Merate, 30 gennaio 1944 ore 8.00
Adelina, con la sua pazienza infinita, lo ha vestito e lavato e poi lo ha sistemato sulla sua sedia di fronte alla finestra che si affaccia sul giardino. È il suo posto preferito quello. È capace di passare tutta la mattinata così, senza aver bisogno di nulla, né un bicchiere d’acqua, né che gli sistemino la coperta sulle ginocchia ossute, né che gli portino un fazzoletto pulito. Lui guarda fuori dalla finestra e pensa. E poi accanto alla finestra c’è quel quadro: un lago circondato da gentili montagne, i colori tenui di una serata di inizio autunno quando il caldo agostano resta solo un ricordo e l’acqua, i monti, la riva erbosa, le delicate nubi in cielo paiono soffusi di oro e ambra. Una fragile imbarcazione tipica dei pescatori del Lario si spinge verso la riva e par di percepire la soddisfatta stanchezza di coloro che finalmente rincasano alle loro famiglie. E lo sguardo del vecchio seduto sulla sedia vaga ora là fuori, sui rami spogli delle piante del giardino addormentate nel freddo di gennaio, ora sulle placide onde del lago dipinte sulla tela.
Se è vero che i vecchi sono carichi di ricordi allora Achille lo è così tanto da sprofondare in essi come fossero un soffice materasso di piuma. Guarda Achille, guarda e ricorda.
Giorni fa, o forse settimane o mesi (il tempo qui in campagna scorre lento come un fiume pacifico) gli hanno proposto che qualcuno a turno, Adelina o il nipote Edo, gli leggano uno dei suoi libri della grande biblioteca del piano di sotto, ma lui ha ringraziato e detto no. No, gli bastano i ricordi a impegnare la sua mente da vecchio. E anche se i suoi occhi non sono più quelli di una volta (e anche le gambe, e la forza e, in generale, tutto il suo corpo esile e sottile) lui ha quegli occhi interni che gli mostrano nitide nitide, come appena uscite dal pennello del pittore, le immagini di ciò che ha di più caro. E poi c’è il sonno, quel magnifico ristoratore del sonno, che porta con sé un fedele compagno, Morfeo, con i sogni. E in essi Achille è libero dal suo corpo infermo e dall’incedere inesorabile del tempo.
Il vecchio Achille guarda fuori e, come i buoi ruminano l’erba strappata dal pascolo così lui fa con i suoi ricordi: li rimastica ora che è il tempo della quiete. Qui, a Merate, nella villa Ida che tanto ha visto della vita sua e dei suoi cari, è giunto il tempo della calma. Un grasso passerotto salta sui rami della magnolia addormentata e si infila sotto le fronde del pino che ombreggia la facciata di casa. L’occhio del vecchio segue il piccolo uccello e poi, forse per un richiamo lontano e senza parole, scivola sulla superficie del quadro fino alla firma Guido Ricci, il padre. Ed ecco ad ondate i ricordi della sua infanzia invadergli la mente.
Ballabio, Luglio 1877
Il piede freddo del fratello maggiore appoggiato sulla caviglia lo aveva svegliato, ma non si era infastidito come al solito. Era rimasto in silenzio ad ascoltare i genitori che parlavano oltre la tenda che divideva la loro stanza dalla sala da pranzo. Non riusciva a distinguere la parole, ma comprendeva il tono della discussione. Erano rilassati i suoi genitori, forse stavano sorseggiando il caffè caldo e scuro seduti sulle sedie di paglia. Un insieme di note gravi e acute punteggiava l’aria frizzante del primo mattino e solo una sfumatura di rimprovero incrinava la voce femminile di mamma Francesca. Gli obliqui raggi del sole avevano già raggiunto le finestre chiuse in modo approssimativo. Le imposte di legno della baita non si chiudevano ermeticamente come quelle di città e, quindi, il primo sole inondava vittorioso le assi del pavimento con le sue strisce brillanti. Il fratello si girò di nuovo tra le coperte e gli toccò ancora la gamba. Achille sbuffò, ma restò silenzioso. Voleva godersi quell’attimo di perfetta solitudine. Poi ci sarebbero stati i giochi, le corse, le capriole e i rotolamenti, ma ora era tempo di silenzio. Del resto dormivano nello stesso letto i due fratelli, il maggiore Luigi e il minore Achille. Di stanza lì ne avevano solo una divisa da alcune tende, ma pur sempre una. E i rumori si propagavano nell’aria. La toilette (come aveva insegnato loro Gertrude, la cameriera di Milano, “dire gabinetto è molto sconveniente”) era fuori in un casoncino con una piccola ed alta finestrella sempre invaso da grosse mosche verdognole. Erano in vacanza o, come lo chiamava scherzosamente il padre, in “ritiro naturale” e quindi la sistemazione era decisamente spartana: era solo una malga che avevano prestato alla famiglia Ricci quelli del paese a valle. Ma per Achille e Luigi quella era la casa dei sogni, luogo di infinite avventure. Anche la madre, abituata alle comodità cittadine, si era adattata a quel rustico alloggio e, benché dovessero cenare, la sera, alla luce di un paio di candele sul tavolaccio (così lo chiamava lei) quell’aria carica di ossigeno e quella vista ampia e piena di cielo e di montagne faceva a tutti un gran bene.
La mattina il padre Guido, con i primi raggi del sole, usciva con tele e pennelli. Doveva cogliere l’attimo giusto, essere sul posto proprio quando i raggi del sole proiettavano quelle ombre particolari sul pianoro, quelle ombre che lui voleva fissare sulla tela “così come sono e non come vorrei che fossero”. Dalle aule dell’Accademia delle Belle Arti, e dal suo maestro Gaetano Fasanotti, Guido aveva imparato la tecnica e affinato la vista, ma l’umiltà dell’artista si coglie quando questi si inchina allo spettacolo grande e maestoso della natura.
“Nulla può eguagliare la pienezza di bellezza e la perfezione asimmetrica del creato ove ogni cosa sta con le altre in un rapporto così stretto e congiunto da costituire un unico paesaggio. Chi coglie questa compenetrazione coglie la sublime armonia e può percepire la celestiale musica del cosmo che come un immenso organismo perfettamente composto pulsa e vive” diceva spesso ai figli.
Anche quella mattina il padre sarebbe uscito e, probabilmente, la sfumatura querula della voce della madre era una debole e timida protesta. Le voci cessarono di scambiarsi battute e una sedia venne delicatamente spostata. Il padre si stava alzando e si apprestava ad uscire. Achille sapeva (li aveva spiati una volta, non visto) che prima di uscire Guido avrebbe baciato sulle labbra la sua piccola moglie e il bimbo fremeva di piacere. Era bello pensare al bacio che i suoi genitori si scambiavano di nascosto dai figli, quasi si vergognassero di mostrarsi così fragili e umani.
Anche lui un giorno avrebbe trovato la sua principessa a cui avrebbe dedicato tutto il suo amore e che avrebbe baciato con il rossore sulle guance e con il cuore in tumulto. E anche lui e la sua sposa, un giorno, si sarebbero nascosti dai figli (ne avrebbe avuti due o tre? Magari anche una figlia che avrebbe sgambettato ridendo tra i fiori di campo come la piccola Miriam, la figlia del contadino che rideva con le sue labbra rosse e gli faceva i dispetti) per scambiarsi quel bacio che rinnovava un’eterna promessa di amore? Lo sperava nel profondo del suo cuore di fanciullo romantico e sensibile, lo sperava con tutto se stesso.
“Achille...”
Era il fratello Luigi che si sfregava gli occhi con i pugni chiusi. “Giochiamo ai cavalieri dopo? Facciamo le spade con i bastoni? Eh? Facciamo le spade?”.
“Silenzio...shhh!!!” gli aveva detto Achille più con l’ espressione del volto che con la voce. “Mamma e papà non sanno...