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Voci di casa. La famiglia italiana: ieri, oggi, domani
Informazioni su questo libro
La famiglia italiana cambia a vista d'occhio e spesso coglie impreparati genitori, nonni e figli, ma anche sociologi, psicologi, moralisti di sorta. Marta Boneschi studia l'evoluzione della famiglia italiana attraverso descrizioni tratte dalla cronaca, dal cinema, dalla letteratura. Scandendola in "grandi quadri", l'autrice ci mostra la famiglia patriarcale agricola, la famiglia borghese, la famiglia mononucleare, la famiglia "non-importa-come".
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Informazioni
Print ISBN
9788867054237eBook ISBN
9788867054428Capitolo 2
La famiglia borghese
«L’esempio di mio padre, perfettamente buono e saggio»
Paolo Vita Finzi nasce il 31 marzo 1899. Il padre Carlo, ufficiale del genio, laureato in ingegneria a Bologna e specializzato a Londra, appartiene alla prima generazione di italiani, nati con il compimento dell’unità nazionale. Crede nel ruolo sociale, morale e culturale della classe borghese, della quale è un esemplare pressoché perfetto. La sua famiglia nasce in conformità alle regole del tempo, quando due giovani si incontrano e fanno conoscenza, s’innamorano, constatano di appartenere allo stesso ambiente e allo stesso ceto, di condividerne i gusti, i sentimenti e gli obiettivi, quindi consultano i rispettivi genitori. Poi uniscono i loro cuori e i loro beni, e fondano una famiglia per dare vita a un certo numero di figli, educarli con tanto rigore quant’è l’affetto, trasmettere il cognome ai maschi e a tutti indistintamente una eredità materiale e spirituale.
Carlo chiede la mano della signorina che diventerà sua moglie durante una passeggiata lungo il «viale dei sospiri» della villa di Cavoretto, sulla collina torinese. La casa, una costruzione bassa di colore giallo circondata da un vasto giardino, appartiene alla famiglia di lei. Quel viale bordato di alberi prende il nome da precedenti e forse remote camminate romantiche di innamorati, da altri giuramenti sfociati nelle nozze. È quasi una tradizione che sotto quei rami fronzuti nasca, di generazione in generazione, l’impegno di formare una nuova famiglia.
La passeggiata costituisce una delle tante tappe del rituale che dalla simpatia, attraverso l’innamoramento e il fidanzamento, conduce alle nozze. Carlo, una volta conosciuta la ragazza, chiede doverosamente di conferire con i genitori di lei, li rassicura delle sue serie intenzioni e probabilmente espone la sua situazione patrimoniale e professionale.
Diplomatico e letterato, Paolo Vita Finzi racconta tutto ciò in Giorni lontani; pur non essendo presente, ne ha ascoltato più e più volte il racconto dai genitori e dai nonni: è in questo modo che la famiglia borghese perpetua le sue tradizioni. Il libro illumina di luce limpida molti scorci domestici e famigliari, tipici dello stile della Belle Époque italiana.
L’esistenza dei Vita Finzi - dopo il primogenito Paolo vengono al mondo Laura e Anna - ruota intorno a Carlo, personalità forte, uomo coraggioso e senza macchia, rispettoso con la moglie, rigoroso e tenero con i figli. Dall’infanzia in poi, sotto ogni punto di vista, questo padre rappresenta un esempio di perfezione, un modello da imitare. Così Paolo ricorda il padre, tingendo di colori positivi perfino la sua immagine fisica: è un bell’uomo con una barba ben pettinata, elegante in uniforme e in abiti civili, e non è escluso che il bell’aspetto abbia contribuito a colpire al cuore la giovane che ha accettato di sposarlo. Metodico e ordinato, percorre passo dopo passo i gradini della carriera militare. È fermamente laico e non osserva i riti della religione ebraica (e anche in questo trasmette ai figli un esempio). Non è solo un patriota, ma un progressista: nutre una salda fiducia nelle possibilità dell’evoluzione tecnica e scientifica e nella sua capacità di civilizzare il mondo.
Per questa ragione, è un pioniere dell’aviazione militare. Dapprima preferisce i dirigibili, che considera «leggeri», agli aeroplani, che giudica «pesanti», ma, da vero uomo di scienza e tecnica, finisce per arrendersi all’evidenza e si converte a questi ultimi. Aperto alla cultura e alle novità, fa conoscenza con l’aviatore americano Wilbur Wright, venuto in Italia per addestrare i primi piloti militari, e con lui effettua un primo volo sperimentale a Centocelle. È il 3 aprile 1909.
Gli esperimenti di Vita Finzi sono molto importanti per la nazione. Una fotografia di quel periodo conservata nell’album di famiglia lo ritrae accanto ai sovrani: la regina madre Margherita conversa con un ufficiale mentre il re Vittorio Emanuele III, infagottato in un cappotto che gli sfiora i piedi, è ritto davanti a Carlo, rivestito di una mantellina molto corta. Tutti insieme aspettano che sia completato il gonfiaggio del dirigibile sul quale alcuni ardimentosi - il papà di Paolo è tra questi - si accingono a compiere un volo sperimentale e dimostrativo a beneficio dell’illustre pubblico.
È così che deve essere un padre, amato e ammirato in casa, rispettato e stimato dal mondo esterno. Nella realtà borghese del primo Novecento, è questo il punto di partenza. Sicura bussola per l’intero gruppo, egli indica la direzione e la mantiene, se necessario con inflessibilità e rigore, sempre con attenzione e sollecitudine. Tra permessi e divieti, elogi e rimproveri, è soprattutto l’esempio del genitore a plasmare il carattere dei figli.
Insieme agli impegni professionali, militari e scientifici, Carlo coltiva molto gli affetti privati. Accanto all’istantanea con i sovrani, scattata nell’adempimento del dovere, Paolo conserva nella memoria un’immagine famigliare, densa di nostalgia, quella del rientro di papà all’ora di pranzo. Nell’appartamento torinese dove abitano i Vita Finzi, i ragazzi sono già rincasati. Si sente il campanello dell’ingresso, che suona a più trilli, come l’alfabeto Morse che viene usato per le comunicazioni via telegrafo (una delle novità tecniche che hanno accorciato le distanze fisiche e geografiche nella seconda metà dell’Ottocento). È il segno inconfondibile di papà, i ragazzi accorrono alla porta, gli si affollano intorno: uno lo aiuta a togliere i guanti, l’altro lo libera della sciabola, mentre lui stesso toglie il berretto e infine i gambali, che vengono trascinati per il corridoio da Anna, la più piccola.
Una famiglia della borghesia agiata, come quella di Carlo Vita Finzi, costituisce un piccolo mondo, una comunità di persone, ognuna delle quali ha un posto preciso nella gerarchia domestica e un ruolo nello scorrere dell’esistenza. È un universo ordinato, dove ogni gesto ha una ragione, ogni fenomeno una spiegazione, ogni iniziativa un traguardo.
L’inverno scorre nell’appartamento torinese, l’estate tra la spiaggia di Spotorno e la villa di Cavoretto. La casa di città è ampia, confortevole e lustra. Ricorda Paolo: «Non v’era a quell’epoca famiglia borghese, anche di mezza tacca come la nostra, che non avesse persone di servizio: di regola cuoca e cameriere, o almeno una bonne à tout faire nei periodi di magra».
Una vera signora dimostra di essere una brava padrona se è capace di affidare alla servitù ogni compito manuale, riservando a sé la direzione, l’organizzazione, lo stile e il gusto della vita domestica. Gli affari di casa sono complessi, ogni lavoro viene eseguito a mano: le pulizie, la cucina, la gestione del guardaroba, i pranzi e le cene, i tè delle signore, i ricevimenti, la cura dei bambini. Ogni dipendente ha una sua specialità: la cuoca cucina sotto gli ordini della signora, la cameriera rigoverna, serve a tavola, pulisce le camere, sbatte i tappeti, lucida l’argenteria, apre la porta ai visitatori e indossa un grembiule nero, un grembiulino bianco, una cresta di pizzo inamidato sui capelli e, quando serve a tavola, i guanti bianchi.
Quando i bambini sono lattanti, al personale di servizio si unisce temporaneamente una balia, tipica istituzione delle famiglie di città. Poiché il traguardo di ogni signora borghese è di essere ornamento della casa, custode dei famigliari, accompagnatrice del consorte e non una indaffarata schiava dei suoi cari, i figli piccoli vengono staccati subito dalla madre per essere affidati alla balia che li allatta per il tempo necessario (e, come si è visto a proposito della disgregazione della famiglia patriarcale di campagna, in tali casi la donna abbandona il suo piccolo paese per trasferirsi in città).
Le balie delle sorelle minori Laura e Anna compaiono nel ricordo di Paolo come «imponenti per i bei vestiti di cui era obbligo rifornirle, e gli spilloni a raggiera alla Lucia Mondella o il fazzoletto di seta a colori che portavano in capo». Di tanto in tanto, il marito della nutrice compare dai Vita Finzi per incassare il salario, e poi scompare, inghiottito dalla lontana campagna. Dalla balia i padroni si aspettano che nutra i più piccoli e si prenda cura dei più grandi, quando conduce tutti a giocare ai giardini e mentre spinge la carrozzella o conversa con altre balie, sedute sulle panchine dei giardini pubblici.
Ogni ufficiale di sua maestà ha al proprio servizio un «soldato di confidenza», che nel linguaggio comune è noto come «attendente». In tempo di guerra, l’attendente è addetto a ogni compito umile: spaccare la legna e preparare il fuoco, provvedere al cibo, lavare la biancheria, sellare il cavallo e lucidare gli stivali, ma in tempo di pace fa da cameriere.
Gli attendenti che si avvicendano durante l’infanzia di Paolo, una volta esaurite le incombenze dovute al superiore in grado, contribuiscono ai lavori domestici: fare la spesa o servire in tavola, oppure inginocchiarsi sul pavimento di parquet dove occorre spargere la cera e lustrare con un panno di lana fino a quando scintilla come uno specchio.
Il nucleo dei cinque Vita Finzi si allarga d’estate, grazie all’apporto della parentela, e si restringe d’inverno, quando a convivere con la famiglia rimane soltanto la servitù. Proprietaria della villa in collina, quella di colore giallo con il «viale dei sospiri», è la nonna materna di Paolo che appare ai nipoti in tutto il suo fascino, e li incuriosisce perché, a differenza della figlia e del genero, osserva i precetti religiosi ebraici, come il digiuno nel periodo del Kippur.
Uno degli ospiti estivi della villa è uno zio scapolo, «ingegnere e un po’ pazzerello», indimenticabile per le sue stravaganze: avversario della moda maschile rigida e impettita del suo tempo, egli veste con camicie di seta floscia e giacchette comode. Ha un «pallino», la battaglia di Custoza, che racconta per filo e per segno a chiunque sia dotato di tanta pazienza da ascoltarlo fino in fondo.
Uomo strano e distratto, ma tutt’altro che sciocco, durante una passeggiata è tanto immerso nei suoi pensieri da perdere la nozione del tempo e dello spazio; si smarrisce ed è incapace di tornare a casa. Si siede allora su un sasso, e lì aspetta fino all’alba successiva che qualcuno lo ritrovi, cosa che puntualmente avviene. Usa un linguaggio inconsueto: quando piove chiama a raccolta i nipoti e ingiunge loro di trovargli «le podoteche», cioè quelle soprascarpe di gomma che la gente meno fantasiosa definisce «galosce».
Fratello del nonno materno di Paolo e altro ospite fisso della villa di Cavoretto, è un signore tanto illustre che, dicono in famiglia, «suona il pianoforte a quattro mani con la regina Margherita». Giacomo Malvano abita a Roma, dove fino al 1913 ricopre la carica di direttore generale del ministero degli Esteri e dopo quella data fa parte del Consiglio di Stato. Allievo e seguace di grandi personaggi risorgimentali come Emilio Visconti Venosta e Benedetto Cairoli, è stato compagno di università e poi amico di Giovanni Giolitti. D’estate il prozio Giacomo lascia la capitale per trascorrere le vacanze in Piemonte. Negli occhi infantili del nipote si imprimono più che altro la sua buffa andatura - cammina a piccoli passettini -, l’aspetto - porta lunghi baffi all’ingiù, che gli conferiscono un aspetto un po’ cinese -, e gli evidenti difetti fisici - è notevolmente sordo -, mentre risalta il fatto che è dotato di una prodigiosa memoria. Nel 1922, quando Paolo sarà adulto e Giacomo appena defunto, si apprenderà dai velati accenni di un necrologio che il compagno di musica della regina, l’integerrimo servitore dello Stato, godeva di una certa notorietà nel suo ambiente per le numerose avventure galanti.
La prima parte delle vacanze, però, i ragazzi Vita Finzi la trascorrono al mare, seguendo i dettami igienici della migliore educazione dell’epoca. La mèta è Spotorno, sulla costa ligure, dove viene affittata una casa capace di contenere comodamente l’intera famiglia con la servitù. Le giornate sono scandite da una tabella oraria, che lascia posto a bagni di mare - brevi per evitare raffreddori -, bagni di sole - moderati per non scottare la pelle -, e rituali lunghe sabbiature.
Nel resto del tempo Paolo e le sorelle hanno il permesso di giocare a palla, frequentare altri bambini e chiacchierare con loro, purché le famiglie si conoscano. Se hanno sete, possono acquistare una gazzosa nella bottiglia di vetro verde chiaro con la pallina, che nel gergo di quei tempi e di quei luoghi viene chiamata «bicicletta».
L’educazione migliore comprende lo studio, lo svago e l’attività all’aria aperta. Nella sua infanzia e adolescenza, Paolo riceve tutto questo e ricorda: «L’esempio di mio padre, perfettamente buono, saggio e calmo in ogni circostanza, anche quando cadde gravemente malato, mi sembrava indicare che non occorresse religione per agir bene».
L’orgoglio borghese, la convinzione di essere una classe emergente e innovatrice, che offre il proprio esempio alla società, è una componente essenziale del vivere in famiglia. In questo è essenziale l’esempio paterno.
Un episodio narrato in Giorni lontani dimostra quanto forte e profondo sia tale legame, e quanto importante sia l’insegnamento al fare bene, l’addestramento alla forza di carattere che pure non esclude il calore degli affetti ed è completata dalle formalità della buona educazione.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Carlo Vita Finzi viene promosso tenente colonnello e assume il comando del battaglione aviatori, comando che era stato in precedenza di Giulio Douhet, pioniere dell’aeronautica militare e propugnatore accanito della guerra aerea. Carlo è inviato sul Carso, dove combatte nella terza Armata al comando del generale Armando Diaz.
Nel frattempo Paolo, che ha diciassette anni, si è arruolato volontario e viene spedito sul fronte del Cadore, insieme alla quarta Armata. Non una parola è corsa tra i due, ma non ce n’è stato bisogno: sin dall’infanzia e negli anni dell’adolescenza, egli ha assorbito fino in fondo il senso paterno del dovere. Padre e figlio combattono dunque entrambi, nello spirito patriottico di un completamento dell’unità nazionale, anche se in settori del fronte piuttosto lontani tra loro.
Nel novembre del 1917 la disfatta di Caporetto provoca scompiglio e dolore, facendo vacillare la fiducia nella capacità del paese di resistere e risollevarsi. S...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Indice
- Introduzione
- Capitolo I
- Capitolo II
- Capitolo III
- Capitolo IV
- Bibliografia