LE NAVI
Lo strumento che rese possibile questo dominio così completo del mare fu il vascello di linea, punto di arrivo di una lunga e lenta evoluzione. Anche se nell'immaginario collettivo prevale un'immagine romantica e oleografica di queste navi, i vascelli erano delle macchine belliche estremamente sofisticate, in cui tutto era finalizzato al loro campito: portare il maggior numero di cannoni a contatto con il nemico. Queste navi appartengono a pieno titolo alla storia della tecnologia, e anzi per molti secoli ne hanno rappresentato il vertice, poiché nella loro costruzione e gestione si concentravano tutte le conoscenze dell’occidente, dal sapere tradizionale della tecnologia del legno (taglio del legname e costruzione dello scafo) alla metallurgia (ancore e cannoni), dalla chimica (polvere da sparo) alla medicina (lotta contro malattie esotiche), dalla cartografia all’astronomia alla matematica (calcolo della rotta e della punto nave). Nella storia della nave a vela, il momento più importante si colloca nella seconda metà del Quattrocento, quando si verificò la cosiddetta “rivoluzione nautica”: dalla cocca medievale dall’attrezzatura elementare (un solo pesante albero con una sola vela) si passò alla nave “full-rigged”, cioè dotata di una velatura frazionata su tre alberi e rapidamente perfezionata. Per i quattro secoli successivi gli scafi e l’attrezzatura rimasero praticamente invariati, tanto che un marinaio di Drake non avrebbe avuto problemi a imbarcarsi su una nave di Nelson, e viceversa. Crebbero solo le dimensioni: il Revenge, ammiraglia di Drake contro l’Invincibile Armada (1588), dislocava 550 t; trent’anni dopo il Royal Prince ne dislocava 1330. Un grande vascello del Settecento, punto di arrivo di questa lenta evoluzione, aveva un dislocamento di circa 2000 tonnellate e un equipaggio di 850 uomini. L’unica grande nave di questo periodo che sia giunta intatta fino a noi è proprio la Victory, nave ammiraglia di Nelson a Trafalgar, che rappresenta perciò un’occasione unica per capire come funzionassero questi potenti strumenti bellici.
Nel cinquecento e nel seicento la maggior parte delle navi venivano costruite in bacini, realizzati in parte mediante escavazione e in parte mediante palizzate e muraglie. Durante la bassa marea le porte del bacino venivano chiuse e l’acqua pompata all’esterno. Durante la costruzione, lo scafo era circondato da un’impalcatura che permetteva agli operai di lavorare a ogni livello. Il fasciame veniva fissato alle ordinate con caviglie e spinotti di legno di quercia. Le ordinate (ossia le «costole» dello scafo) erano fissate a brevissima distanza l’una dall’altra, e in corrispondenza degli alberi erano ancora più fitte. Poiché la costruzione avveniva all’aperto e durava molti mesi, l’acqua piovana impregnava il legname, che si trovava così esposto sin dall’inizio al rischio della putrefazione. Solo grazie alla eccezionale robustezza e pesantezza della costruzione questo fatto non comprometteva la solidità della nave. Terminati i lavori, l’unità veniva rimorchiata all’esterno al momento dell’alta marea. Capitava però che lo scafo risultasse troppo pesante per galleggiare da solo, e in questo caso il suo stesso peso rendeva quasi impossibile l’operazione di trascinamento verso il mare. Si diffuse così nel Settecento, almeno per le navi di medie dimensioni, l’uso di costruire lo scafo al di sopra del livello dell’acqua, su uno scalo leggermente inclinato. Quando l’unità era pronta, si costruiva attorno all’opera viva un’invasatura, che poggiava su taccate ingrassate. Al momento dell’alta marea i blocchi venivano rimossi e la nave scivolava verso il mare. L’operazione non era priva di rischi: l’incarico di togliere l’ultimo fermo veniva talvolta assegnato a un condannato a morte, che per evitare di essere schiacciato dalla massa incombente della nave doveva poi tuffarsi in una piccola buca scavata nello scalo. Quando il condannato sopravviveva a questa operazione, di solito riceveva la grazia.
La Victory venne impostata nel 1758 e varata nel 1765 nell’Old Single Dock di Chatham. Questo lungo intervallo di tempo tra l’inizio della costruzione e il varo, dovuto al fatto che in quel periodo l’Inghilterra stava vincendo la guerra dei Sette Anni e dunque non c’era più urgenza di grandi navi da guerra, ha permesso agli 8500 m3 di legname impiegati di seccare perfettamente e ha quindi garantito la longevità dell’ossatura e del fasciame. Lungo 57,6 m tra le perpendicolari (69 m dalla polena alla poppa estrema), largo 15,8 e con una stiva profonda 6,5 m, questo vascello ha una stazza di 2200 tonnellate: il suo albero maestro ha un diametro di circa un metro e la punta più alta dell’alberatura si trova a ben 61 metri sul livello del mare.
Statistiche del 1803 ci rivelano l’immensa quantità di materiale necessario per una nave da 80 cannoni: 1.600 tonnellate di legname, 168 tonnellate di cannoni, 51 tonnellate di munizioni, 32 tonnellate di gomene, più di 30 tonnellate di sartiame, 14 tonnellate di vele e 8 tonnellate di vernice e catrame. Il legno di quercia era il legname più usato per lo scafo, sebbene il tek impiegato per le navi costruite a Bombay e il cedro usato alle Bermuda fossero validi sostituti; invece i legni dolci, usati in via sperimentale per sopperire alla carenza di legname, non duravano a lungo. Nel 1811 si calcolò che la costruzione di una nave da 74 cannoni richiedeva l’abbattimento di 50 acri di foresta con alberi piantati a una distanza di 33 piedi (circa 10 m) l’uno dall’altro.
La Victory, come tutti i vascelli, era letteralmente stipata di uomini: il suo equipaggio era formato da 850 uomini, che dormivano, a turni, in amache appese nei ponti di batteria, direttamente sopra i cannoni. Da notare che non ci sarebbe letteralmente stato spazio sufficiente a far dormire contemporaneamente tutto l’equipaggio. L’ammiraglio Nelson invece aveva a disposizione un appartamento composto da un salone di lavoro aperto sulle nove finestre di poppa, da una sala per i pranzi ufficiali con una superficie di circa 65 m2 e una camera da letto grande circa 3,6 m per 6.
L’esigenza di garantire la piattaforma più stabile possibile per l’artiglieria aveva portato a privilegiare la stabilità iniziale della nave. Si era giunti così, già nel corso del Seicento, alla tipica forma detta “tumble-home”, in cui la larghezza al galleggiamento era superiore a quella a livello della coperta. Questa forma aveva il vantaggio di rendere più difficile al nemico l’abbordaggio (quando gli scafi si toccavano, tra le coperte restava aperto un ampio spazio) e permetteva di progettare le ordinare inscrivendole in circonferenze (come nel celebre progetto della francese Corunne, prima nave della storia a essere progettata a tavolino), ma riduceva sensibilmente i volumi di spinta quando la nave sbandava sopra un certo angolo. Questa forma era particolarmente pronunciata sulle unità francesi, e venne a lungo copiata anche dagli inglesi e soprattutto dagli olandesi, che nel progettare i loro vascelli dovevano anche tener conto dei bassi fondali delle loro coste. Le navi francesi erano di dimensioni maggiori di quelli inglesi, e perciò risultavano generalmente migliori sotto vela. Le ragioni di questa differenza erano essenzialmente economiche: gli inglesi erano spinti a costruire navi più piccole dall’esigenza di doverne tenere in mare un numero maggiore per poter controllare i propri vasti interessi coloniali. Nel 1782 così la Gran Bretagna disponeva di 105 navi di linea, la Francia di 89, la Spagna di 53 e l’Olanda di 32. Durante il periodo della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico questa tendenza si consolidò ulteriormente: nel 1812, al culmine dello sforzo bellico, gli Inglesi arrivarono ad avere 126 vascelli in mare, cui andavano aggiunte 145 fregate.
Uno dei progressi tecnici più significativi del Settecento fu l’uso di applicare un rivestimento in rame allo scafo in legno allo scopo di proteggerlo dalla teredine. Il primo esperimento venne eseguito nel 1761 con la fregata Alarm, destinata alle acque dell’Estremo Oriente. Al suo ritorno nel 1763 si constatò che alghe, conchiglie e teredini non si erano attaccate alla carena: però, tra la sorpresa generale, i collegamenti in ferro del timone erano talmente consumati che il timone era sul punto di staccarsi. Ovviamente, l’azione elettolitica di quel metalli non era stata ancora scoperta.
Le vele sono ovviamente il «motore» di un veliero, ma la nuvola bianca che nei quadri e nella nostra fantasia sovrasta la nave è molto più complicata, e insieme più elegante e funzionale di quanto normalmente si pensi. Il vascello del settecento, anche da questo punto di vista, rappresenta il punto di arrivo di una evoluzione durata secoli, e i marinai del tempo di Nelson non pensavano che si potesse cercare o sperare di avere navi migliori. I problemi strutturali da risolvere per costruire queste sofisticate macchine utilizzando quasi esclusivamente la tecnologia del legno erano enormi, sia per lo scafo sia per l’apparato propulsivo, cioè gli alberi e le vele. Per esempio sarebbe stato assolutamente impossibile trovare in un bosco pini, larici o abeti alti, spessi e dritti a sufficienza da poter essere usati da soli come alberi di un vascello. Questi infatti arrivavano ai sessanta metri d’altezza ed erano perciò sempre composti da almeno tre spezzoni: il fuso maggiore, l’albero di gabbia e l’alberett...