stessi occhi oliva, gli stessi visi intensi e cupi dei siciliani arabi.
Arruolatosi nella polizia, Ciotta viene trasferito a Cagliari. Sposati da quindici anni e senza figli, Giovanni e Rosa decidono di adottare un bambino. All’orfanotrofio scelgono Franco: è robusto, vivace, ispira simpatia. Ma poco dopo averlo portato a casa, dove viene chiamato Giovanni – un timido marchio di possesso – la madre adottiva si ammala. La diagnosi non offre speranza, tumore. Dopo l’operazione, i coniugi Ciotta decidono di tornare in Sicilia, al paese natale, Campobello di Licata, provincia di Agrigento, a cercare aiuto nella casa dei genitori di Rosa che muore il 13 marzo 1955.
Fin dalla nascita, Franco Serantini conosce ad una ad una e senza pietà le sfortune dei poveri, passa attraverso le catene di sofferenza e di dolore che toccano sempre in sorte agli esclusi, la morte come una condanna che distrugge anche i precari equilibri di sussistenza, le disgrazie, le malattie, la disoccupazione, i conflitti di interesse tanto più crudi quanto la roba contestata è poca, gli affetti carenti come il mangiare, come la speranza.
Il bambino diventa causa di tensione familiare. La morte di Rosa fa rinascere antichi risentimenti tra la guardia di Ps e i suoceri e i cognati. Pare che tutti desiderino Franco, ma resta il sospetto che il piccolo sia solo un pretesto di litigio e di affermazione.
Dopo la morte della moglie, Giovanni Ciotta ottiene il trasferimento a Caltanissetta e chiede all’Amministrazione provinciale di Cagliari, che ha il bambino a carico sui suoi registri, di affiliarlo. Ma non sono trascorsi gli anni previsti dal regolamento e la risposta è negativa. I suoceri di Ciotta, allora – Giuseppe Alaimo, pensionato e Maria Bruscatto, i vecchi genitori della sposa morta – fanno domanda per poter tenere con loro il piccolo Franco. L’Amministrazione provinciale, prima di concedere l’autorizzazione, chiede il parere ai figli rimasti in casa Alaimo, Santo e Carmelina. In autunno i due dicono di sì e il bambino, il 13 dicembre 1955, è affidato anche ufficialmente alla nuova famiglia.
Campobello di Licata è in collina, nella fascia sudorientale della Sicilia, a una ventina di chilometri dal mare, un paese bruciato, di vita grama. Ha per industria l’emigrazione ed è abitato soprattutto da vecchi, da pochi bambini, da vedove bianche. La popolazione seguita a calare, in pochi anni è scesa da tredicimila a undicimila abitanti e quella che era considerata una contrada celebre per la sua fertilità, è ridotta a una sacca di miseria. La miniera di zolfo del principe di Palagonia è abbandonata e la terra arida, coltivata a frumento, all’ombra di rari alberi di mandorlo e di ulivo, resta l’unica risorsa.
La vita del paese è accentrata nella piazza grande, alberata su due lati, con la chiesa matrice dedicata a Giovanni Battista e tutti gli uffici, il municipio, i vigili, la Camera del lavoro, i partiti. Il palazzo del barone Sillitti, il feudatario locale, è su un poggio. Un altro cittadino di Campobello è il barone Agostino La Lumia, noto ai cronisti mondani: fece una volta una festa al cimitero per l’inaugurazione della sua tomba e un’altra volta, per la facoltà di conferire titoli nobiliari venutagli dalla discendenza da un viceré, nominò barone il suo gatto.
Il microcosmo di Campobello di Licata è elementare. Da un lato la ricchezza, il benessere e il prestigio sociale intravisti nel palazzo del barone, dall’altro la vecchia tradizione socialista: i privilegi del feudo e le dure lotte del lavoro che nel 1947 costarono la vita a un bracciante, Giovanni Virzì, ucciso dai carabinieri durante un’occupazione di terre per la riforma agraria.
Il piccolo Serantini viene allevato in piazza Marconi 3, dietro la piazza grande, in una di quelle case contadine a un solo vano chiamate, dal greco, «catoio», i bassi siciliani. La casa degli Alaimo, che si sentivano dei possidenti in confronto al promesso sposo della figlia, è divisa orizzontalmente da una specie di sopralzo di legno dove si sale soltanto per mezzo di una scala a pioli. Il pianterreno serve da cucina e da stalla per le bestie, l’ammezzato, privo di finestre, fa da dormitorio per i vecchi, i figli adulti, il bambino.
La prima immagine del mondo, Serantini l’ha avuta in questo antro. Cinque anni trascorsi tra la casa, le scuole elementari Don Bosco, la strada di terra battuta, coi carretti rovesciati vicino ai marciapiedi e le abitazioni basse, di pietra viva, la piazza coi soliti vecchi immobili su una panchina, qualche gioco sul monumento-tabernacolo con la croce di ferro piantata dai padri passionisti. La sua pagella, firmata dalla maestra Francesca Velia, è discreta, comportamento ed educazione morale e civile 9, lettura, aritmetica, attività manuali, educazione fisica, religione 6.
Il bambino ha lasciato in paese povere memorie senz’importanza. Gli piacevano i dolci di pasta di mandorla, non imparò il dialetto, diceva che da grande avrebbe fatto il carabiniere.
Anche il padre adottivo, Giovanni Ciotta, non ha molti ricordi. È diventato brigadiere di Ps, abita a Gela, vicino al Museo archeologico, si è risposato e ha avuto due figli. Ha cinquantacinque anni, la faccia di un uomo provato, si esprime pacatamente: la morte della moglie, il bambino adottivo, la rottura con la famiglia dei suoceri devono essere le amare ombre di un’altra vita rimossa di continuo dalla sua coscienza.
Quella di Serantini è una storia che sembra sempre ai limiti dell’invenzione settaria, piena com’è di miseria, di violenza classista, d’ingiustizia.
Franco resta a Campobello di Licata fino al 1960. Maria Bruscatto si ammala, diventa a poco a poco quasi cieca, suo marito Giuseppe è anziano, sempre più stanco. I figli partono, Calogero per Desio, al Nord, Croce per Butera, vicino a Gela, Carmelina, la più giovane dei fratelli, quella che con Santo ha avuto più a cuore il bambino, si sposa ed emigra in America. La famiglia si sta disfacendo, il «catoio» ha lasciato adesso il posto a una costruzione a sei piani, i vecchi sono morti.
Gli Alaimo espongono dunque le loro difficoltà all’Amministrazione provinciale di Cagliari, chiedono il ricovero di Franco in un istituto d’assistenza in Sicilia per poter continuare a vederlo e per stargli in qualche modo vicini. Dopo un lungo scambio di lettere, di preghiere, di promesse, di dinieghi, l’Amministrazione, nell’aprile 1960, ordina che Franco Serantini sia affidato all’istituto Buon Pastore di Cagliari.
Santo, che ora è morto anche lui, l’accompagna al treno. Con una malferma e patetica calligrafia da contadino ha lasciato un appunto su un notes dove era solito segnare gli avvenimenti della giornata: «Il 28 aprile 1960 ci siamo divisi alla stazione di Agrigento alle ore 10.10».
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L’istituto Buon Pastore è un fabbricato grigioverde alla periferia di Cagliari, nel quartiere chiamato il Giorgino. Potrebbe essere l’Agustino di Lima o l’Acquedotto Felice di Roma, ha lo stesso eterno carattere di provvisorietà, la stessa desolata aria di abbandono e di degradazione, con le baracche, i mucchi di spazzatura, i cani randagi, l’assenza di servizi civili, gli emarginati in condizioni subumane, le prostitute da quattro soldi.
Nel 1930, il Giorgino era una spiaggia aristocratica frequentata dalle famiglie illustri di Cagliari, poi si trasformò in un lido popolare e i ragazzi che non avevano i mezzi economici per andare a fare il bagno a Cala Mosca o al Poetto, prendevano la strada di Teulada e arrivavano a piedi fin qui. Diventò ghetto sottoproletario negli anni del Dopoguerra.
Il paesaggio è nordafricano, le piogge sono scarse e invernali, il vento secca la terra impregnata di salsedine, punteggiata di eucalipti. Le stagioni sono segnate dall’arrivo e dalla partenza dei fenicotteri. Quando, in agosto e in settembre, giungono dal Sud per restare fino a primavera nel vicino stagno di Santa Gilla, è uno spettacolo l’imponente nastro di uccelli bianchi, rosa, rossi che volano bassi e lenti nel cielo. «Su mangoni, su mangoni», li indicano in dialetto i bambini.
Serantini arriva al Buon Pastore che non ha ancora compiuto dieci anni. Le suore gli fanno finire le elementari, poi lo mandano alla media Giuseppe Manno, a Cagliari. È un ragazzo chiuso, taciturno, infelice. Con chi dovrebbe aprirsi, con suor Cottolenga Corona, la superiora?
«Una società come la nostra – hanno scritto Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera – che si vuole rispettosa dei diritti della persona, rifiuta, è ovvio, l’eliminazione diretta come avveniva in culture del passato. Ma le soluzioni adottate sono spesso solo in apparenza meno crudeli; tra queste, la più frequente è quella del “collegio” o “istituto”. Si riuniscono, cioè, in una collettività chiusa, quasi di necessità a regime autoritario, numerosi, anzi numerosissimi fanciulli, che nessuno vuole perché portatori di un handicap fisico, psichico, sociale. “Tego, colligo, nutro”, stava scritto sul frontone di molte istituzioni medievali. Ti diamo un tetto, ti uniamo ai tuoi simili, ti nutriamo, e il gioco è fatto. Ma il Medioevo non è terminato. Il metodo, diffuso e fiorente, raccoglie gli esclusi per escluderli ed è utile a placare le false coscienze; ma giova ai fanciulli che ne subiscono gli effetti? Privati delle esperienze più naturali, estraniati dai problemi reali, inseriti in una comunità artificiosa porteranno in modo indelebile il segno di questa loro esperienza.»1
Al Buon Pastore di Cagliari, i bambini ospiti sono una cinquantina. Le fotografie appese nell’atrio dell’istituto segnano le tappe obbligate di una educazione cattolica. La...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. 1
  5. 11