1. Il colore del mondo
Un viaggio tra vista e gusto con Steve McCurry
e lo chef Wicky Priyan
Quello sguardo. Quel verde. Quel rosso. La foto ormai la conoscono tutti; è entrata a far parte di quell’ideale patrimonio di immagini condiviso da tutto il mondo, accanto al soldato colpito ritratto da Robert Capa e al ragazzo che ferma i carri armati in piazza Tienanmen, al bacio tra il marinaio e l’infermiera a Times Square durante i festeggiamenti per la fine della Seconda guerra mondiale e all’Urlo di Munch, alla Monna Lisa e alla Notte stellata di Van Gogh. Un volto che è allo stesso tempo una storia e un manifesto estetico, una testimonianza e una interpretazione.
Non mi ero mai trovato prima davanti a Sharbat Gula, la Ragazza afghana fotografata da Steve McCurry nel 1984 in un campo profughi lungo la frontiera con il Pakistan. È la foto che senza dubbio più di tutte ha contribuito alla sua consacrazione da ottimo fotogiornalista del National Geographic a vero e proprio artista. Dal vivo è impressionante: il colore è completamente bilanciato, in un modo che è allo stesso tempo irreale e naturale; i complementari rosso (la veste, ma anche la tonalità della pelle) e verde (lo sfondo, gli occhi) si esaltano a vicenda; il richiamo verde tra occhi e sfondo invita a un movimento continuo e ipnotico. Lo sguardo di Sharbat Gula trapassa lo spettatore, ribalta i ruoli tra chi osserva e chi è osservato, immerge chi guarda nell’istante – congelato nel tempo – in cui la foto è stata scattata. Una foto che da sola è un manifesto e una smentita alla famosa massima di Ted Grant «quando fotografi a colori fotografi i vestiti delle persone, ma quando le fotografi in bianco e nero fotografi le loro anime».
La storia di questa immagine è stata raccontata molte volte dallo stesso McCurry: la ragazza all’epoca aveva dodici anni ed era una dei 5 milioni di afghani in fuga dalle terre devastate dalla guerra tra le truppe sovietiche e l’esercito dell’Afghanistan, che riceveva il supporto non ufficiale di Usa, Cina, Regno Unito e altre nazioni. McCurry stava visitando il campo come inviato del National Geographic e aveva sentito delle risate provenire da una capanna; si era avvicinato e, in mezzo a tanti bambini, aveva visto lei, Sharbat, restandone immediatamente affascinato. Dopo il clamore mondiale della copertina del numero di aprile, il fotografo aveva più volte cercato la ragazza, ma non si era appuntato il suo nome e così gli era stato impossibile ritrovarla. Fino al 2002, quando, in un contesto nuovamente devastato dalla guerra degli Usa e della Nato contro i talebani e l’Alleanza del Nord, era tornato in Pakistan a cercare la giovane, per poi ritrovarla fortunosamente, invecchiata di diciassette anni, madre di tre bambini, ma con lo stesso identico sguardo che aveva affascinato il mondo.
La cosa che mi ha colpito di più di McCurry è la sua capacità di raccontare storie attraverso il colore. Che si tratti di mostrare l’anima dell’India espressa nella festività dell’Holī (la cerimonia con cui in varie parti del paese si festeggia l’arrivo della primavera) o di restituire la controversa spiritualità della Cina e del Tibet ritraendo gli abitanti dei monasteri Shaolin, il fotografo americano si è sempre concentrato sugli elementi cromatici, sui contrasti tra temi caldi e freddi, sull’intensità delle tonalità. È uno dei tratti più immediati della sua arte, uno degli elementi che hanno reso il suo lavoro unico. Me ne accorgo subito anche qui, alle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia, dove è in corso la retrospettiva Icons: cento foto per ripercorrere quarant’anni della sua carriera. Passeggio sotto gli arconi ogivali, scivolando tra i pannelli blu illuminati ognuno dal proprio faretto. Davanti ai miei occhi scorrono le spiagge birmane, i bambini soldato afghani, un uomo che corre davanti al mare a Rio de Janeiro, i volti dipinti di due donne di Hong Kong: terra, aria, carne, volti. Rossi, blu, bianchi, azzurri.
Devo incontrare Steve McCurry in una saletta defilata del secondo piano del Palazzo Visconteo. Nell’attraversare le sale fatte costruire dall’ambizione di Galeazzo mi rendo conto, affascinato, di vedere tutto per la prima volta. Non ero mai stato al piano superiore, nelle stanze restaurate. Salendo le scale la luce che viene dalle finestre del ballatoio inonda tutto lo spazio, dal soffitto a cassettoni ai mattoni rossastri. Questo palazzo è il simbolo materiale della volontà di creare un regno, una capitale, un centro da cui governare e amministrare il potere; il luogo in cui un signore può chiudere gli occhi convinto che qualcosa di lui sopravvivrà. Non so molto della sua storia, non so cosa pensasse dell’arte o della letteratura o della guerra, però so che ebbe l’intelligenza e la cultura di chiamare a Pavia quello che già all’epoca era il più grande poeta d’Italia, Francesco Petrarca. Ne parla lo stesso Petrarca in una celeberrima lettera a Giovanni Boccaccio in cui lo rimprovera bonariamente di non essere passato a trovarlo, e coglie l’occasione per descrivergli le bellezze («avresti ammirato nel luogo più alto della città il grandioso palazzo che con immensa spesa edificò questo magnanimo signore di Milano, di Pavia e di altre molte circostanti città, Galeazzo Visconti») e le qualità («mai non mi ricorda di avere passato altrove questa stagione con sì radi e leggieri temporali, sì dolci e frequenti piogge, sì moderati e non punto molesti calori, così costante e soave temperatura») della città. D’altronde, come ricorda lo stesso Petrarca, «Pavia […], secondo i grammatici, vale ammirabile». Ce la leggeva sempre il professore di Letteratura al liceo; era un pavese e quella lettera era il suo orgoglio.
Quando entro nella stanza McCurry è girato, ma lo riconosco subito lo stesso. È il più elegante dei presenti: indossa una giacca di sartoria azzurro scuro, che si allarga adeguatamente sulle ampie spalle, dei pantaloni beige e delle scarpe testa di moro. Si volta per congedare il suo interlocutore e riconosco subito il caratteristico baffo grigio, rado, la sua calvizie sfumata ai lati, gli occhi blu. Mi faccio avanti, sperando che si ricordi di me – ci eravamo visti qualche mese prima a una mostra a Milano – e lui mi sorprende con un italiano imperfetto ma apprezzabile: «Ciao Gianni!». Dopo qualche convenevole ci spostiamo nella stanza a fianco dove inizia la conversazione vera e propria. Il mio interesse primario è il suo modo di guardare e raccontare il colore, capire quale sia il suo rapporto di fotografo e artista con il colore: «Be’, il mondo è a colori, e io da fotografo non posso che ritrarlo com’è. La mia ricerca mi ha portato a confrontarmi con storie e culture nelle quali il colore è un elemento essenziale. Pensa agli scatti dei monaci Shaolin o della festa dell’Holī qui in mostra: il colore è una parte integrante del soggetto, dell’ambiente, della foto stessa». Immediatamente visualizzo le immagini di cui parla: il gruppo di giovani monaci in un momento di riposo, mentre alle loro spalle un loro compagno fa stretching e un altro, sopra di loro, sta saltando perpendicolare al muro; un movimento fissato per sempre, che ribalta interamente la prospettiva. Cosa sarebbe questa immagine senza l’arancione delle vesti monacali? «Le sfumature e le tonalità possono variare, anche molto, da scuola a scuola» mi spiega McCurry «ma tendenzialmente il significato del colore è lo stesso: l’arancione simboleggia la rinuncia a una vita di piaceri, e non a caso nel buddhismo solo i monaci possono vestirlo. Senza l’arancione – e i colori del luogo, il muro, il terreno – questa scena avrebbe perso un pezzo insostituibile del racconto.»
Gli occhi brillano mentre mi parla. Non riesco a non immaginare che stia rivedendo davanti a sé il momento dello scatto, l’immagine che si formava nella sua mente ancora prima che nel suo occhio. «Vedi, io non sono contrario al bianco e nero. Tutt’altro. Rispetto molto i fotografi che scelgono di scattare solo in bianco e nero, ma per il tipo di storie che io voglio raccontare non mi sembra adatto. La vita è a colori.» Fa una pausa, aggrottando lievemente le sopracciglia. «Attenzione, però: il colore è un elemento insidioso, difficile da controllare. Può diventare persino una distrazione. Per raccontare scene o situazioni fortemente emotive, come per esempio una situazione di guerra, il bianco e nero è la scelta migliore; il colore in questi casi aggiunge troppe “informazioni”, rischia di sviare l’attenzione.»
Una conversazione, se arriva a smuovere qualcosa in profondità, è sempre fatta di immagini: immagini evocate, immagini sollecitate, immagini inopportune che transitano per la mente. In questo momento non riesco a non pensare a come avrebbe potuto essere la Madre migrante di Dorothea Lange a colori, o la bambina in lacrime del Terrore del napalm di Nick Ut tra rossi e verdi. Sarebbero state meno efficaci? Sarebbero state più intense? Di certo, il bilanciamento di forza emotiva ed estetica delle foto di McCurry è un’alchimia davvero rara. Gli chiedo quanto conti la scelta del colore nelle sue fotografie, aspettandomi una spiegazione dettagliata sulla direzione della sua ricerca cromatica, ma, come sto rapidamente scoprendo, Steve McCurry è un tipo sorprendente: «No, a dire la verità non c’è progettualità nella scelta del colore delle mie foto. Non ho un vero rapporto con il colore, ho un rapporto con le immagini. Il colore è nell’immagine, non vado a cercarlo. Non parto da una riflessione sui colori, non cerco un “contesto rosso”, un “elemento verde” o simili; io cammino, mi imbatto in una scena o una situazione che mi colpisce – anche per i suoi colori, ma non solo per i suoi colori – e la fotografo». Sono completamente spiazzato, e penso che lo stupore mi si legga in volto perché McCurry accenna un sorriso beffardo. Quindi le riflessioni e le interpretazioni critiche sulle sue scelte cromatiche sono tutte sbagliate? Ogni tentativo di decodificazione del suo linguaggio visivo è malposto? «Non so che dire riguardo all’interpretazione, posso esprimermi solo sul mio approccio al colore. La mia percezione del colore è totalmente spontanea: il colore fa parte di tutto, del mondo, della vita, e io voglio ritrarre questo tutto. Il colore è nelle cose.»
Mi è venuta in mente un’immagine molto famosa, un suo scatto di una cerimonia indiana: un uomo completamente dipinto di verde, con indosso un turbante, anch’esso verde, viene sollevato da una decina di uomini completamente tinti di rosso. L’uomo è supino, seminudo, solo un cencio gli copre il bacino; sembra una deposizione cristiana. Il bilanciamento cromatico è perfetto, eppure non c’è un solo elemento che sia stato messo in posa o aggiunto alla realtà. Gliene parlo. «Mi trovavo a Jodhpur durante la settimana dell’Holī. Avevo ventisette anni ed ero venuto in India perché volevo fare fotografie di una cultura lontana dalla mia. È un paese pieno di contraddizioni, ma è il paese più spirituale del mondo. È così ricco dal punto di vista geografico e ha così tanti differenti culti e religioni… sembra non esaurirsi mai. La foto l’ho scattata da un muro, dove ero salito. Ho notato questo gruppo di celebranti, che avevano caricato questo loro compagno e lo stavano portando da qualche parte. Penso sia una delle mie migliori foto a colori. Ed era tutto là davanti a me, dovevo solo scattare.» Fa una pausa, gli occhi ruotano per la stanza. «Quasi tutte le mie foto nascono dalle persone. Dalla loro essenza. Io cerco il momento in cui quella essenza per un attimo si libera mostrandosi nuda, non più controllata, e tutte le esperienze fatte si possono leggere sul volto di quella persona. Io cerco di restituire cosa significa essere quella persona. Con i colori è lo stesso.» Si alza in piedi, fa qualche passo in mezzo alla stanza, contemplando per un attimo un arazzo che riproduce il biscione degli Sforza. «Ti faccio un altro esempio, per farti capire come la penso. È una foto che puoi vedere anche qui in mostra. Stavo attraversando in taxi un pezzo del deserto di Thar nel Rajasthan, quando d’improvviso si alza una fitta tempesta di sabbia, oscurando in pochi secondi il cielo. Mi volto a guardare fuori dal finestrino e vedo queste donne dai vestiti coloratissimi, che si chiudono in cerchio per proteggersi dal vento, e presto iniziano a cantare. Una vera apparizione. Era una situazione che suggeriva solidarietà, empatia, amicizia. Mi sono lanciato letteralmente fuori dalla macchina e ho iniziato a scattare a ripetizione fino a quando non ho avuto la sensazione di avere due o tre buone foto. Allora, come se qualcuno avesse tirato le tende dello spettacolo, la tempesta si è improvvisamente chetata, e le donne hanno sciolto il capannello e sono tornate a lavorare. Tutto quanto è durato non più di un paio di minuti. Bisogna avere la capacità di raccontare il mondo e i suoi colori in pochissimi istanti, perché lo spazio per coglierlo impreparato e a guardia scoperta è brevissimo. Come ti dicevo, l’India è un paese in cui il colore delle vesti di un monaco si confonde con il rosso del cartellone pubblicitario della Coca-Cola.»
Prima di salutarci, non resisto a fargli una domanda su Sharbat Gula e su quella incredibile foto. Quanto il segreto del suo successo è legato ai suoi colori? Sono trent’anni che McCurry risponde a domande come questa eppure, per qualche ragione, riesce ancora a non mostrarsi infastidito o stanco. Mi fissa, per un istante, dritto negli occhi: «Non so fino in fondo per quale motivo quella foto sia diventata una tale icona, ma sicuramente non è per un solo motivo. I suoi colori sono meravigliosi, è vero, ma il colore è uno solo degli elementi che la rendono così particolare. Se ci pensi, è una bambina così piccola e così bella, che durante lo scatto riesce a essere semplicemente, naturalmente se stessa». Fa una pausa, fissandosi le scarpe, poi torna a puntare i suoi occhi azzurri su di me: «Negli anni ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te».
Ho lasciato Pavia con molti dubbi e altrettanta curiosità. Se è vero che «il colore è nelle cose», è anche vero che ci sono modi diversi di relazionarsi con questa «realtà» del colore. Esiste una materia nel colore, una fisicità, che può essere vista e vissuta in modi diversi a seconda della direzione della propria ricerca personale. Se McCurry mi ha raccontato come un fotografo semplicemente «riceve» il colore che le cose possiedono in sé, c’è qualcun altro che – agli antipodi – quel colore lo va a «cercare»; qualcuno che indaga il reale armato di una lama sottile per recuperarne le tinte più nascoste e preziose. E questo qualcuno non è un avventuroso indagatore dell’iperspazio, un ardito esploratore della giungla brasiliana, bensì un «semplice» cuoco; o, meglio, un grandissimo chef. Si chiama Wicky Priyan, abita a Milano, e il suo approccio al colore è unico al mondo.
Arrivo in corso Italia passando da Festa del Perdono, sede della Statale di Milano, lasciandomi inondare dai colori pastello della zona di Missori: il rosso medievale delle pareti universitarie, il rosa della Torre Velasca, il verde del giardino Cederna; e poi certo, il contrasto con i supermercati, i palazzoni grigiastri, l’asfalto appena tirato. Milano. È anche per questo che il ristorante di Priyan, Wicky’s Wicuisine, mi appare come una specie di tempio nel deserto: un’isola di purezza orientale al centro del caos metropolitano italico. Cingalese di nascita, figlio di un medico ayurvedico, laureato in Criminologia all’Università di Colombo, chef Wicky Priyan è uno dei massimi esperti al mondo di cucina orientale. Si trasferì infatti a Tokyo giovanissimo, e da lì ha propagato il suo verbo culinario in tutto il globo, dall’Africa alla Papua Nuova Guinea, fino a New York. La cucina di Wicky è un paradiso fusion di cromie e tonalità differenti, e questo è uno dei tratti che lo ha reso famoso in Italia e all’estero; una ricerca costante e ossessiva sugli abbinamenti di fiori, pesci crudi, ortaggi che pesca a piene mani dal Sol levante ai mercati rionali del nostro Mezzogiorno.
Quando entro, alle cinque del pomeriggio, lo trovo già dietro il bancone, concentrato sul taglio di un otoro di tonno; ci mette qualche istante a notarmi, giusto il tempo di sollevare un poco il viso per borbottare un saluto e poi di nuovo a capo chino sulla sua operazione. Il gesto è meticoloso, preciso, sicuro. Mi rendo conto che potrei guardarlo per ore. Conclusa l’operazione, mi sorride calorosamente, gesticolando per indicarmi che deve lavarsi le mani prima di salutarmi e scompare dietro a una porta sul retro. Ho così il tempo di osservare il ristorante per una volta spoglio dai clienti: il locale è volutamente in penombra, un’atmosfera accogliente e riservata incorniciata da tante lampadine sferiche che pendono a mo’ di stelle da un soffitto scuro come un cielo notturno. Gli arredi e i colori del luogo danno già l’idea della poetica culinaria di Wicky: pulizia, semplicità, minimalismo. Legno chiaro sui tavoli, sedie dall’imbottitura blu scuro. Uno spazio-cucina alla giapponese dove fanno le ultime preparazioni, ovviamente a vista. Alle pareti quasi nulla, a parte una stampa con due ideogrammi giapponesi e due katane, in una nicchia nel muro che è quasi un tabernacolo cavo.
Due soli colori a dominare il tutto.
Riemergendo dalla cucina Wicky è trasformato, come un attore all’uscita del camerino; appare così strano in borghese, svestito dei paramenti e delle vesti del mestiere. A ogni modo il suo vestiario è perfettamente coerente con la semplicità del luogo: maglietta nera con un delicato disegno floreale giapponese all’altezza della vita, jeans, un orologio al polso sinistro e alcuni braccialetti d’argento a quello destro. Stop. Un filo di barba grigia gli copre le guance, lo sguardo è vivace dietro un paio di occhialini quadrati; mi invita a sederci a uno dei tavoli. La mia prima domanda è piuttosto diretta: cosa rappresenta per te il colore in cucina? «Io sono nato in Sri Lanka, un paese ricco di natura. Poi sono andato in Giappone e lì mi sono trovato davanti ancora più natura, specialmente a Kyoto. Ecco, io credo che senza natura, senza colore, la cucina kaiseki – il tipo di cucina che faccio io – non possa esistere. Il piatto è sempre disegnato coi colori: verdure, fiori, carne, pesce… sono tutti colori. È un’arte vera e propria.» Voglio capirne di più, ciò che intende è che quando crea un piatto lo fa anche in funzione dei colori che ha? «Il colore è ciò che viene prima di tutto.» Sono sbigottito. Anche prima del gusto? «Prima di tutto!»
Devo apparire particolarmente confuso perché prende subito nuovamente la parola: «Quando cucino un piatto io penso alla montagna, penso al mare, penso alla strada. Penso sempre a dei colori. Il colore è la passione, senza non potrei cucinare un piatto di alto livello. Il sapore arriva comunque. Se vai in un ristorante e ti portano patate bollite, una sogliola in padella con su olio, sale e pepe, tutto bianco… ci rimani male. Sono ricette che possono fare tutti, ma non c’è niente dentro, non c’è sapore. A tavola c’è bisogno di colore: prendi una carota, un fagiolo giapponese, un fiore rosso. Ecco che il piatto diventa verde, diventa rosa, diventa arancione. Si “sviluppa”. Se penso a dieci piatti penso a dieci colori diversi».
È un approccio al cibo per me completamente inedito. Cerco di farmi strada in questa nuova visione alimentare chiedendogli se per caso quindi lui associa a un determinato sapore o alimento (la carne, il pesce, la pasta ecc.) un determinato colore. Annuisce, ma poi invece di rispondermi si alza in piedi senza aggiungere nulla e va a prendere qualcosa dietro al bancone. Torna con alcune boccette, piene di polveri colorate. Ne afferra una di colore arancio spento. «Dicevo: ogni piatto ha un suo colore. Guarda, questo è un preparato a base di yuzu, un agrume giapponese che utilizzo spesso. Qui dentro invece c’è un preparato nato da ventun tipi di foglie e nove tipi di peperoncino giapponese» prende un piattino e fa cadere dei grani dalla boccetta «ora immagina che qui ci sia un piccolo pezzetto di pesce. Tu aggiungi una verdura e un fiore, e alla fine ottieni un piatto che è nato in primis dal colore. Non potrebbe esistere senza questa sfumatura. E ho “solo” aggiunto del peperoncino.» Prende in mano un’altra boccetta con dentro una polvere rossastra. «Questo preparato è invece a base di peperoncini che vengono da Kyoto, e se li usassi avrei un piatto completamente diverso, dal punto di vista cromatico innanzitutto. Faccio un altro esempio…» Afferra un’altra boccetta con d...