Dario e Franca
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Dario e Franca

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Dario e Franca

Informazioni su questo libro

Dario e Franca hanno fatto troppo, scritto troppo, parlato troppo, rilasciato troppe interviste, fatto troppi programmi televisivi, tenuto troppi laboratori, sono stati coinvolti in troppe polemiche, sono apparsi sul palco troppo spesso, hanno recitato in troppi Paesi, troppi dei loro spettacoli sono stati tradotti in troppe lingue e hanno viaggiato troppo perché un libro qualsiasi possa fornire una documentazione completa delle loro vite e opere.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2014
eBook ISBN
9788867051571
Argomento
Storia
Parte 1

1.INFANZIA E GUERRA
Dario Fo nacque a Sangiano, un paese nei pressi del Lago Maggiore appena a sud di Laveno, il 24 Marzo 1926: quattro anni dopo la marcia su Roma di Mussolini. Il radicato antifascismo dei parenti stretti lasciò un segno duraturo, ma la secolare cultura del suo paese natale ebbe un impatto ancor più profondo e duraturo. Nel suo stravagante libro di memorie, Il paese dei mezaràt, Dario cita lo psicologo Bruno Bettelheim, il quale sosteneva che per la formazione dell’intelletto e del carattere di un individuo «basta che mi diate i primi sette anni della sua vita»1. In un’altra occasione, Dario scrisse: «Ne sono certo, tutto comincia da dove si nasce. Per quanto mi riguarda, io sono nato in un piccolo paese del Lago Maggiore, al confine con la Svizzera. Un paese di contrabbandieri e di pescatori più o meno di frodo. Due mestieri per i quali, oltre una buona dose di coraggio, occorre molta, moltissima, fantasia. È risaputo che chi usa la fantasia per trasgredire la legge ne preserva sempre una certa quantità per il piacere proprio e degli amici più intimi.»2. Suo padre, Felice Fo, era capostazione; sua madre, Pina Rota, era di origini contadine: nessuno dei due era incline all’infrazione della legge. Per parte di madre, Dario trovò in abbondanza quella colorata fantasia e quel talento creativo che considerava l’eredità principale della sua infanzia sul lago. I Rota avevano vissuto in Piemonte, nel Monferrato, finché il bisnonno di Dario, Giuseppe, non aveva attraversato il Po per trasferirsi con la famiglia a Sartirana, in Lomellina, nel sud della Lombardia. Un solo talento di Giuseppe rimase vivo nella memoria famigliare: sapeva leggere e scrivere in un’epoca di analfabetismo di massa e utilizzava queste capacità per comporre elogi commemorativi ai funerali o madrigali di buon augurio ai matrimoni. Le entrate contribuivano a mantenere la pagnotta in tavola. Sartirana era stata scelta perché si trovava nel cuore della zona di coltivazione del riso in Italia, e i Rota, contadini, desideravano rimanere attaccati al loro modo di vita tradizionale. Il lavoro della risicoltura era debilitante e massacrante. Richiedeva principalmente lavoratrici donne, che lavoravano piegate in due, con l’acqua fino alle ginocchia; ma almeno offriva una qualche forma di reddito garantito. Maria, la nonna di Dario, nata nel 1876, doveva uscir di casa ogni giorno prima dell’alba e camminare tre ore per i campi. Era un lavoro ingrato e ogni donna che si raddrizzava per alleviare la pressione sulla spina dorsale facilmente si buscava la verga dei controllori della risaia, che «arrivavano con una pertica lunga a dare colpi come si fa con le vacche e i buoi». Quando Pina cominciò a lavorare in quegli stessi campi, la verga non si usava più, ma il trattamento riservato alle donne non era migliorato di molto: «sempre come bestie ci trattavano [...]. Io a dieci anni ho cominciato e per dieci-dodici ore di seguito stavo curva con le gambe nell’acqua che mi si bolliva fin sopra il ginocchio e mi ci si attaccavano le sanguarole e tante altre bestie che poi sembrava che ci avessi la pelle d’una scrofolosa»3.
In una certa misura la famiglia prosperò, grazie al padre di Pina, nome di battesimo Luigi, ma da sempre noto come Bristìn. Era nato nel 1860: con l’ingegno e il duro lavoro era riuscito a raggiungere il rango perdapè, termine dialettale che significa letteralmente «perdipiedi». Per guadagnarsi da vivere con la terra, un perdapè faticava «dalle stelle del mattino alle stelle della notte», sette giorni su sette, anche la domenica, con uno sforzo tale che i piedi rischiavano di radicarsi nel terreno. Nella complessa gerarchia di vita contadina era un fittavolo e occupava una posizione intermedia tra il proprietario terriero, di norma assente, da cui affittava la terra, e i braccianti, lavoratori occasionali presi in caso di necessità. Le diverse tipologie di contadini vivevano gomito a gomito in una cascina. Bristìn e sua moglie Maria avevano avuto sette figli sopravvissuti all’infanzia; Pina, la madre di Dario, era la sesta, nata nel 1903. Era una bambina cagionevole di salute, facile a tutte le malattie che periodicamente colpivano i bambini della zona; traeva ben poco vantaggio dalla collana d’aglio che le veniva fatta indossare per scongiurare i malanni.
Bristìn emerge come figura dominante nei ricordi d’infanzia di Pina e come influenza centrale su Dario da ragazzo. Un uomo con energie da vendere e pieno di iniziativa, che univa alla concreta competenza contadina una sua personale fantasia sfrenata, in grado di lasciare il segno su tutti coloro che lo incontravano. I metodi tradizionali di agricoltura, modesta e di sussistenza, non facevano al caso suo. Così ampliò la sua piccola azienda agricola e sperimentò sistemi per l’innesto e l’incrocio di mele e pere, di prugne e albicocche, nel tentativo di produrre nuove varietà di frutta. I risultati furono piuttosto impressionanti: tanto che i botanici dell’Università di Padova invitarono proprio lui, un semplice contadino, a condividere con loro i risultati delle sue ricerche.
Tali conquiste gli procurarono il rispetto dei suoi concittadini, ma la sua vera fama gli venne dall’immaginazione donchisciottesca, dallo spirito malizioso, dal sarcasmo pungente, dall’abilità come narratore di storie e dal gusto per il divertimento scatenato. Il soprannome Bristìn, termine dialettale per indicare i grani di pepe, la parte della pianta che brucia e punge la lingua, gli fu conferito in riconoscimento di queste qualità. «Quando mio padre raccontava della sua famiglia faceva la voce del cantastorie; solenne, faceva commenti da buffone. Noi si stava ad ascoltare allocchiti», scrisse Pina. Questi monologhi erano agiti più che narrati, ma quello che la impressionava, e che più tardi impressionò Dario, era la sua capacità di cambiare registro, di instillare negli ascoltatori paura o soggezione, passando poi con destrezza a una vena umoristica capace di stemperare la tensione in una risata liberatoria. Pina era rimasta particolarmente colpita dal raccapricciante racconto dei monaci del Monferrato, una comunità di sant’uomini che disapprovavano le abitudini dei bevitori nottambuli degli abitanti della città, ma che, invece di limitarsi a preghiere e sermoni, presero a spaventare i festaioli salendo sul campanile e proiettando strane ombre, come di fantasmi, sui muri delle case del paese. I beoni, terrorizzati, immaginarono che Dio vedesse nel loro paese una nuova Sodoma e Gomorra; temendo una visita dell’Onnipotente, decisero quindi di starsene a casa dopo il tramonto. Gli affari delle locande ne soffrirono, finché il proprietario di una taverna non scoprì che le ombre non erano segni di divina disapprovazione, ma della vendicativa malizia dei monaci. La popolazione, infuriata, attaccò il monastero, rinchiuse i monaci nel campanile e lo diede alle fiamme, lasciandoli arrostire vivi. La storia aveva un lieto fine, perché il suono frenetico delle campane aveva richiamato soccorritori dalle vicinanze, ma da quel momento erano ripresi la baldoria e i bagordi, mentre i monaci venivano lasciati nel chiostro a recitare lodi e vespri. Bristìn era ateo e si compiaceva delle frecciate anticlericali; senza dubbio, questo aggiunse pepe alla storia4.
Non si vergognava di essere un contadino, anche se mostrava appieno l’ambiguo rapporto con la terra tipico della sua condizione sociale. Per lui, i contadini erano i diseredati della terra e lavorare la terra significava «sputarci sudore e sangue», ma riteneva anche che «il vero oro era la terra» e che, in tali fatiche, c’erano dignità e giustezza. Si infuriò quando i suoi figli e i mariti delle sue figlie lasciarono il paese per la città, uno dopo l’altro. Pina era ansiosa di seguirli. Più tardi, Dario scrisse che sua madre descriveva Sartirana come un paradiso, aggiungendo che anche lui se la ricordava così e forse lei ne parlava davvero in toni idilliaci, ma la prospettiva della vita di campagna presentata nel suo autobiografico Il paese delle rane è decisamente disincantata. Il riferimento alle rane è a doppio taglio: le rane sono una delle piaghe d’Egitto e ovviamente Pina si lamentava di dover vivere circondata dal gracidare delle rane che invadevano anche le case, ma le rane erano anche una prelibatezza per coloro che non potevano permettersi la carne. Il pollo era il cibo dei padroni.
Il primo incontro dei genitori di Dario è avvolto da una piacevole atmosfera di romanticismo latino. Clementina, la sorella maggiore di Pina, era fidanzata con un tal Luigi, membro del clan esteso dei Fo, e tra gli invitati al matrimonio c’era anche un cugino di Luigi, Felice Fo. Come nelle migliori storie d’amore, Pina e Felice furono immediatamente attratti l’uno dall’altro, ma c’era un ostacolo sul dolce percorso del vero amore: Pina era già impegnata. Non era accettabile per le signorine rompere una promessa di matrimonio e, quando annunciò il suo nuovo amore, l’ex-fidanzato reagì come ci si aspettava da un uomo ferito nell’onore. Venne alla cascina con una pistola, domandando soddisfazione e mettendosi a sparare in tutte le direzioni. Pina riuscì a nascondersi e l’uomo si calmò prima che si versasse sangue. Felice e Pina si sposarono nel 1925.
Per coincidenza, anche la stirpe dei Fo era originaria del Monferrato, anche se i genealogisti ipotizzano che in origine il nome fosse genovese. Fo non è un nome particolarmente diffuso in nessuna parte d’Italia e in effetti la sorella di Dario, Bianca, sostiene che è sempre possibile ricostruire un qualche legame familiare con qualsiasi altro Fo nel quale si imbattono. Il padre di Felice, Luigi, guidò la migrazione della famiglia dal Piemonte alla Lombardia alla fine del XIX secolo, con un ramo che si stabilì a Sartirana e gli altri che si mossero fino al Lago Maggiore. Rispetto ai Rota erano più aperti alle nuove tecnologie: Luigi trovò lavoro nelle ferrovie italiane. Sposò Teresa Barzaghini, ed ebbero tre figlie e due figli, dei quali il più giovane era Felice, nato nel 1898. Felice seguì il padre nelle ferrovie, anche se con un incarico di livello più elevato, capostazione.
Il capostazione era un lavoro particolarmente ambito nell’Italia pre-bellica. D.H. Lawrence scrisse che la vita di un capostazione italiano era una lunga chiacchierata interrotta da una telefonata, ma Felice prendeva il proprio lavoro con maggiore serietà. La famiglia poteva vivere tranquilla, senza dover sperimentare gli estremi né della ricchezza né della povertà. Sembra che Felice non possedesse altro abito che l’uniforme della ferrovia, un’appariscente giacca rossa con pantaloni scuri che Pina puliva ogni sera, ma che gli dava un’aria imponente. Alcuni esperti hanno dato grande importanza al fatto che si esibisse con filodrammatiche amatoriali. Dario ricorda di essere stato portato, ancora in braccio a sua madre, a vedere il padre sul palcoscenico di «un crudele dramma di Ibsen», in cui recitava la parte di un padre che vuole liberarsi del figlio. Quel che ricorda maggiormente è lo sgomento nel vedere un altro bambino sul palco con il suo cavallo a dondolo. Felice era anche solito girare per casa declamando a voce alta e stentorea versi di Carducci e della Divina Commedia.
Il matrimonio fu felice, ma i due avevano personalità molto diverse. «C’era mia madre,» scrisse Dario, «una donna piena di fantasia e di ironia. Mio padre forse meno, perché faceva un lavoro duro e poi studiava, era un autodidatta.»5 Pina era chiaramente una donna di spirito, apertamente affettuosa, con un’immaginazione a tutto campo e una creatività senza limiti. A scuola ci era andata poco, ma condivideva con Bristìn la curiosità inquieta e il gusto per la narrazione. D’altro canto, Felice era un uomo dalle maniere gravi e dal carattere serio, che tendeva a manifestare apertamente le sue preoccupazioni: bisognava informare il mondo degli onerosi problemi che comportava il sostentamento di una giovane famiglia, soprattutto con un reddito insufficiente. Per Bianca era un uomo gentile, amabile, ma Dario ricorda un lato più duro della sua natura. In Il paese dei mezaràt, ammette che aveva «molta soggezione del babbo»6, e in un’intervista si spinge anche più in là:
Il mio era un padre severo, un po’ come il tiranno e il padre-padrone descritto nei romanzi di altri tempi. Come mio nonno era capace di slanci s...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Prefazione
  3. Parte 1 - 1. Infanzia e guerra
  4. 2. Prime imprese teatrali
  5. 3. L’assurdo all’opera
  6. 4. Essere borghesi
  7. 5. Viva la rivoluzione!
  8. 6. Di nuovo on the road
  9. 7. 1973: l’annus horribilis
  10. 8. Occupazioni
  11. 9. Politici: riveriti e vituperati
  12. 10. Fare i conti con le droghe
  13. 11. Anatemi televisivi
  14. 12. L’emancipazione di Franca
  15. 13. Tigre, tigre
  16. 14. Sulla difensiva
  17. 15. Separazioni e riconciliazioni
  18. 16. Riconsiderare il teatro, la politica e la società
  19. 17. La vendetta dell’attore
  20. Parte 2 - 1. Quando si è qualcuno
  21. 2. «Osservate, leggete con me»: Dario Fo storico dell’arte
  22. 3. Guerriero fuori regola: la civiltà e l’apocalisse
  23. 4. Francesco e Silvio: due poli
  24. 5. Franca Rame: Amore e Morte
  25. Appendice