1. Tutto si fa moto e vita
Una mattina di fine dicembre dell’anno 1910 Hermann Rorschach, ventisei anni, si svegliò presto. Attraversò la stanza fredda e scostò le tende della camera da letto lasciando entrare la pallida luce che precede la tarda alba del Nord, ma non abbastanza da svegliare sua moglie pur palesandone il viso e i folti capelli neri che spuntavano da sotto la trapunta. La notte prima aveva nevicato, proprio come lui aveva previsto. Da settimane il lago di Costanza era grigio; mancavano ancora diversi mesi prima che si tingesse d’azzurro, ma il mondo restava bello anche così, senza nessuno in vista lungo le rive o lungo il sentiero che passava davanti al loro curato bilocale. La scena non era semplicemente priva di movimento umano, ma pareva persino prosciugata di ogni colore, quasi fosse una cartolina d’altri tempi, un paesaggio in bianco e nero.
Accese la prima sigaretta del mattino, preparò il caffè, si vestì e uscì senza far rumore per non svegliare Olga. Era una settimana più fitta d’impegni del solito, alla clinica, e il Natale era dietro l’angolo. Vi erano solo tre medici per un totale di quattrocento pazienti, quindi lui e i suoi colleghi dovevano farsi carico di tutti gli impegni: riunioni del personale, i giri delle visite da fare due volte al giorno, l’organizzazione di eventi speciali. Tutto ciò però non impediva a Rorschach di godersi la sua solitaria camminata mattutina nei giardini della clinica. Lasciò in tasca il blocco per appunti che portava sempre con sé. Faceva freddo, ma era nulla a confronto con il Natale che aveva passato a Mosca, quattro anni prima.
Rorschach era più impaziente del solito per quelle vacanze: lui e Olga erano di nuovo insieme; per la prima volta avrebbero avuto un albero tutto loro, come marito e moglie. I festeggiamenti alla clinica si sarebbero tenuti il 23; il 24 i medici avrebbero portato un alberello illuminato da candele da un edificio all’altro a beneficio di tutti quei pazienti che non potevano partecipare alla cerimonia comune. Il 25 la famiglia Rorschach sarebbe stata libera di tornare alla casa dove lui aveva trascorso l’infanzia per far visita alla sua matrigna. Cercò di scacciare quel pensiero dalla testa.
Il periodo natalizio al manicomio risuonava dei canti corali tre volte alla settimana e delle lezioni di danza tenute da un infermiere che suonava contemporaneamente la chitarra, l’armonica e, con il piede, un triangolo. A Rorschach non piaceva ballare, ma si sforzava di andare a lezione per far piacere a Olga. Un compito natalizio che non gli dispiaceva assolvere era quello di dirigere le rappresentazioni teatrali. Quell’anno ne stavano preparando tre, tra cui una che comprendeva la proiezione di foto di paesaggi, di pazienti e di membri del personale della clinica. Che incredibile sorpresa sarebbe stata, per i pazienti, poter vedere sul grande schermo volti conosciuti.
Molti pazienti erano troppo malati per poter ringraziare i parenti per i regali ricevuti, così Rorschach scriveva bigliettini da parte loro, talvolta quindici al giorno. Nel complesso, però, i suoi pazienti si godevano il Natale, per quanto lo permettessero i loro animi tormentati. L’assistente di Rorschach era solito raccontare la storia di una paziente talmente problematica e turbolenta che per anni si era reso necessario tenerla confinata in una cella. La sua ostilità era comprensibile, considerando l’ambiente restrittivo e coercitivo della clinica, ma quando l’avevano portata a una festa di Natale si era comportata benissimo e aveva recitato le poesie imparate a memoria appositamente per il 2 gennaio, il giorno di san Bertoldo. Fu dimessa due settimane dopo.
L’assistente aveva cercato di mettere in pratica gli insegnamenti del suo maestro. Era solito scattare foto ai suoi pazienti non solo per sé o per le loro cartelle, ma perché a loro piaceva mettersi in posa davanti alla macchina fotografica. Donava loro carta e matite, cartapesta e creta da modellare.
Mentre i piedi di Rorschach facevano scricchiolare la neve che ammantava i giardini della clinica, i pensieri volti alla ricerca di nuovi modi di offrire svaghi ai pazienti, lo psichiatra rimuginava sulle proprie vacanze d’infanzia e sui giochi che faceva a quei tempi: gare con gli slittini, la presa del castello, acchiapparella, nascondino e quel gioco in cui versi dell’inchiostro su un foglio di carta, lo pieghi a metà e vedi cosa viene fuori.
Hermann Rorschach nacque nel novembre del 1884, un anno di lumi. La Statua della Libertà , il cui nome ufficiale è La libertà che illumina il mondo, fu mostrata per la prima volta all’ambasciatore statunitense a Parigi nel giorno dell’indipendenza americana. Timișoara, allora parte dell’impero austro-ungarico, divenne la prima città dell’Europa continentale a essere illuminata da lampioni elettrici, non molto tempo dopo Newcastle, in Inghilterra, e Wabash, Indiana. George Eastman brevettò il primo rullino fotografico effettivamente utilizzabile che presto avrebbe permesso a chiunque di fare fotografie catturando la luce stessa, grazie alla «matita della natura».
Quei primi anni di fotografia e di film rudimentali sono forse il periodo storico più difficile da vedere per i contemporanei: nel nostro immaginario tutto appare ingessato e sfocato, bianco e nero. Ma Zurigo, luogo di nascita di Rorschach, era una città moderna e dinamica, la più grande della Svizzera. La sua stazione ferroviaria risale al 1871, la celebre strada costellata di negozi al 1867, la banchina lungo il fiume Limmat alla metà del secolo. Novembre a Zurigo vuol dire guizzi d’arancio e giallo sotto un cielo grigio: foglie d’olmo e di quercia, aceri rosso fuoco fruscianti nel vento. A quei tempi i cittadini di Zurigo vivevano sotto cieli di un azzurro pallido, facevano escursioni per i pascoli punteggiati di stelle alpine e del blu intenso delle genziane.
Rorschach non nacque nello stesso luogo in cui la sua famiglia, per secoli, aveva affondato le radici: Arbon, una cittadina sul lago di Costanza a circa 80 chilometri a est di Zurigo. Sei chilometri più in là lungo la costa del lago vi è una piccola cittadina chiamata Rorschach e dev’essere quello il vero luogo d’origine della famiglia; ma i Rorschach riuscivano a risalire ad antenati vissuti ad Arbon sin dal 1437, e lì la loro storia va indietro di altri mille anni, al 496. Non si tratta di un caso straordinario: la gente si insediava in un luogo per generazioni, si era cittadini di un cantone e di una città così come di una nazione. Qualche antenato si spostò – un pro-prozio, Hans Jakob Rorschach (1764-1837), noto come «il lisbonese», giunse sino in Portogallo, dove lavorò come disegnatore e forse creò alcuni degli ammalianti motivi che si ripetono sulle piastrelle di cui la capitale è ricoperta. Furono proprio i genitori di Hermann i primi a sradicarsi.
Il padre di Hermann, un pittore di nome Ulrich, nacque l’11 aprile 1853, dodici giorni dopo un altro futuro pittore, Vincent Van Gogh. Ulrich era figlio di un tessitore e andò via di casa all’età di quindici anni per studiare arte in Germania, spostandosi fino ai Paesi Bassi. Tornò ad Arbon per aprire uno studio e nel 1882 sposò una donna di nome Philippine Wiedenkeller (nata il 9 febbraio 1854), appartenente a una stirpe di carpentieri e barcaioli con una lunga storia di matrimoni con i Rorschach.
La prima figlia della coppia, Klara, nacque nel 1883 e morì all’età di sei settimane, mentre la gemella di Philippine morì quattro mesi dopo. A seguito di questi duri colpi la coppia vendette lo studio e si trasferì a Zurigo, dove nell’autunno del 1884 Ulrich si iscrisse alla scuola di arti applicate. Trasferirsi in città all’età di trentuno anni e senza un salario fisso, come fece Ulrich, non era cosa comune in quella Svizzera così compassata, ma lui e Philippine desideravano fortemente far nascere il loro secondo figlio in circostanze più liete. Hermann nacque al 278 di Haldenstrasse, a Wiedikon (Zurigo), alle dieci di sera dell’8 novembre. Ulrich concluse gli studi con un bel voto e ottenne un buon lavoro come insegnante di disegno e pittura in una scuola media di Sciaffusa, circa 50 chilometri più a nord. Quando Hermann compì due anni, la famiglia si era ormai sistemata nel luogo in cui lui sarebbe cresciuto.
Sciaffusa è una pittoresca cittadina affollata da fontane e edifici rinascimentali posta sul Reno, il fiume che segna il confine settentrionale della Svizzera. «Sulle rive del Reno i pascoli si alternano alle foreste i cui alberi si riflettono, simili a un sogno, nelle scure acque verdastre» recitava una guida turistica del tempo. Le case non avevano ancora un numero civico, così ogni costruzione aveva un proprio nome – il Ramo di palma, la Casa del cavaliere, la Fontana – e decorazioni distintive: leoni in pietra, facciate affrescate, finestre a golfo che sporgevano come giganteschi orologi a cucù, gargolle, putti.
La città non era affatto impantanata nel passato. La fortezza del Munot, un’imponente costruzione circolare risalente al XVI secolo e posta su una collina ammantata di vigne con tanto di fossato e splendida vista, nel XIX secolo era stata restaurata a fini turistici. Era arrivata la ferrovia e la nuova centrale elettrica sfruttava la vigorosa forza delle correnti del fiume. Il Reno scaturiva, poco lontano, dal lago di Costanza, le cui omonime cascate, sebbene non altissime, erano ampie abbastanza da essere le più estese in Europa. Il pittore inglese William Turner disegnò e dipinse le cascate per quarant’anni, ritraendole enormi come montagne, con le montagne stesse che si dissolvevano in mulinelli di luce e pittura; Mary Shelley raccontò di una volta che si trovava sulla piattaforma più bassa e di come «gli zampilli precipitavano fitti su di noi […] guardando verso l’alto vedemmo onda, e roccia, e nuvola, e i cieli limpidi attraverso il suo velo scintillante e in perpetuo moto. Era qualcosa di inedito, che superava ogni altra cosa avessi visto prima». Per dirla con la guida succitata: «Una pesante montagna d’acqua piomba sullo spettatore come un destino nefasto; e nel precipitare, ogni cosa solida si fa moto e vita».
A seguito dell’arrivo della sorella di Hermann, Anna, nata il 10 agosto 1888 a Sciaffusa, la famiglia in espansione affittò una nuova casa sul Geissberg, a 20 minuti di cammino in salita a ovest della città , dove poi sarebbe nato un altro fratellino, Paul (10 dicembre 1891). La casa era più spaziosa, con finestre ampie e il tetto mansardato, più château francese che chalet svizzero, con campi e foreste da esplorare nelle vicinanze. Il figlio del padrone di casa divenne compagno di giochi di Hermann. Ispirati dalle avventure della serie di libri su Calza di cuoio di James Fenimore Cooper, giocavano agli indiani e ai pionieri, giochi che vedevano Hermann e i suoi amici muoversi furtivamente fra gli alberi vicino a una cava di ghiaia per poi scappare portandosi via Anna, l’unica «donna bianca» a loro disposizione.
Fu questa l’ambientazione dei loro ricordi d’infanzia più felici. A Hermann piaceva sentire il rumore di un oceano che non aveva mai visto grazie al guscio di una conchiglia che un missionario, parente dei proprietari, aveva portato con sé dall’estero. Costruiva labirinti in legno per il suo animale domestico, un topo bianco. Quando gli venne il morbillo all’età di otto o nove anni, il padre ritagliò per lui dei pupazzetti di carta velina che Hermann faceva danzare in una scatola dal coperchio vetrato. Quando uscivano a fare camminate, Ulrich raccontava ai bambini la storia dei bellissimi e antichi edifici e delle fontane della città , spiegando il significato delle immagini che li decoravano; li portava a caccia di farfalle, leggeva loro libri, insegnava loro i nomi dei fiori e degli alberi. Crescendo, Paul diventava un ragazzino paffuto e vivace mentre Hermann, stando a suo cugino, «poteva mettersi a esaminare qualcosa per moltissimo tempo, assorto nei suoi pensieri. Si comportava bene, era silenzioso, proprio come suo padre». Lo stesso cugino raccontava a Hermann, che aveva nove anni, favole – Hansel e Gretel, Raperonzolo, Tremotino – «che gli piacevano, perché era un sognatore».
Philippine Rorschach era una donna cordiale ed energica cui piaceva intrattenere i suoi figli con vecchie canzoni popolari, oltre a essere una cuoca eccezionale: il suo dolce con panna e frutta era uno dei preferiti dei ragazzi e ogni anno organizzava una grigliata a base di maiale per i colleghi di suo marito. Ulrich pensava che i suoi genitori non si fossero mai amati, tanto litigavano aspramente; perciò era importante per lui mantenere per i suoi figli un clima familiare affettu...