A che età è giusto dare il primo smartphone?
«Mia sorella, la zia di mio figlio Mario, gli ha regalato un telefonino da 250 euro per la prima comunione. Secondo lei è giusto che glielo lasci?». Spesso veniamo chiamati nelle scuole per tenere corsi sull’uso consapevole delle tecnologie, compreso l’utilizzo degli smartphone con annessi e connessi (WhatsApp, SnapChat, videogame ecc.). Durante gli incontri con ragazzi delle scuole medie raramente abbiamo trovato undicenni o dodicenni senza smartphone. Di questi molti avevano un account Instagram: snobbano Facebook per non incrociare noi genitori e i nonni, gli insegnanti. Ci è capitato anche di incontrare bambini delle scuole elementari, e molti alunni di nove, dieci anni avevano già in tasca questi strumenti potentissimi. Ribaltando la domanda iniziale: i ragazzi, a quell’età, sono pronti per usare questi strumenti?
Posto che abbiamo delle remore riguardo alla questione dei “nativi digitali” – hanno certamente più confidenza di noi nell’uso delle interfacce touch di smartphone e tablet, ma mancano di competenze, per esempio non sanno cosa sia la netiquette, come vedremo –, che i bambini siano online in età sempre più precoce è un dato di fatto. Lo dicono proprio i dati: la più autorevole fonte europea sul tema, la ricerca EU Kids Online, dimostra come negli ultimi anni ci sia stato un boom delle connessioni a Internet anche per i bambini sotto gli otto anni. La maggioranza dei piccoli tra i sei e gli otto anni ha accesso alla Rete, e questo ormai dal “lontano” 2007. Ma come si connettono alla Rete? A detta di uno dei maggiori esperti italiani del tema, Paolo Ferri: «I nativi considerano le tecnologie digitali come elemento naturale del loro ambiente di vita e non […] Fin da molto piccoli si relazionano con la tecnologia attraverso il gioco e, a volte, per prove ed errori costruiscono da soli i propri giochi senza consultare nessun manuale e senza nemmeno saper leggere, personalizzando la tecnologia secondo le proprie esigenze, come fanno con i Lego».
I nativi usano per lo più dispositivi touch e considerano ormai i notebook come scomodi e ingombranti. Del resto anche in alcune scuole si usano già i tablet ed esistono decine di migliaia di app rivolte direttamente alla prima infanzia. Non siamo ai livelli della Norvegia, dove la metà dei bambini tra i tre e i quattro anni usa un tablet e il 25% uno smartphone, ma la percentuale di nativi schermo-dotati sta aumentando notevolmente anche da noi.
Non abbiamo ancora risposto alla domanda se esista o meno un momento giusto per dotare i bambini di uno smartphone: il motivo è che in realtà una risposta non c’è. Un altro grande esperto del tema bambini e tecnologia, Alberto Pellai (che verrà spesso citato in questo libro), sottolinea che «non esistono linee guida di pediatri o psicologici in questo senso ma la sua indicazione è che il momento più indicato è quello dell’inizio della scuola superiore: da quell’età i ragazzi e le ragazze sono capaci di essere autonomi nell’utilizzo e hanno anche sviluppato la capacità di proteggersi da una certa impulsività che potrebbe danneggiarli». In ogni caso, visto tra l’altro che in prima superiore usano gli smartphone da un pezzo, si può ragionevolmente dire che l’età giusta per ricevere il primo smartphone dipende dalla sensibilità dei genitori e dalla “maturità” dei figli. Lato genitori, la ricercatrice Alexandra Samuel ha individuato tre categorie di approccio al digital parenting:
- “digital enablers”: pongono pochissime restrizioni su come i bambini usano i dispositivi;
- “digital limiters”: cercano in modo attivo di limitare l’uso dei dispositivi da parte dei bambini;
- “digital mentors”: tentano di partecipare attivamente a come i loro figli usano i dispositivi.
Detto che proibire a prescindere non è mai una strategia vincente, il trucco sta nell’uso condiviso dello strumento. Sempre Pellai mette in guardia dai pericoli dell’utilizzo di queste tecnologie (contenuti inappropriati, bullismo, sexting e via dicendo) sottolineando l’importanza del ruolo del genitore come educatore, anche se papà e mamma non sono particolarmente ferrati in tema tecnologico.
Il genitore può supervisionare, dare il buon esempio ma, soprattutto, condividere l’uso di questi strumenti: per esempio si può chiedere al ragazzo di mostrare le proprie chat di WhatsApp facendosi raccontare che cosa ha ricevuto e condiviso. In gergo si parla di “digital mentoring”: un approccio per genitori che intendono proteggere i figli, ma al tempo stesso rispettare i loro confini, e incoraggiarli a diventare degli adulti che sanno come comportarsi online, in modo sano e responsabile. In ogni caso, sottolinea Pellai, la strategia migliore è sempre la stessa: parlare, parlare, parlare.
Cos’è la personalità digitale?
Definire il concetto di “personalità digitale” può risultare più semplice se si parte da un paragone con il mondo tangibile: nel concreto della quotidianità materiale, definiamo la personalità come la somma di qualità, idee, caratteristiche che ci contraddistinguono. Quest’insieme di elementi trova naturale ed effettiva espressione nel momento in cui ci poniamo nel contesto sociale. In pratica il nostro modo di essere, pur rimanendo una caratteristica personale, diventa “distintivo” nel momento in cui siamo in relazione con gli altri.
“Gli altri” di cui parliamo si formano un’idea di noi, del nostro carattere e, più in generale, del nostro “modo d’essere” acquisendo informazioni nel corso della relazione: quel che diciamo o non diciamo, i tempi con cui ci rivolgiamo a loro, il tono con cui lo facciamo, la nostra espressione sono tutti elementi che contribuiscono a far sì che i nostri interlocutori conoscano i molti aspetti della nostra personalità, o meglio, diano la propria interpretazione dell’immagine che proiettiamo all’esterno.
Esemplificando, quindi, possiamo dire che nel mondo fisico trasmettiamo la nostra personalità a coloro con cui ci poniamo in relazione attraverso una serie di informazioni che ci riguardano e che, consapevolmente o meno, gli forniamo.
Nell’universo digitale accade qualcosa di simile.
Chiunque può farsi un’idea della nostra personalità digitale attraverso gli elementi che ci riguardano e che sono conservati in Rete e, per converso, in un contesto in cui l’informazione costituisce componente atomica di costruzioni più complesse, possiamo dire che la nostra personalità digitale è costituita dall’insieme di informazioni che ci riguardano e che noi – o soggetti terzi – abbiamo distribuito in Rete.
Che differenza c’è tra personalità digitale e identità digitale?
Anche in questo caso può essere utile ricorrere a un paragone con l’universo tangibile.
Il termine “identità”, riferito a una persona, definisce l’essere appunto essa «quella e non un’altra» ed è correlato in senso stretto alla possibilità di verificare che tale persona sia veramente chi dice di essere.
La verifica può essere effettuata in molti modi, per esempio contro...