Jazz foto di gruppo
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Jazz foto di gruppo

  1. 523 pagine
  2. Italian
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Jazz foto di gruppo

Informazioni su questo libro

Questo libro non è una storia del jazz. Non segue il canone delle storie del jazz, non segue la cronologia delle storie del jazz. Questo libro è un lungo viaggio sui sentieri labirintici del jazz, un viaggio forsennato che parte da una foto di gruppo: la famosa "A great day in Harlem" di Art Kane. In una foto non c'è un inizio e una fine. Quando si guarda una foto si può partire da dove si vuole. Si può saltare da sinistra a destra, da un viso all'altro, dal primo piano allo sfondo. Così è questo libro. È un viaggio senza tragitti predefiniti, all'avventura, un viaggio di un gruppo di amici spensierati che la scelta di dove svoltare la fanno con i dadi. Piantagioni di schiavi neri, Harlem Renaissance, "I have a dream". La povertà, la depressione, l'umiliazione. Il pregiudizio, la discriminazione, lo sfruttamento. La violenza, la droga, l'alcol. La solitudine. New Orleans, Kansas City, Chicago, New York, la California. Miles Davis, Charlie Parker, Duke Ellington. Buddy Bolden, Thelonious Monk, Charles Mingus. E un cadavere, con una barba albina, che viene ripescato il 25 novembre 1970, nelle acque gelide dell'East River. Si chiama Albert Ayler, professione jazzista. Misteriosa la sua morte, come la sua musica.

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QUARTA PARTE
Forme del jazz moderno
19. Il bebop secondo Tadd Dameron dal tramonto all’alba
Le fortunose registrazioni di Jerry Newman al Minton’s e al Monroe’s di Harlem e di Bob Redcross nel febbraio 1943 al Savoy Hotel di Chicago contribuiscono meglio di qualsiasi altra testimonianza, discografica e non, a trasmettere il senso del fervore innovativo, della tensione, della felicità e della disperazione di una musica nuova, più libera, forte e imprevedibile: l’orecchio indiscreto piomba nel turbine di un processo creativo in atto senza, parrebbe, alcuna preparazione formale, e la fantasia incendiatasi non ha difficoltà a immaginare quelle jam session come laboratori segreti dove sta nascendo il nuovo jazz.
Sappiamo anche che il processo non è stato così lineare, e che il bebop è stata una elaborazione molto più complessa con contributi contemporanei da più parti, da più laboratori e da tanti ricercatori indipendenti. Ma tant’è: gli assolo di Charlie Christian nelle jam session del Minton’s, maggio 1941, rispetto a quelli registrati negli stessi giorni con il sestetto di Benny Goodman, sono così palesemente superiori, diversi, moderni, rivoluzionari, vigorosi, energici, animati da forze sconosciute da far dire che comunque l’elettricità vagante generata dal jazz nelle lunghe notti di Harlem si scaricava puntualmente al Minton’s e al Monroe’s.
Ci si sente così coinvolti in questa tempesta creativa da guardare maggiormente se non esclusivamente al potenziale e al futuro di questa musica piuttosto che alla musica stessa, work in progress, abbozzi, scintille disperse, fuochi d’artificio.
Inevitabilmente, per i protagonisti straordinari che emergeranno con il bebop conquistando la scena del jazz.
Inevitabilmente, perché con il bebop nasce dichiaratamente una musica d’arte, da ascoltare con il fiato in gola, intellettualmente esigente e selettiva. Inevitabilmente, perché è dal bop che germinerà tutto il jazz moderno e postmoderno.
La genesi del bebop e i suoi creatori
Gli anni dal 1940 al 1945 sono al centro della cosmogonia del nuovo jazz, del BeBop, forze sconosciute animano le jam session ad Harlem. Altre forze infondono passione e disciplina. La nuova musica nasce già compiuta, praticamente perfetta.
Profeti, costruttori di mondi, Parker Gillespie Monk su tutti, visionari come Bud Powell, Kenny Clarke, Charlie Christian, Max Roach, Jimmy Blanton, Wardell Gray, conquisteranno il proscenio, congiurati di magiche jam session, elettrizzati carbonari del ritmo, a loro il bebop è indissolubilmente legato.
Maturi alchimisti alla ricerca dell’eterna giovinezza musicale: Lester Young, Coleman Hawkins, Mary Lou Williams, Hot Lips Page, Buster Smith, Roy Eldridge, Earl Hines, solo di qualche anno più anziani, già appartengono alla generazione jazzistica precedente; sono gli antesignani, gli inconsapevoli precursori, i mentori della nuova musica.
Una generazione che appartiene allo swing, se per swing intendiamo quell’elemento essenziale di tensione, attivo in modo diseguale, che si è come liberato a poco a poco nel corso degli anni per culminare alla fine degli anni trenta con il regno del 4/4, con la perfezione levigata delle partiture e dell’esecuzione, il relax e l’equilibrio fra ritmo e pulsione vitale, calore dell’espressione, magistero strumentale, efficacia ritmica e immaginazione melodica.
Fra le due generazioni, più ideali che strettamente anagrafiche, giovani visionari e maturi alchimisti, si colloca l’esercito dei bopper, artigiani di genio i cui nomi appariranno forse solo citati, ma mai dimenticati, terreno ideale perché il lettore possa tracciare un suo cammino di ascolto originale, nello spirito di questo racconto.
L’orchestra meticcia non è mai esistita
Una generazione che tuttavia non appartiene allo swing quando lo swing diventa sinonimo di musica rivolta prevalentemente al pubblico bianco, anche quando le orchestre swing si irrobustiscono (rispetto al sound ritmo-sinfonico sempre più anemico di Whiteman e Goldkette) grazie alle prime presenze fondamentali di solisti neri nelle orchestre bianche (Roy Eldridge e Leo Watson con Artie Shaw e Gene Krupa; Cootie Williams, Charlie Christian, Lionel Hampton, Teddy Wilson con Goodman; Herschel Evans con Harry James, Eldridge, Al Killian, Charlie Shavers con Charlie Barnet) e, più importante ancora, l’utilizzo a tutto campo di repertorio e orchestrazioni messe a punto dagli arrangiatori neri (Eddie Durham, Benny Carter, Mary Lou Williams, Horace e Fletcher Henderson per Goodman, Don Redman per Jimmy Dorsey, Sy Oliver per Tommy Dorsey, Jimmy Mundy praticamente per tutte le orchestre bianche importanti del momento).
La caduta delle barriere razziali più vistose fra i musicisti bianchi e qualche solista nero, è annullata dall’atteggiamento ostile dei musicisti bianchi che evidentemente temono la superiorità musicale del nero nelle tecniche specifiche del jazz. La big band «meticcia» si rivela un parziale fallimento: si può affermare quasi che sono gli arrangiatori a fare la differenza sfornando a macchina delle orchestrazioni elaborate indistintamente da arrangiatori neri per orchestre bianche o nere, bop o swing quasi gli arrangiamenti fossero una commodity. Le big band più affermate mantengono la propria identità razziale e artistica, da Ellington a Basie, da Kenton a Herman, non ha preso corpo alcun meticciamento: l’eccezione di brevi periodi, conferma la regola.
Le big band nere
La loro musica ha radici profonde. Radici dai percorsi sotterranei che rimandano alle orchestre di Kansas city, a Count Basie, alle Territory Bands, a Fletcher Henderson, a Duke Ellington e alle orchestre da ballo nere come quelle di Cab Calloway, Jimmy Lunceford, Chick Webb, Lucky Millinder, Mills Blue Rhythm Band, dei Savoy Sultans, di Erskine Hawkins, quelle che propagavano l’epidemia del jes’ grew (il «cresci-cresci» della traduzione italiana) descritta da Ishmael Reed nell’imprescindibile Mumbo Jumbo, musica nera, vera, originale, contagiosa.
E ciò è doppiamente evidente se gli stessi personaggi che avevano sottratto, alle orchestre nere lo straordinario successo della Swing Craze, i protagonisti della swingmania, Benny Goodman, Gene Krupa, Artie Shaw, Charlie Barnet, con qualche reticenza guarderanno presto al bop (negli anni fra il 1947 e il 1950) per tentare di rigenerare le loro formule musicali ormai esauste e di tenere il passo con le inedite e agguerrite sfide delle nuove orchestre bianche di Woody Herman, Boyd Raeburn, Claude Thornhill, Stan Kenton, che invece avevano colto al volo il cambio del vento.
L’orchestra di Ellington viene profondamente rinnovata dall’apporto propulsivo di un giovanissimo contrabassista, Jimmy Blanton, e con Ben Webster inaugura la stagione del protagonismo del sax tenore.
Last but not least, la big band di riferimento è anche quella di Count Basie con Lester Young e la All America Rhythm Section. Seppure in modo indiretto contribuiscono al superamento della Swing Craze promuovendone l’evoluzione verso il jazz moderno.
Le big band che percorrono vorticosamente gli Stati Uniti sono il vento che turbina dappertutto i semi della nuova musica. Cross impollination.
In quelle notti ai giovani musicisti neri di provincia si spalancavano mondi musicali inaspettati: Benny Bailey ricorda: «La prima volta in assoluto che l’ho sentito [Diz] è stato come uno shock. Successe a Cleveland, mentre stavano facendo una jam session. Due, forse tre orchestre erano in città nello stesso momento. […] Probabilmente c’erano anche Eckstine e Cootie Williams. Bud Powell e Eddie Vinson […] stavano suonando con Cootie. E Tadd Dameron capitò per caso in città. C’erano tutti in città».1
Riti di iniziazione, riti di passaggio, ordalie per venire ammessi nella confraternita dei musicisti di jazz. Un ordine con regole non scritte, ma rigidissime, legate alla competenza prima che all’estro.
Uncle Sam wants you!
Ma nel crogiolo della musica nera di quegli anni vengono gettati altri ingredienti che attengono più alla sociologia e alla storia che unicamente alla musica.
L’atmosfera sociale che si respira nella grande città nera di Harlem e nelle città industriali del Nord, dell’Illinois, del Michigan, dell’Ohio dove si produce per la difesa, è inquieta, ribollente: i neri chiedono la fine delle discriminazioni almeno nell’industria bellica e gli scioperi alla Ford di Detroit nel 1941 conquistano questo primo obiettivo minimo.
Chiamati a difendere in Europa e nel Pacifico le democrazie dall’assedio delle dittature nazifasciste e dell’imperialismo espansionista giapponese, molti neri si ribellano alla prospettiva di combattere per una società profondamente ingiusta e rifiutano la cartolina precetto.
Molti musicisti approfittano più o meno ingenuamente dell’essere continuamente on the road per non farsi raggiungere dalla chiamata dello Zio Sam. Nei ghetti neri i ribelli, gli insofferenti ricorrono a tutte le astuzie «to deceive Uncle Sam and to dodge the draft».
Malcolm Little, meglio noto alla polizia come Detroit Red, è un giovane delinquente già omicida e condannato a una lunga detenzione, durante la quale si convertirà all’Islam di Elijah Mohamed, diventando il suo braccio destro, un leader politico conosciuto a livello nazionale, con il nome di Malcolm X.
La sua autobiografia è una delle fonti più attendibili, ricche e articolate per conoscere Harlem, il mondo dei neri e le contraddizioni di quegli anni. Quando riceve gli Uncle Sam’s Greetings, come veniva chiamata la cartolina precetto, mette subito in piedi una ben orchestrata farsa: «Ho iniziato a spargere in giro la voce che non vedevo l’ora di entrare… nell’esercito giapponese. Quando mi rendevo conto di essere sorvegliato parlavo ad alta voce e mi comportavo come un matto.» Si presenta quindi al distretto vistosamente vestito come un attore di spettacoli per neri, con un abito zoot dei più selvaggi, sino a quando dallo psichiatra, atto finale, «all’improvviso mi alzai di scatto e sbirciai sotto entrambe le porte, quella da cui ero entrato e un’altra, che probabilmente era un ripostiglio. Poi mi chinai e bisbigliai a tutta velocità nel suo orecchio. “Paparino, adesso siamo io e te, gente del Nord, quindi non dirlo a nessuno. Io voglio essere spedito nel Sud a organizzare soldati negri, mi segui? Ruba un po’ di pistole per noi e andiamo ad ammazzare un po’ di ‘scarafaggi’!” […] Una tessera 4f mi arrivò per posta e non ebbi più notizie dall’esercito».2
Anche Gillespie riuscì a conquistare il suo 4F,in un modo che oggi,ironicamente,si definirebbe «politicamente corretto»: «Be’, guarda, a questo punto, a questo stadio della mia vita, negli Stati Uniti, chi mi ha dato un calcio in culo? Il piede dell’uomo bianco è rimasto stampato sul mio culo, fino in fondo! […] Adesso mi stai parlando del nemico. Mi stai dicendo che il tedesco è il nemico. Ma se ci penso bene non riesco nemmeno a ricordare di averlo mai incontrato un tedesco.Quindi se mi mandi là fuori con un’arma in mano e mi dici di sparare al nemico io potrei essere responsabile di creare un caso di scambio di identità, su a chi dovrei sparare».3
Ma tutto ciò impallidisce rispetto all’esibizione magistrale messa in scena all’Ufficio di Leva da un geniale istrione, Babs Gonzales. La visita medica così si avvia alla logica conclusione: «Mi sono seduto lentamente e mi sono tolto le scarpe e le calze. Le unghie dei piedi dipinte di rosso e i capelli arricciati causarono subito una certa emozione, ma è stato quando mi sono tolto la maglietta e i pantaloni e hanno visto reggiseno e mutandine che sono stato cacciato via in due minuti... [Lo psichiatra] era lì seduto, quando gli ho sfiorato la mano dicendo: “Sono sicuro che sei un uomo comprensivo, spero che potremmo vederci da qualche parte dopo che hai finito di lavorare”… In quindici minuti arrivò una guardia e mi diede una tessera timbrata 4FH… Nei sei mesi successivi sette grossi nomi della musica vennero da me e mi chiesero in prestito l’armamentario (capito?)».4
Non sempre però i fatti prendono una piega positiva: malgrado i numerosi inviti a presentarsi agli Uffici di Leva i musicisti neri tendono a ignorare le convocazioni adducendo come scusa i continui spostamenti.
Così nel settembre del 1944 l’Fbi decide un’operazione esemplare. Un agente viene «infiltrato» al Plantation Club di L.A. dove suona l’orchestra di Count Basie (cui darà il cambio la big band di Earl Hines) abbigliamento zoot e vistosa catena dorata al collo: l’obiettivo è di incastrare Lester Young e Jo Jones, renitenti alla leva. E subito le cose si mettono male: a entrambi viene contestato di aver sfuggito per oltre un anno la chia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prima Parte. La schiavitù è genocidio
  3. Seconda Parte. Il jazz classico
  4. Terza Parte. Genio e spettacolo
  5. Quarta Parte. Forme del jazz moderno
  6. Appendici
  7. Religioni tradizionali e religione di salvezza
  8. Religioni dei neri, religione del blues
  9. Marijuana, eroina
  10. Le oscure notti del jazz
  11. Parigi
  12. Django
  13. Analogie: il rebetiko
  14. Analogie con certe musiche rom
  15. Testimonianze, testimonianze, ancora testimonianze!
  16. L’impatto della tecnologia sulla comunicazione musicale di massa e sulla comunità dei musicisti di jazz
  17. Il ruolo sociale del jazz
  18. Moondog
  19. Note