Rivoluzioni violate
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Rivoluzioni violate

Informazioni su questo libro

Le donne sono state le protagoniste indiscusse della Primavera araba. Con il loro attivismo e le loro rivendicazioni di diritti, dignità e parità di genere hanno segnato la modernità di quelle rivoluzioni. Ora, però, rischiano di diventare le prime vittime della controffensiva islamista. Dopo la caduta delle dittature - laiche - e con l'avvio del processo democratico in Medio Oriente, i partiti di stampo religioso sono stati "legalizzati". Questa apertura ha permesso loro di fare proseliti, di instaurare un clima oscurantista e misogino, e infine di vincere le elezioni, anche grazie ai petrodollari del Golfo, all'appoggio di Al Jazeera, allo spazio nelle moschee, al richiamo all'identità collettiva, fatta coincidere con l'appartenenza all'islam. Tuttavia, i Fratelli musulmani e gli altri gruppi religiosi non hanno retto alla prova del potere: sull'onda della protesta popolare sono stati estromessi con un golpe in Egitto e costretti a dimettersi in Tunisia. Mentre in Siria e in Iraq si consuma uno scontro epocale tra sciiti e sunniti, con conseguenze potenzialmente disastrose. "Rivoluzioni violate" è un'analisi accurata e un racconto appassionato della complessa fase di controrivoluzione nei paesi arabi. Giuliana Sgrena indaga le ragioni alla base dell'ascesa islamista e raccoglie le voci delle donne che intendono opporsi a una deriva teocratica che limiterebbe drasticamente le loro libertà.

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1. La rivoluzione al volante
Khobar, Arabia Saudita, 21 maggio 2011. Manal si è appena alzata e si prepara per andare al lavoro: non indossa la tradizionale abaya, ma un semplice foulard, più pratico per guidare. Come se si trovasse ancora a Boston, dove era stata inviata per lavoro dall’Aramco (la compagnia petrolifera di stato), sale in macchina. Mentre accende il motore e parte, non ha dubbi: sta iniziando una rivoluzione. Wajeha al Huwaider, veterana della lotta per il diritto alla guida delle donne saudite, riprende l’amica al volante con il cellulare. Il filmato, caricato su YouTube, fa il giro del mondo, totalizzando in poche ore 700mila visualizzazioni.
Manal al Sharif ha fatto centro. Il suo bel viso, la sua determinazione e soprattutto internet, oggi possono fare la differenza rispetto al passato. Lo sanno bene le autorità saudite, che prontamente la fanno arrestare. La donna esce dal carcere nove giorni dopo, si dice, a patto che non rilasci dichiarazioni ai media. Se l’accordo c’è stato, comunque Manal non può rispettarlo: si avvicina la giornata di mobilitazione del 17 giugno 2011, lanciata sul web con lo slogan «Women 2 Drive», e bisogna agire. Tutta la campagna si promuove attraverso la rete: l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono i due paesi con il maggior numero di smartphone al mondo; inoltre, i sauditi sono tra gli arabi più attivi su Twitter, nonché i maggiori fruitori pro capite al mondo di video su YouTube.
Ma il sessismo della società saudita colpisce le donne anche attraverso internet: solo tre su dieci tra tutte coloro che hanno accesso alla rete (possiedono un computer, uno smartphone ecc.) hanno la possibilità di utilizzare i social network, contro una media mondiale di cinque su dieci. La causa principale è il rigido controllo maschile su tutte le attività delle donne anche tra le mura domestiche e la limitazione delle libertà imposta da una società misogina. Altro ostacolo è l’analfabetismo femminile.
«Credetemi, registrare un video usando il mio nome, scoprendomi il viso è considerata un’offesa dagli uomini del mio paese» sostiene Manal al Sharif (Wired, 26 ottobre 2012). E lo si comprende bene guardando la pagina Facebook, comparsa subito dopo l’uscita dal carcere di Manal, che invita i mariti a picchiare le mogli che dovessero partecipare alla manifestazione per il diritto alla guida. La pagina registra rapidamente 6000 «mi piace», prima di venire cancellata per la violenza dei commenti.
Ma Manal è già diventata un’icona globale, simbolo della lotta delle donne saudite «non per guidare ma per vivere» (Oslo Freedom Forum, 10 maggio 2012, YouTube), e il settimanale statunitense Time la inserisce tra i cento personaggi più influenti del mondo nel 2012.
Manal vive a Khobar, una città dell’Arabia orientale, trasformata, dopo la scoperta del petrolio, da villaggio di pescatori in un grande porto industriale. Il clima è insopportabile, soprattutto nei tre mesi estivi, quando la temperatura si stabilizza tra i 42 e i 50 gradi, periodo non a caso definito «i novanta giorni del diavolo». È difficile immaginare come donne interamente coperte da veli, calze e guanti neri riescano a sopravvivere in quel periodo. Persino il clima sembra complice di chi le vorrebbe recluse dentro le mura domestiche a occuparsi dei mariti e dei figli. Per evitare qualsiasi promiscuità, le case hanno una doppia entrata e doppi ascensori.
Del resto, le donne sembrano non avere neanche diritto a un nome proprio: sono identificate solo come «figlia di» o «madre di». Spesso anche i maschi nei paesi arabi usano chiamarsi «padre di», indicando però solo il primogenito, vanto della virilità del maschio.
La società saudita è organizzata in modo che per le donne risulti impossibile spostarsi da sole: i trasporti pubblici non esistono e i taxi non hanno parcheggi fissi, per cui è difficile trovarli e salirvi non accompagnate. Per muoversi resta soltanto l’automobile. Pur non essendoci alcuna legge che impedisca alle donne di guidare, di fatto non possono. E per colmare la lacuna, nel 1990, dopo una prima protesta di donne al volante, un imam emise una fatwa che sanciva il divieto. La legislazione saudita si basa sulla sharia, ma è difficile immaginare che Maometto potesse vietare la guida quando si usavano i cammelli: e allora anche le donne li cavalcavano, persino per andare in guerra – come aveva fatto Aisha, una delle mogli del profeta, nella famosa e (per lei) sfortunata Battaglia del cammello (656 d.C.).
Nonostante i divieti, sono sempre più numerose le donne saudite che acquistano un’auto: secondo l’Aramco tra il 2003 e il 2006 si è registrato un incremento del 60 per cento. Allora 75522 donne possedevano 120334 vetture, e si suppone che ora siano molte di più. Una provocazione o una speranza per il futuro? Per ora comunque le saudite devono avere un autista, che spesso viene «importato» dall’Asia (come gran parte della manodopera), al costo base di 2000 dollari, cui vanno aggiunte le spese per visto e permessi vari. E poi c’è il suo salario, che può equivalere anche allo stipendio di una lavoratrice e generalmente costituisce almeno un terzo delle entrate di una famiglia della classe media.
Con costi simili, l’impossibilità per le donne di spostarsi diventa, oltre che la negazione di un diritto, un problema economico.
Esistono delle rare eccezioni: le donne possono guidare nelle zone isolate abitate dai beduini o dentro il compound privato dell’Aramco e nell’enorme campus dell’Università per la scienza e la tecnologia Re Abdullah (3600 ettari). Ma per raggiungere l’università che si trova a Thuwal, 80 chilometri a nord di Jeddah, un autista è indispensabile. Oltre le mura di questi «parcheggi» privati, per tornare a casa occorre comunque un uomo.
Perché le donne non possono guidare? Secondo un rapporto realizzato da Kamal Subhi, un accademico, per il Consiglio della Shura (il «parlamento»), le donne alla guida metterebbero a rischio la loro verginità e il loro onore, e comunque una donna che può muoversi in autonomia è considerata al pari di una prostituta. Ma non solo: «Le donne non devono guidare perché la guida può danneggiare le ovaie» ha affermato lo sceicco Saleh al Luhaidan, a pochi giorni dalla nuova mobilitazione – con lo slogan «Saudi Women to Drive» – indetta per il 26 ottobre 2013. Le donne sono viste solo come strumento di riproduzione di buoni musulmani. L’ossessione del contatto tra i sessi ha portato a un paradosso: il religioso saudita Sheikh Abdul Mohsen al Obeikan, nel giugno del 2010, aveva emesso una fatwa in cui invitava le donne ad allattare i colleghi, in modo da stabilire un rapporto «materno» ed evitare un’illecita promiscuità. Le donne avevano risposto che, nel caso non avessero ottenuto il permesso di guidare, avrebbero potuto «allattare» i propri autisti: un ruolo «materno» avrebbe garantito loro maggiore sicurezza. L’autista, infatti, non è sufficiente perché le donne viaggino in tranquillità. Nel giugno del 2011 – mentre la campagna per la guida era in pieno svolgimento – una donna ha denunciato un tassista per stupro. Secondo il racconto della vittima, della quale non è stato rivelato il nome, l’uomo la stava accompagnando a casa, quando improvvisamente ha cambiato strada dirigendosi verso la zona industriale di Medina e, fucile alla mano, l’ha violentata (Okaz, 2 giugno 2011).
La violenza, il divieto di lavorare e il controllo del marito sul salario della moglie, sono tra le principali cause di richiesta di divorzio da parte delle donne. Il numero dei divorzi in Arabia Saudita è in continuo aumento: secondo una ricerca realizzata dal quotidiano economico Al Eqtisadiah, nel 2012 i divorzi erano 82 al giorno contro i 75 del 2010. In totale i divorzi sono stati 30mila nel 2012 a fronte di 70mila matrimoni celebrati nello stesso anno. Per i mariti è facile divorziare, per motivi anche futili («devo andare all’estero per lavoro e mia moglie non vuole seguirmi»): il ripudio può avvenire anche a distanza, addirittura per posta. Per la moglie, invece, la procedura è più complessa e la richiesta deve essere avanzata da un tutore. Uno dei motivi validi per rompere un matrimonio, secondo la sharia, è l’assenza di rapporti sessuali tra i coniugi. Nel 2013 oltre 1650 richieste di divorzio erano motivate dall’insoddisfazione sessuale, 1371 delle quali presentate dalle mogli. Questo dato, diffuso dal ministero della Giustizia e, secondo fonti legali, inferiore a quello reale, rende l’idea di una situazione che potrebbe apparire paradossale in una società sessuofobica, ma non in un paese dove vige la poligamia e gli uomini possono avere fino a quattro mogli. Naturalmente, i giudici uomini si trovano spesso in imbarazzo di fronte a una simile motivazione: la reazione può essere la concessione immediata del divorzio oppure, più di frequente, il rinvio della donna a un trattamento psicologico specifico per indurla alla riconciliazione. Un’altra possibilità per la donna è la khula, ovvero il divorzio a pagamento: la moglie, oltre a rinunciare a tutti i suoi diritti, deve restituire al marito la dote ricevuta al momento delle nozze. Spesso la moglie non è in possesso della cifra necessaria per la khula e chiede al marito di ripudiarla, ma molto di rado il marito è disponibile se non è lui a prendere l’iniziativa. Per porre un freno all’escalation dei divorzi, che spesso avvengono nei primi anni di matrimonio, dal 2013 le autorità hanno imposto alle donne un corso prematrimoniale, considerando la moglie la responsabile principale della separazione perché non accetta le imposizioni o le violenze del marito.
Paradossalmente, il divorzio di una donna può essere richiesto dai suoi parenti, anche se lei è contraria. È stato il caso, nel 2005, di Fatima Azzaz e Mansour al Tamami, costretti a separarsi perché un fratello di lei aveva convinto il giudice di una corte coranica che il marito apparteneva a una tribù di rango sociale inferiore a quello della moglie. Fatima non ha voluto tornare dalla sua famiglia ed è stata rinchiusa in una sorta di ospizio con il figlio più piccolo, mentre al marito è stata affidata la figlia. Fatima e Mansour non si sono mai arresi e si sono rivolti all’Onu. L’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch si è occupata del caso: tramite un avvocato che ha fatto ricorso alla Corte suprema, Fatima e Mansour hanno ottenuto l’annullamento del divorzio e finalmente, nel febbraio del 2010, si sono potuti ricongiungere. Ma molte altre coppie non hanno avuto la loro stessa fortuna.
La società saudita è regredita rispetto al passato. «La generazione di mio padre era più liberale di quella attuale» sostiene Manal, che non si arrende di fronte a questo arretramento. Manal, ingegnere, 34 anni, dopo il divorzio ha ottenuto dal tribunale l’affidamento del figlio, ma non l’assegno di mantenimento da parte dell’ex marito. Fino al maggio 2012 non aveva problemi a mantenersi. Con il suo lavoro all’Aramco poteva considerarsi fortunata: sono solo 500mila le saudite impiegate, su 5 milioni di laureate. Molte professioni sono vietate alle donne, che comunque per lavorare devono sempre avere il permesso di un maschio della famiglia. La partecipazione all’Oslo Freedom Forum, nel maggio 2012, è costata il posto a Manal. «Il mio capo mi ha chiamato e mi ha detto: se vai a un’altra conferenza, perderai il tuo lavoro. Non puoi andarci» ha raccontato Manal a un quotidiano britannico (The Independent, 23 maggio 2012). Manal è partita lo stesso per Oslo, affrontando al ritorno il licenziamento, dopo dieci anni di lavoro, e la perdita della casa in cui viveva, di proprietà della compagnia.
Per una donna sola la vita non è facile: anche per prendere in affitto una casa serve un tutore maschio, così come per aprire un conto in banca o sottoporsi a cure sanitarie. Addirittura, se una donna va alla polizia per denunciare il marito che la picchia, per identificarsi è costretta a portare anche il consorte. Ironia della sorte, in passato Manal al Sharif ha difeso le vessazioni e le segregazioni che ora denuncia.
Nata nel 1979, è cresciuta alla Mecca, la più santa delle città sante per i musulmani; ricorda che la sua prima scuola aveva due entrate, separate per sesso. Ricorda ancora di aver bruciato le musicassette del fratello perché il mullah le aveva insegnato che la musica proveniva dal «flauto di Satana». All’Università di Jeddah ha frequentato insieme ad altre sessanta studentesse un corso di Scienze informatiche. Il professore insegnava alle ragazze – con velo integrale e guanti – attraverso una telecamera a circuito chiuso che impediva qualsiasi contatto.
La vita di Manal cambia improvvisamente l’11 settembre del 2001. «Gli estremisti ci dicevano che era una punizione di Dio contro l’America» ricorda Manal. Ma quella sera, guardando in tv le immagini delle Torri Gemelle, «mi sono detta che qualcosa non andava. Non c’è nessuna religione sulla terra che possa accettare una simile crudeltà» (The Independent, 23 maggio 2012). Abbandonati il rigore wahabita e la cieca osservanza dell’apartheid sessuale, Manal comincia a scoprire il mondo intorno a sé. Ricorda con commozione quando per la prima volta si è concessa il lusso di ascoltare una canzone pop straniera: era dei Take That. Finita l’università, Manal ha la fortuna di trovare lavoro presso l’Aramco. Si sposa con un collega, ma il matrimonio non funziona e il divorzio rappresenta un’altra prova della discriminazione subita dalle donne saudite. Durante la missione di lavoro a Boston, nel 2009, scopre una vita «incredibilmente normale: potevo affittare un appartamento, andare in banca e aprire un conto, guidare la macchina». È allora, dall’esperienza negli Stati Uniti, che nasce in lei il desiderio di impegnarsi a favore dei diritti delle donne nel suo paese, a partire proprio dalla rivendicazione della guida. Ma Manal non è stata la prima. Già nel 1990 quarantasette donne erano state arrestate per essersi messe alla guida di un’auto.
L’8 marzo del 2008 Wajeha al Huwaider ha rilanciato la sfida: si è fatta riprendere mentre guidava e ha poi caricato il video su YouTube: quelle immagini hanno fatto conoscere al mondo la situazione delle donne saudite. Nel 2011 è stata sempre Wajeha a filmare Manal, e la diffusione dei video si è rivelata ancora più ampia. Anche lei, come l’amica, aveva scoperto negli Stati Uniti, durante gli studi universitari, come poteva essere «normale» la vita di una donna. Ritornata nel suo paese, non ha mai abbandonato la lotta per ottenere il rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. E, se Manal ha conquistato Time, Wajeha è stata inclusa da Newsweek tra le 150 donne che hanno scosso il mondo nel 2011.
Giornalista, Wajeha lavorava per il quotidiano saudita
al Watan, ma già nel 2003 il ministro dell’Interno, principe Nayef bin Abdulaziz al Saud, come ritorsione, le proibì di scrivere sui giornali di proprietà dello stato. Nel 2006, in occasione del primo anniversario dell’ascesa al trono di re Abdullah,
Wajeha ha protestato sulla strada che dal Bahrein porta all’Arabia Saudita innalzando un cartello con scritto: DATE ALLE DONNE I LORO DIRITTI. È stata arrestata e, dopo lunghi interrogatori, rilasciata e affidata al fratello minore.
«Nei paesi arabi e in particolare nel Golfo, la discriminazione delle donne comincia da quando sono un feto nella pancia della mamma, continua quando vengono alla luce e finisce solo con la morte» sostiene Wajeha. Una constatazione che mi ricorda l’affermazione di un leader islamista algerino, Ali Belhadj, numero due del Fronte islamico di salvezza (Fis) che sosteneva che le donne possono uscire di casa solo tre volte nella loro vita: la prima quando vengono al mondo, la seconda quando si sposano, la terza per il loro funerale.
Le autorità saudite cercano di bloccare in ogni modo militanti scomode come Wajeha e in tribunale le accuse non devono essere necessariamente suffragate da prove perché sia emessa una sentenza di condanna. Nel giugno del 2011 la canadese Johanne Durocher – che da anni cerca di far uscire dal paese la figlia, sposata con un saudita – si mette in contatto con Wajeha perché la ragazza, Nathalie, è stata chiusa in casa con i tre figli piccoli dal marito, recatosi al matrimonio di un membro della famiglia, senza cibo e senza soldi. Wajeha, con l’amica Fawzia al Oyouni, decide di soccorrere Nathalie. Ma quando le due giungono nelle vicinanze della casa vengono arrestate. L’accusa è di favoreggiamento nella fuga di Nathalie e dei figli verso l’ambasciata canadese. Anche Nathalie viene fermata e interrogata per ore, con la minaccia di una possibile incriminazione per il rapimento dei tre bambini. Ma l’intimidazione non ha seguito, così come le accuse a carico di Wajeha e Fawzia. Del resto, l’ambasciata non riconosce più Nathalie Morin come cittadina canadese. Le attiviste saudite sono allora accusate di takhbib e per questo, il 15 giugno 2013, condannate a 10 mesi di reclusione e 2 anni di interdizione all’espatrio. Morin chiede di poter testimoniare al processo, sostenendo di non aver mai parlato con le due donne, ma è tutto inutile. Il 24 settembre la sentenza viene confermata in appello. «La condanna mia e della mia amica mira a intimorire tutte le donne saudite impegnate nella promozione dei diritti delle donne» è stata la reazione di Wajeha al Huwaider.
In un paese dove le donne vivono come recluse, la possibilità di usare la rete e i blog, come Saudiwoman’s Weblog, ha dato alle attiviste nuove opportunità di comunicazione e di mobilitazione. Ma le nuove tecnologie sono anche un mezzo a disposizione del governo per mantenere il controllo sulla popolazione, e in particolare sulle donne: l’ultima trovata è un dispositivo che monitora il loro passaggio alle frontiere. Le donne, per poter viaggiare, hanno bisogno del permesso del tutore maschio che deve firmare un «foglio giallo» di autorizzazione. Così, dal novembre 2012, quando una donna passa i controlli in aeroporto, il tutore riceve un avviso via sms da parte dell’Ufficio migrazione.
La decisione è stata sbeffeggiata su Twitter anche dagli uomini: qualcuno ha persino suggerito il ricorso a un braccialetto alla caviglia, come si fa con i detenuti. Sono reazioni ironiche che, purtroppo, non sembrano tanto paradossali in un paese in cui «le donne sono trattate come dei minori anche quando ricoprono ruoli di alto livello», come sostiene Suad Shemmari, attivista per i diritti umani. Che aggiunge: «Non ci saranno riforme nel regno senza un cambiamento dello status delle donne e un trattamento di parità con gli uomini».
Ma la strada è ancora lunga. In Occidente si è diffuso il fascino per le femministe islamiche, un ossimoro (le religioni sono incompatibili con il femminismo), ma che ben si combina con quel relativismo culturale che non accetta l’idea che anche nei paesi arabi esista un movimento femminista simile al nostro. In tutti i paesi arabi musulmani che ho visitato ho incontrato femministe (e tali si definiscono) con una grande preparazione teorica ed esperienze di lotta per la conquista dei loro diritti.
È concepibile un islam femminista? La fine della discriminazione può passare attraverso una rilettura del Corano? Molte femministe marocchine, a partire dalla più famosa tra di loro, Fatema Mernissi, ritengono di sì, rivalutando il ruolo delle donne nella storia dell’islam. In questo caso non si tratta di «femministe islamiche» perché respingono le discriminazioni della donna contenute nel Corano e ne fanno una rilettura progressista. Le cosiddette femministe islamiche, invece, accettano le discriminazioni e le giustificano. Ne avevo già discusso con le algerine del Fronte islamico di salvezza; poi, nel giugno 2008, ho partecipato a un dibattito sull’islam e le donne all’interno di un conv...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. 1. La rivoluzione al volante
  4. 2. Ben Ali, dégage!
  5. 3. La verginità dei militari
  6. 4. Algeria: eccezione o modello?
  7. 5. La Libia nel caos delle milizie
  8. 6. Il Nobel velato
  9. 7. In Egitto la seconda rivoluzione
  10. 8. La parità è sulla Carta
  11. 9. Un nuovo califfato tra Siria e Iraq
  12. Glossario
  13. Sommario