Gente di città e gente di montagna
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Gente di città e gente di montagna

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Gente di città e gente di montagna

Informazioni su questo libro

Tre guerre ottocentesche – nel 1848, 1859 e 1866 – hanno lasciato nelle valli Sabbia e Giudicarie memorie durature. Le più simboliche sono consegnate dai monumenti, dalle lapidi, dai cippi che si incontrano qui e là nei centri abitati oppure lungo le strade, ma le memorie più colorite e insieme le più aderenti alla vita vissuta sono invece tramandate dagli scritti, una mole di racconti – alcuni noti, altri dimenticati o tuttora inesplorati – prodotti dalle penne dei protagonisti. Tutte permettono di ricostruire quelle avventure, di riviverne le emozioni e di comprendere attraverso quante e quali prove sia nata l'Italia moderna.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2016
Print ISBN
9788867054244
eBook ISBN
9788867054251
Argomento
Storia
Capitolo1
I valligiani tra guerre e povertà nell’Ottocento
Fin dall’antichità soldati e mercanti, principi e vescovi, pellegrini ed eretici salgono o scendono per quelle strade tortuose: per secoli e fino a tempi recenti passava per le valli Sabbia a Giudicarie una delle più importanti vie di transito tra i due versanti delle Alpi, percorse di volta in volta dall’imperatore Federico I Barbarossa, dai lanzichenecchi, dai bonapartisti. Tra le comunità isolate viaggiavano persone, bestiame e merci, ma anche notizie, libri, giornali. Dalla fine del Settecento questo diventa il campo naturale di un succedersi di conflitti. Prima le guerre napoleoniche, con i «due secoli/l’un contro l’altro armato», rompono un equilibrio antico e portano, insieme a scontri e saccheggi, anche l’idea di libertà e il sentimento di italianità. Nel tumulto di quel ventennio, idee e aspirazioni, dapprima patrimonio di pochi borghesi e di un pugno di militari, germogliano e si trasmettono dai genitori ai figli, dai nonni ai nipoti.
Quando esplode il 1848 il fronte si attesta intorno al fiume Caffaro e nelle campagne militari che seguono i paesi di Bagolino, Vestone, Anfo, Storo, Condino fungono di volta in volta da retrovie. Per la qualifica amministrativa, per la posizione all’imbocco dell’alta valle e per la presenza di un folto gruppo di patrioti, Vestone costituisce una tappa essenziale degli eserciti. Per la posizione appartata e per la tradizione di autonomia amministrativa e di prosperità commerciale, Bagolino serve da punto di incontro e di smistamento. Al tramonto del ruolo economico di centro di produzione del ferro, al declino dell’autonomia garantita dagli antichi Statuti, nel pieno di un processo di impoverimento materiale, il paese non si sottrae al travaglio per l’indipendenza e l’unità1
Fino al 1797 il fiume Caffaro marca il confine tra la Repubblica di Venezia e il Sacro Romano Impero poi, con l’arrivo di Bonaparte, separa i domini napoleonici da quelli asburgici. Dal 1815, tornata la Lombardia sotto il dominio austriaco, resta la Rocca d’Anfo a vigilare tra il Regno lombardo veneto e l’impero, ma lombardi e trentini sono sudditi dello stesso imperatore.
La fine dell’antico regime infligge all’economia e alla società della valle un colpo così duro da infondere nella popolazione una spiccata nostalgia per il buon governo di Venezia che, fin da quando aveva preso possesso di questi territori nel XV secolo, aveva lasciato sopravvivere gli statuti delle singole comunità e delle valli. Con la discesa in Italia dei francesi si apre un quadriennio di tormenti: nel 1797 esplode una rivolta antifrancese brutalmente repressa. Anche a Bagolino in questa occasione una parte della popolazione si solleva in armi per essere subito sottomessa; in seguito i poverissimi e già depredati bagossi sborsano 500 zecchini per schivare la punizione dei francesi. Per Bagolino, che fino all’incendio del 30 ottobre 1779 era una comunità prospera e autonoma, l’esperienza è estenuante2.
In quegli anni scendono dalle Giudicarie i croati, salgono dalla valle Sabbia i francesi; avanzano dalla valle Trompia, sostando a Bagolino, gli stessi croati, e così via, in un carosello drammatico: gli uni e gli altri cedono di volta in volta il terreno al nemico e tutti lo saccheggiano. Nel 1799, mentre Napoleone combatte in Egitto, tornano da padroni i Kaiserjäger e restano fino al giugno 1800. Quell’estate segna la riscossa dei francesi che permangono rapaci padroni fino all’aprile 1814, quando abbandonano la Rocca d’Anfo, che hanno ampiamente restaurato, subito rioccupata dagli austriaci.
Nel 1848 il ricordo del passaggio di quelle soldataglie fa ancora tremare gli anziani che vi hanno assistito, e fremere i giovani che ne hanno ascoltato il racconto. Eppure il crollo dell’antico regime lascia il posto a qualche cosa di nuovo e diverso: «Sull’onda delle idee portate dalla Francia in Europa e del nuovo concetto di cittadinanza, anche in valle Sabbia emergono con fatica, ma con determinazione, nuovi ceti, artigiani, commercianti, professionisti»; si diffondono e si radicano le idee di modernità e libertà ereditate dall’esperienza napoleonica e nutrite dai pur difficili contatti con le realtà più avanzate d’Europa3.
Dopo il 1815 i valligiani, stremati dall’esperienza di un ventennio turbolento, si adattano alla dominazione austriaca con rassegnazione e speranza di pace più che con convinzione. Chiedono invano di essere annessi al Veneto nell’illusione di non perdere del tutto i vantaggi del passato. I primi decenni del secolo aggravano però l’impoverimento della valle, che subirà anche tormentose epidemie, come quella di colera del 1836 e carestie devastanti, come quelle del 1816 e del 1846-474.
Tra le montagne si vive davvero male, forse peggio che nel passato remoto: «La regione montuosa, la più arretrata della Lombardia, con forti residui di istituti e rapporti feudali [...] abbracciava [...] circa i due quinti del Bresciano»5. L’esistenza è appesa a un filo, la dieta al minimo vitale: «Quanto ai contadini del Bergamasco e del Bresciano, “immoderato” era l’uso della polenta, “da passarne in proverbio fra gli altri popoli d’Italia”, annotava nel 1845 un altro studioso della pellagra, il medico bresciano Lodovico Ballardini, il quale aggiungeva che il mais, nella specie di pane o di polenta, costituiva i “nove decimi della massa alimentare giornalmente ingollata dall’affamato colono”»6.
L’incontrastato dominio del mais «si spiega anche con il fatto che ai contadini sembrava che quel tipo di alimentazione meglio valesse a placare gli stimoli di una fame, a volte cronica: essi provavano cioè la sensazione illusoria che la polenta “riempiva assai”»7. Il magro menu è completato con fagioli, latte e burro, erbe selvatiche, carne di marmotta, scioiattolo, uccelli, e il vino di minima qualità serve da tonico, anche questo nell’illusione che, regalando un po’ di energia, renda meno indispensabile il cibo. Alcune ricette all’insegna del risparmio ma di dubbia utilità erano divulgate fin dal 1816 da un Manuale di carità e di pubbliche istruzioni ai poveri famelici opportuno sempre ma specialmente nelle circostanze di carestia, opera del medico Giuseppe Casagrande, il quale consigliava ghiande, bucce di agrumi seccate, carne di cane, di gatto, di vipera, di insetti e di vermi8.
Per far fronte alle carestie e all’aumento del prezzo del grano, che la valle non produce a sufficienza e che occorre pagare in denaro sonante, a poco servono il blocco delle esportazioni o il controllo dei prezzi imposti dalle autorità, e a intervalli torna con prepotenza la fame. La carestia del 1816 riduce le famiglie a cibarsi d’erba, e un’alta mortalità si insedia nelle case contadine. Non c’è da meravigliarsi se nella montagna alpina «quanto alle condizioni sanitarie, infine, era assai diffuso il rachitismo e il cretinismo»9.
Poco cambia dopo il 1815 per i sudditi trentini, molto invece per i lombardi. Con i padroni austriaci i valligiani eminenti tentano dapprima un dialogo sulle regole economiche e fiscali, quando nel 1814 una delegazione guidata dall’imprenditore del ferro Giacomo Pirlo prende la strada di Milano per chiedere al plenipotenziario Heinrich de Bellegarde il ripristino dei privilegi locali che Venezia aveva garantito. Pirlo implora di avere un po’ di comprensione per le particolarità locali: «Situati in luoghi montuosi e sterili, questi poveri valligiani, che pure possono rendere dell’utile allo Stato con manifatture di metalli, sarebbero costretti d’abbandonare il loro paese quando in rapporto ai pubblici tributi fossero assoggettati alla condizione della provincia. La scarsezza delle rendite del terreno, che non agguagliano i bisogni della sesta parte dell’anno; le strade affatto impraticabili, che portano ad altissimo prezzo la condotta di tutti i generi e singolarmente di quelli di prima necessità; ed oltre a tutto ciò l’attaccamento a governi legittimi, che ha sempre contraddistinto i detti abitanti, fecero sì che il governo veneto non solo stabilisse per questa valle un apposito spedito ed economico metodo giudiziario ed amministrativo, ma che ordinasse ben anche la vendita del sale a prezzo corrispondente quasi alla sola spesa di trasporto, imponesse tenuissimi dazi di consumo e poco o nulla esigesse sul catasto»10.
Non c’è verso di ottenere pietà e, come tutta la regione, anche la valle Sabbia sopporta l’oppressione del fisco viennese, che prende ben più di quanto eroga. Nel 1841 il gettito dei sudditi lombardi ammonta a 37 milioni di fiorini, ma la spesa pubblica per amministrazione, infrastrutture, istruzione e sanità tocca soltanto i 15 milioni. «I sudditi italiani della Casa d’Austria ebbero a pagare un terzo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Indice
  4. Premessa
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitplo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Capitolo 21
  26. Capitolo 22
  27. Capitolo 23
  28. Capitolo 24
  29. Appendice
  30. Bibliografia
  31. Indice dei nomi
  32. Ringraziamenti