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Spaccio de la bestia trionfante
Informazioni su questo libro
Insieme con i successivi De gli eroici furori, lo Spaccio de la bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento. Ledizioni ripropone questo classico fuori diritti in versione epub.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Filosofia etica e moraleDIALOGO TERZO
SOFIA Non fia mestiero, Saulino, di farti intendere per il particolare tutti que’ propositi che tenne la Fatica, o Diligenza, o Sollecitudine, o come la volete chiamare (perché ha più nomi che non potrei farti udire in una ora); ma non voglio passar con silenzio quello che successe subito che colei con le sue ministre e compagne andò a prendersi il loco là dove dicevamo essere il negocioso Perseo.
SAULINO Dite, che io vi ascolto.
SOFIA Sùbito (perché il sprone dell’Ambizione sovente sa spingere et incitar tutti eroici e divini ingegni, sin a questi dei compagni Ocio e Sogno), avenne che non ociosa e sonnacchiosamente, ma solleciti e senza dimora, non sì tosto la Fatica e Diligenza disparve, che essi vi furono visti presenti. Per il che disse Momo: «Liberaci, Giove, da fastidio, perché veggio aperto che ancora non mancaranno garbugli dopo l’espedizione di Perseo, come n’abbiamo avuti tanti dopo quella d’Ercole». A cui rispose Giove: «L’Ocio non sarrebe Ocio, et il Sonno non sarrebe Sonno, se troppo a lungo ne dovessero molestare per troppa diligenza o fatica che debbano prendere: perché quella è discostata da qua come vedi; e questi son qua solo in virtù privativa che consiste nell’absenza de la lor opposita e nemica»; «Tutto passarà bene,» disse Momo, «se non ne faranno tanto ociosi e lenti, che per questo giorno non possiamo definire di quello che si deve conchiudere circa il principale». Cominciò dumque l’Ocio in questa maniera a farsi udire: «Cossì l’Ocio, o Dei, è talvolta malo, come la Diligenza e Fatica è più de le volte mala. Cossì l’Ocio il più de le volte è conveniente e buono, come le sue volte è buona la Fatica. Non credo dumque (se giustizia tra voi si trova) che vogliate negarmi equale onore, se non è debito che mi stimiate manco degno. Anzi per raggione mi confido di farvi capire (per causa di certi propositi che ho udito allegare in lode e favore della diligenza e negocio) che quando saremo posti nel bilancio della raggionevole comparazione, se l’Ozio non si trovarà equalmente buono, si convencerà di gran vantaggio megliore: di maniera che non solo non la mi stimarete equalmente virtude, ma oltre contrariamente vizio. – Chi è quello, o Dei, che ha serbata la tanto lodata età de l’oro, chi l’ha instituta, chi l’ha mantenuta, altro che la legge de l’Ocio, la legge della natura? Chi l’ha tolta via? chi l’ha spinta quasi irrevocabilmente dal mondo, altro che l’ambiziosa Sollecitudine, la curiosa Fatica? Non è questa quella ch’ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo, e l’ha condotto ad una etade ferrigna e lutosa et argillosa, avendo posti gli popoli in ruota et in certa vertigine e precipizio dopo che l’ha sollevati in superbia et amor di novità , e libidine de l’onore e gloria d’un particolare? Quello che in sustanza non dissimile a tutti, e tal volta in dignitade e merito è infimo a que’ medesimi, con malignitade è stato forse superiore a molti, e però viene ad essere in potestà di evertere le leggi de la natura, di far legge la sua libidine, a cui servano mille querele, mille orgogli, mille ingegni, mille sollecitudini, mille di ciascuno de gli altri compagni, con gli quali cossì boriosa è passata avanti la Fatica; senza gli altri che sotto le vesti di que’ medesimi coperti et occolti non son apertamente giti, come l’Astuzia, la Vanagloria, il Dispreggio d’altri, la Violenza, la Malizia, la Fizzione, e gli seguaci loro che non son passati per la presenza vostra: quai sono Oppressione, Usurpazione, Dolore, Tormento, Timore e Morte; li quali son gli executori e vendicatori, mai del quieto Ocio, ma sempre della sollecita e curiosa Industria, Lavoro, Diligenza, Fatica e cosa di tanti altri nomi, di quanti per meno essere conosciuta se intitula, e per quali più tosto si viene ad occoltare che a farsi sapere. – Tutti lodano la bella età de l’oro, ne la quale facevo gli animi quieti e tranquilli, absoluti da questa vostra virtuosa dea; a gli cui corpi bastava il condimento de la fame a far più suave e lodevol pasto le ghiande, li pomi, le castagne, le persiche e le radici, che la benigna natura administrava quando con tal nutrimento meglio le nutriva, più le accarezzava e per più tempo le manteneva in vita, che non possano far giamai tanti altri artificiosi condimenti ch’ha ritrovati l’Industria et il Studio ministri di costei; li quali ingannando il gusto et allettandolo, amministrano come cosa dolce il veleno: e mentre son prodotte più cose che piaceno al gusto, che quelle che giovano al stomaco, vegnono a noiar alla sanità e vita mentre sono intenti a compiacere alla gola. Tutti magnificano l’età de l’oro; e poi stimano e predicano per virtù quella manigolda che la estinse, quella ch’ha trovato il mio et il tuo: quella ch’ha divisa, e fatta propria a costui e colui non solo la terra (la quale è data a tutti gli animanti suoi), ma et oltre il mare, e forse l’aria ancora. Quella ch’ha messa la legge a gli altrui diletti, et ha fatto che quel tanto che era bastante a tutti vegna ad essere soverchio a questi e meno a quell’altri. Onde questi a suo mal grado crapulano, quelli altri si muoiono di fame. Quella ch’ha varcati gli mari, per violare quelle leggi della natura, confondendo que’ popoli che la benigna madre distinse, e per propagare i vizii d’una generazione in un’altra; perché non son cossì propagabili le virtudi: eccetto se vogliamo chiamar virtudi e bontadi quelle che per certo inganno e consuetudine son cossì nomate e credute, benché gli effetti e frutti sieno condannati da ogni senso et ogni natural raggione: quai sono le aperte ribaldarie e stoltizie e malignitadi di leggi usurpative e proprietarie del mio e tuo; e del più giusto, che fu più forte possessore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più industrioso e primiero occupatore di que’ doni e membri de la terra, che la natura e per conseguenza Dio indifferentemente donano a tutti. – Io forse sarò men faurito che costei? Io che col mio dolce che esce dalla bocca della voce de la natura ho insegnato di viver quieto, tranquillo e contento di questa vita presente e certa, e di prendere con grato affetto e mano il dolce che la natura porge, e non come ingrati et irreconoscenti neghiamo ciò che essa ne dona e detta, perché il medesimo ne dona e comanda Dio autor di quella a cui medesimamente verremo ad essere ingrati. Sarà dico più favorita costei che sì rubella e sorda a gli consegli, e ritrosa e schiva contra gli doni naturali, adatta li suoi pensieri e mani ad artificiose imprese e machinazioni per quali è corrotto il mondo e pervertita la legge de la nostra madre? Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi il mondo di suoi mali piange quel secolo nel quale col mio governo mantenevo gaio e contento il geno umano, e con alte voci e lamenti abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine et industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto, con il sprone dell’ambizioso Onore?
O bella età de l’oro
non già perché di latte
sen corse il fiume, e stillò mèle il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre, e gli angui errar senz’ira e tòsco;
non perché nuvol fosco
non spiegò all’or suo velo;
e ’n primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a l’altrui lidi il pino:
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quel idolo d’error, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non meschiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertade avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S’EI PIACE, EI LICE.
Questa, invidiosa alla quiete e beatitudine o pur ombra di piacere che in questo nostro essere possiamo prenderci, avendo posta legge al coito, al cibo, al dormire, onde non solamente meno delettar ne possiamo, ma per il più sovente dolere e tormentarci: fa che sia furto quel che è dono di natura, e vuol che si spregge il bello, a dolce, il buono; e del male, amaro e rio facciamo stima. Questa seduce il mondo a lasciar il certo e presente bene che quello tiene, et occuparsi e mettersi in ogni strazio per l’ombra di futura gloria. Io di quel che con tanti specchi, quante son stelle in cielo, la verità dimostra, e quel che con tante voci e lingue, quanti son belli oggetti, la natura di fuore intona, vegno da tutti lati de l’interno edificio ad esortarlo:
Lasciate l’ombre et abbracciate il vero.
Non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca.
Aviso non fu mai di saggio o scaltro
perder un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lungi diviso
se in voi stessi trovate il paradiso?
Anzi chi perde l’un mentre è nel mondo,
non speri dopo morte l’altro bene:
per che si sdegna il ciel dar il secondo
a chi il primero don caro non tene;
cossì credendo alzarvi gite al fondo,
et a i piacer togliendovi, a le pene
vi condannate: e con inganno eterno
bramando il ciel vi state ne l’inferno».
Qua rispose Momo, dicendo che il conseglio non aveva tanto ocio che potesse rispondere a una per ciascuna de le raggioni che l’Ocio, per non aver avuta penuria d’ocio, ha possute intessere et ordinare. Ma che per il presente si servisse de l’esser suo, con andar ad aspettar per tre o quattro giorni, perché potrà essere che per trovarsi gli Dei in ocio, potessero determinar qualche cosa in suo favore; il che adesso è impossibile. Soggionse l’Ocio: «Siami lecito, o Momo, di apportar un altro paio di raggioni, in non più termini che in forma di un paio di sillogismi più in materia efficaci che in forma. De quali il primo è questo: Al primo padre de gli uomini quando era buon omo, et a la prima madre de le femine quando era buona femina, Giove gli concese me per compagno; ma quando devenne questa trista e quello tristo, ordinò Giove che se gli aventasse quella per compagna: a fin che facesse a costei sudar il ventre et a colui doler la fronte...»
SAULINO Dovea dire: sudar a colui la fronte, e doler a colei il ventre.
SOFIA «...Or considerate, dèi,» disse, «la conclusione che pende da quel che io fui dichiarato compagno de l’innocenza, e costei compagna del peccato. Atteso che se il simile s’accompagna col simile, il degno col condegno, io vegno ad esser virtude, e colei vizio: e per tanto io degno e lei indegna di tal sedia. Il secondo sillogismo è questo: Li Dei son Dei, perché son felicissimi; li felici son felici, perché son senza sollecitudine e fatica: fatica e sollecitudine non han color che non si muoveno et alterano; questi son massime quei ch’han seco l’ocio: dumque gli Dei son Dei perché han seco l’Ocio».
SAULINO Che disse Momo a questo?
SOFIA Disse che per aver studiato logica in Aristotele, non aveva imparato di rispondere a gli argomenti in quarta figura.
SAULINO E Giove che disse?
SOFIA Che di tutto ch’egli avea detto e lui udito, non si ricordava altro che l’ultima raggione circa l’essere stato compagno del buono uomo e femina: intorno alla quale gli occorreva che gli cavali non per tanto son asini, perché si trovano in compagnia di quelli, né giamai la pecora è capra tra le capre. E soggionse che gli dèi aveano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’aveano fatto simile a loro donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuor le leggi di quella: acciò (formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade senza la quale non arrebe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra. Quella certo quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l’occhio che non vede, e mano che non apprende. E per questo ha determinato la previdenza che vegna occupato ne l’azzione per le mani, e contemplazione per l’intelletto; de maniera che non contemple senza azzione, e non opre senza contemplazione. Ne l’età dumque de l’oro per l’Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. – Or essendo tra essi per l’emulazione d’atti divini, et adattazione di spirituosi affetti, nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno per mezzo de l’egestade, dalla profondità de l’intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite et urgenti occupazioni allontanandosi dall’esser bestiale, più altamente s’approssimano a l’esser divino. De le ingiustizie e malizie che crescono insieme con le industrie non ti devi maravigliare: perché se gli bovi e scimie avessero tanta virtù et ingegno quanto gli uomini, arrebono le medesime apprensioni, gli medesimi affetti, e gli medesimi vizii. Cossì tra gli uomini quei ch’hanno del porco, de l’asino e del bue, son certo men tristi, e non sono infetti di tanti criminosi vizii. Ma non per ciò sono più virtuosi, eccetto in quel modo con cui le bestie per non esser partecipi di altretanti vizii, vegnono ad essere più virtuose de loro. Ma noi non lodiamo la virtù de la continenza nella scrofa, la quale si lascia chiavare da un sol porco, et una volta l’anno: ma in una donna la quale non solo è sollecitata una volta dalla natura per il bisogno de la generazione, ma et ancora dal proprio discorso più volte per l’apprensione del piacere; e per esser ella ancor fine degli suoi atti. Oltre di ciò non troppo, ma molto poco lodiamo di continenza una femina o un maschio porcino, il quale per stupidità e durezza di complessione avien che di rado e con poco senso vegna sollecitato da la libidine, come quell’altro che per esser freddo e maleficiato, e quell’altro per esser decrepito: altrimente deve esser considerata la continenza, la quale è veramente continenza e veramente virtù in una complessione più gentile, più bennodrita, più ingegnosa, più perspicace e maggiormente apprensiva. Però per la generalità de regioni a gran pena è virtù ne la Germania, assai è virtù ne la Francia, più è virtù ne l’Italia, di vantaggio è virtù nella Libia. Là onde se più profondamente consideri, tanto manca che Socrate revelasse qualche suo difetto, che più tosto venne a lodarsi tanto maggiormente di continenza quando approvò il giudicio del fisionomista circa la sua natural inclinazione al sporco amor di gargioni. «Se dumque, Ocio, consideri quello che si deve considerar da questo, trovarai che non per tanto nella tua aurea etade gli uomini erano virtuosi, perché non erano cossì viziosi come al presente: atteso che è differenza molta tra il non esser vizioso e l’esser virtuoso; e non cossì facilmente l’uno si tira da l’altro, considerando che non sono medesime virtudi dove non son medesimi studi, medesimi ingegni, inclinazioni e complessioni. Però per comparazione da pazzi et ingegni cavallini, aviene che gli barbari e salvatici si tegnon megliori che noi altri Dei, per non esser notati di que’ vizii medesimi: per ciò che le bestie le quali son molto meno in tai vizii notabili che essi, saranno per questo molto più buone che loro. A voi dumque, Ocio e Sonno, con la vostra aurea etade converrà bene che non siate vizii qualche volta et in qualche maniera: ma giamai et in nessun modo che siate virtudi. Quando dumque tu Sonno non sarai sonno, e tu Ozio sarai Negocio, all’ora sarete connumerati tra virtudi, et essaltati». Qua il Sonno si fece un passetto avanti, e si fricò alquanto gli occhi per dire ancora lui qualche cosetta, et apportar qualche picciolo proposito avanti il Senato, per non parer d’esservi venuto in vano. Quando Momo il vedde cossì suavemente rimenarsi pian pianino, rapito dalla grazia e vaghezza de la dea Oscitazione che come aurora avanti il sole precedeva avanti a lui, in punto di voler far ella il prologo; e non osando di scuoprir il suo amor in conspetto de gli Dei, per non essergli lecito di accarezzar la fante, fece carezze al signore in questa foggia (dopo aver gittato un caldetto suspiro) parlando per lettera, per fargli più riverenza et onore:
«Somne, quies rerum, placidissime somne Deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces reparasque labori...»;
non sì tosto ebbe cominciata questa cantilena il dio de le riprensioni (il quale per la già detta caggione s’era dismenticato de l’ufficio suo), che il Sonno invaghito per il proposito di tante lodi, e demulcto dal tono di quella voce, invita a l’udienza il Sopore che gli alloggiava negli precordii: il quale dopo aver fatto cenno alle fumositadi che faceano residenza nel stomaco, gli montorno tutti insieme sul cervello, e cossì vennero ad aggravarli la testa, e con questo vennero a discioperarsi gli sensi. Or mentre il Ronfo sonavagli li scifoli e trombone innante, andò trepidando trepidando a curvarsi e dar di capo in seno di madonna Giunone: e da quel chino avenne (perché questo dio va sempre in camicia e senza braghe) che per essere la camicia troppo corta, mostrò le natiche, il coliseo e la punta del campanile a Momo e tutti gli altri Dei ch’erano da quella parte. Or con questa occasione ecco venuto in campo il Riso, con presentar a gli occhi del Senato la prospettiva di tanti ossetti, che tutti eran denti; e facendosi udire con la dissonante musica di tanti cachinni, interruppe il filo de l’orazione a Momo: il qual non possendosi risentir contra costui, tutto il sdegno suo converse contra il Sonno che l’avea provocato, con non premiarlo al meno di buona attenzione, e di sopragionta con andar ad offrirgli con tanta sollennitade il purgatorio, con la pera e baculo di Giacobbe, come per maggior dispreggio del suo adulatorio et amatorio dicendi genus. Là onde ben si accorgeva che gli Dei non tanto ridevano per la condizion del Sonno, quanto per il strano caso intervenuto a lui, e perché il Sonno era giocatore et egli era suggetto di questa comedia; e con ciò avendogli la Vergogna d’un velo sanguigno ricoperto il volto: «A chi tocca» disse, «di levarci dinanzi questo ghiro? chi fa che sì a lungo questo ludibrioso specchio ne si presente a gli occhi?». In tanto la dea Poltronaria commossa da la rabbiosa querela di Momo (dio de’ non più volgari ch’abbia il cielo), se mise il suo marito in braccio; e presto avendolo indi tolto, lo menò verso la cavità d’un monte vicino a gli Cimmerii: e con questi si partiro li suoi tre figli Morfeo, Icilone e Fantaso; che tutti tosto si ritrovorno là dove da la terra perpetue nebbie exalano, caggionando eterno crepuscolo a l’aria: dove vento non soffia, e la muta Quiete t...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Titolo
- Digital Classics
- Colofon
- Sommario
- Epistola esplicatoria
- Dialogo primo
- Dialogo secondo
- Dialogo terzo