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Il ventre di Napoli
Informazioni su questo libro
Nato come inchiesta giornalistica a seguito dell'epidemia di colera nel 1884, con questo romanzo la scrittrice analizza sia le meraviglie che il degrado di una città amatissima, rivelandone le difficoltà, le debolezze e le emergenze.Rispondendo al governo di Depretis che aveva affermato "Bisogna sventrare Napoli", l'affilata penna della Serao sostiene che "bisogna ricostruirla", individuandone quindi le bellezze e le gentilezze, la straordinaria umanità dei suoi abitanti, ma anche il malcostume e i maggiori problemi, come il gioco del lotto, l'usura, la povertà, la fame.Ledizioni pubblica quest'opera fuori diritti in formato ePub.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Letteratura generaleII. Dietro il paravento
Cominciamo da quanto esiste, dietro il paravento a sinistra del Rettifilo, venendo dal centro della città, andando verso la ferrovia: e osserviamo se si è risanato, come era la idea semplice e alta di tutti quelli che vollero salvare il popolo napoletano dalla sporcizia, dal vizio, dalla epidemia e dalla morte. Questo lato è il meno orribile, quando lo si percorre, passo passo, dalle spalle di via Guglielmo Sanfelice, dalle spalle dello splendido e deserto palazzo della Borsa sino laggiù, laggiù, all’Annunziata. Eppure! Camminando dietro il paravento, salendo, scendendo, salvo due o tre traverse di cui una sola è completata, due compiute a metà, le altre sono semplicemente aperte, e alcune di esse non sono neppure accennate, restandovi ancora, massime verso l’Università i vicoli antichi, umidi, alti, tetri e sporchi. È il lato meno spaventoso agli occhi, meno nauseante all’odorato, quello a sinistra; eppure! Sono restate intatte le oscure e malfide gradelle di Santa Maria la Nova, le antiche gradelle che conducevano al Cerriglio e che ora conducono alla piazza della Borsa; intatte le strette, nere, soffocate, soffocanti gradelle di Santa Barbara, col loro angiporto che avrà duecento anni e che venti anni di risanamento edilizio, a due passi di lì non hanno distrutto, le famose gradelle di santa Barbara, celebri per il loro tarallaro, il biscottaio popolare, ma celebri anche per il vizio diurno e notturno, che vi ha i suoi antri più bassi e più tristi: nè, a quanto pare, tutto questo è mutato. I miei occhi hanno visto, in questa lunga indagine, le donne appoggiate agli angoli di questi angiporti, con le gonne attaccate sullo stomaco, le pianelle coi tacchi alti, le calzette rosse e le guancie cariche di belletto, mentre, nei loro occhi, vi è quella mortale fierezza e quella mortale tristezza che è il segno caratteristico del peccato, del vizio, nelle donne del popolo napoletano. Questo è il lato migliore di dietro il paravento, le vie che salgono, vanno verso quartieri più borghesi che popolari, vanno verso quartieri di commercianti, di professionisti, e lo spettacolo non desta un ribrezzo tanto profondo; eppure! Forse che è stato toccato, neppure in una sua pietra, quel budello nero, storto, ripido, sdrucciolevole, che è il vico di Mezzocannone? Ah, esso non è stato toccato, e tutta la gente d’immaginazione, ma senza cuore, tutti quelli che amano il colore a scapito della civiltà e della decenza, tutti quelli che amano il carattere e non hanno compassione di chi muore, si consoli, perchè il vico di Mezzocannone è stato rispettato e, probabilmente, non sarà mai toccato! Eccolo, oscuro, fetido, pericoloso alle gambe, pericoloso alle gonne pulite, ai calzoni puliti, eccolo con le sue case senz’aria e senza sole, con le sue botteghe che sembrano dei sotterranei, ove sono dei tintori, dei venditori di vino e persino, lavorando nella via, delle ricamatrici di oggetti di chiesa, ricamatrici in seta e in oro: eccolo, col suo goffo re di Mezzocannone, sovra una vecchia fontana, con quell’altro precipizio, di traverso, che sono le gradelle di san Giovanni Maggiore: eccolo, il vero nostro vicolo di Mezzocannone, ce lo hanno lasciato e noi possiamo ancora, turandoci il naso, attraversarlo in fretta: il Risanamento non ha osato arrivarvi: non vi arriverà mai!
Sul fronte del Rettifilo si sta costruendo la facciata della nuova Università, nè appare molto bella, mentre l’antica Università, via, aveva la sua grandezza e il suo fascino: si sta costruendo e gli studenti e i professori e la scienza finiranno per esser allogati magnificamente quando tutto ciò sarà finito. E via san Marcellino? E gli altri intestini di viottole che discendono, in quella regione, intestini ove si agita e vive della gente, vi sono degli uomini, dei cristiani, accumulati, così, e tutte le altre straducce, adiacenti al Rettifilo? Tutto ciò che era il vero risanamento, perchè, perchè non è stato risanato, mentre quasi tutti i denari, sono stati spesi, mentre quei pochi che restano, salvati a stento, basteranno scarsamente a completare le due ali del paravento, a destra e a sinistra, e non si potrà nulla fare per tutto ciò che è dietro? Nulla ci sta più a cuore del decoro esterno della nostra carissima città e noi amiamo che ci sia un palazzo della Borsa maestoso, anche se non vi si facciano affari, dentro; noi amiamo vedere la grande gabbia aerea dei telefoni, sull’alto palazzo, in piazza, sebbene siano così pochi gli abbonati in una città di seicentomila anime; noi amiamo pensare una novissima Università, con le sue cliniche e i suoi gabinetti scientifici, affollata dalla parte più geniale e più simpatica della nostra popolazione, cioè gli studenti: sì! Ma che, accanto, a dieci passi, viva nella lordura, nella miseria, nelle stamberghe, nelle caverne, tutta una parte di popolo, per cui si volle il risanamento edilizio e igienico, che questa parte di popolo a cui si destinarono cento milioni, muoia di tutte le infezioni, dopo averne vissuto, alle spalle di tutti i nuovi palazzi: questo è che fa sollevare di dolore e di rimpianto il nostro cuore e ci fa sembrare una beffarda ironia la maestà esteriore dei nuovi edificii, dietro i quali vi sono il putridume e la cancrena!
Sul fronte del Rettifilo si sta costruendo la facciata della nuova Università, nè appare molto bella, mentre l’antica Università, via, aveva la sua grandezza e il suo fascino: si sta costruendo e gli studenti e i professori e la scienza finiranno per esser allogati magnificamente quando tutto ciò sarà finito. E via san Marcellino? E gli altri intestini di viottole che discendono, in quella regione, intestini ove si agita e vive della gente, vi sono degli uomini, dei cristiani, accumulati, così, e tutte le altre straducce, adiacenti al Rettifilo? Tutto ciò che era il vero risanamento, perchè, perchè non è stato risanato, mentre quasi tutti i denari, sono stati spesi, mentre quei pochi che restano, salvati a stento, basteranno scarsamente a completare le due ali del paravento, a destra e a sinistra, e non si potrà nulla fare per tutto ciò che è dietro? Nulla ci sta più a cuore del decoro esterno della nostra carissima città e noi amiamo che ci sia un palazzo della Borsa maestoso, anche se non vi si facciano affari, dentro; noi amiamo vedere la grande gabbia aerea dei telefoni, sull’alto palazzo, in piazza, sebbene siano così pochi gli abbonati in una città di seicentomila anime; noi amiamo pensare una novissima Università, con le sue cliniche e i suoi gabinetti scientifici, affollata dalla parte più geniale e più simpatica della nostra popolazione, cioè gli studenti: sì! Ma che, accanto, a dieci passi, viva nella lordura, nella miseria, nelle stamberghe, nelle caverne, tutta una parte di popolo, per cui si volle il risanamento edilizio e igienico, che questa parte di popolo a cui si destinarono cento milioni, muoia di tutte le infezioni, dopo averne vissuto, alle spalle di tutti i nuovi palazzi: questo è che fa sollevare di dolore e di rimpianto il nostro cuore e ci fa sembrare una beffarda ironia la maestà esteriore dei nuovi edificii, dietro i quali vi sono il putridume e la cancrena!
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Ma la vera via crucis per l’osservatore che abbia un’anima pietosa, è il percorrere, a piedi, dove può e come può, tutto ciò che è dietro il paravento, alla diritta del Rettifilo, venendo dal centro della città, andando verso la ferrovia, principiando da quanto è alle spalle della via Niccola Amore, continuando sino a piazza Mercato, sino a porta Nolana. Alle spalle? Via Niccola Amore, a diritta, non ha che un lungo e basso muretto e tutte le vecchissime case, in cui s’imboccava via Porto, sono in piedi, alte, prepotenti, incombenti, sfidanti da anni il piccone, che non le tocca, che non le toccherà, forse, giammai! Ivi, non vi è neppure il paravento: ivi, signoreggiano, quasi spettri della miseria e dell’onta, tutte le case di Basso Porto ricetti di povertà inaudite, ricetti di delitti e di delittuosi, ricetti di tutte le cose e le persone infami e dolenti. Guardate! Non avete che a guardare alla vostra diritta, passando, e il Basso Porto vi dirà che è stato di vano, di inane, di inutile quanto si è voluto fare e quanto non si è fatto, quanto non si è voluto fare! Ma, abbiate una lugubre curiosità e discendete, laggiù. Dico bene: discendete tutto il lato destro del Rettifilo: le colmate sono restate un progetto fantasioso, mai eseguito onde, laggiù si penetra per tutti i modi più rudimentali, più incerti, più infidi e più pericolosi. Scalette di legno improvvisate e diventate, ahimè, definitive; scalette di pietra, a scalini mal connessi e tremanti sotto il piede; scalette tagliate nella terra, sì, nella terra, come in qualche villaggio africano; rampe a scaglioni; rampe di terra, discese ripide e sdrucciolevoli: tutte le forme, infine, del precipizio, a due passi dai grandi palazzi. Qua e là, qualche rozza ringhiera; appoggiandovisi, guardando giù, par di mettere l’occhio in una cantina, in un pozzo.
Lo slivello fa paura. Le colmate dovrebbero arrivare ai primi piani di queste catapecchie: e a pianterreno, ai primi piani di queste catapecchie, abita gente, ha bottega, vive, muore; e così sarà, per moltissimi anni ancora, così sarà, forse, per sempre! Lo slivello pauroso si prosegue da Porto, a Vicaria, a Mercato, sino alla fine, e in fondo a questi pozzi, in fondo a queste cantine, in fondo a questi sotterranei esiste tutto quello che esisteva prima, purtroppo, peggiorato! Le antiche arti, gli Orefici, gli Armieri, i Lanzieri, i Taffettanari, son là, coi loro piccoli opificii malsani, oscuri, miserabili; sono ancora lì le straduccie affogate, fra le case, gli antichi portoncini larghi settantacinque centimetri, le antiche finestre dai vetri sporchi, gli antichi cavalcavia sui quali pare si abbattano le vecchie case crollanti, gli antichi vicoli ciechi, ricovero di ogni sporcizia: tutto, tutto è restato com’era, talmente sporco da fare schifo, senza mai uno spazzino che vi appaia, senza mai una guardia che vi faccia capolino.
Tutto si fa, nelle piazzette, nei vicoletti: tutti vendono il vendibile, erbe, frutta, carne, pesci, nel fango eterno della strada; e vi sono le antiche osterie, ancora, ove si vendono le zuppe di pasta e fagioli, le fritture, di cento cose fritte, dai panzarotti ai peperoni, le insalate di scapece, il zoffritto a porzione di tre soldi, di due soldi, persino di un soldo! Come un tempo! Peggio di un tempo! A dieci passi dal Rettifilo, caldaie di patate, caldaie di polipi, caldaie di spighe bollite, caldaie di castagne, e il più acre odore, intorno, da queste cucine, dalle piccole fucine degli Orefici,e degli armaioli, dalle marmitte dei tintori! Pieno di colore? Già: ma orribile! Io rammento tre punti, fra gli altri. Una piccola regione chiamata Tentella: cioè un intrico quasi verminoso di vicoletti e vicolucci, nerastri, ove la luce meridiana mai discende, ove mai il sole penetra, ove per terra la mota è accumulata da anni, ove le immondizie sono a grandi mucchi, in ogni angolo, ove tutto è oscuro e tutto è lubrico, ove, a un crocicchio, vi è un’ostessa dai folti capelli neri, a un crocicchio, donde, in penombra si vede ancora il fondaco Tentella, una ostessa che vende ogni sorta di mangiare in grandi piatti di rame lucido, dalla fragaglia fritta alla spiritosa di pastinache. E m’incoraggia ad andare verso il fondaco Tentella, l’ostessa, con la bonomia napoletana, m’incoraggia, poichè vede che io esito, innanzi a tutte quelle sporcizie, lungo quelle mura trasudanti umidità, con quegli odori nauseanti: mi incoraggia, mentre io esito, fissando gli occhi in quella oscurità – e siamo nel paese dell’azzurro, del sole! – mentre sul suo viso giallastro, sulle sue labbra violette, nei suoi denti neri, io leggo tutte le traccie di quella vita sprofondata nel lezzo e nei contatti costantemente malsani, tre o quattro persone, in una stanza, e che stanza, e le ore del giorno, in una cucina affumicata, a preparare le vivande male olenti, da vendere! Da quanti anni non viene, qui, un sindaco, un assessore? Da quanti anni non si lavano, queste vie? Da quanti mesi non si spazzano? Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie, qui, sull’orlo della civiltà novella, dietro ai palazzi sontuosi – andate laggiù, cercate del vicolo Barre: esso dovrebbe corrispondere a una colmata che non si è fatta, a una traversa che non si è mai aperta. È un vicolo strettissimo, lunghissimo, con case altissime, disseminate di balconi, di finestrelle: i due lati sono legati fra loro da cavalcavia, da ponti di pietre, da ponticelli di legno, il che ne aumenta l’oscurità: i due lati, anche, sono legati da corde, da funicelle a cui pendono panni, di tutti i colori, rappezzati, stinti: e questo lunghissimo vicolo Barre, i cui portoncini sembrano caverne, non ha un lampione: è una vera sentina di ogni cosa più ignobile: ed è pericoloso a esser attraversato anche di giorno, tutto abitato da donne di mala vita, da camorristi, da ladri, e l’orrore che ne proverete non sarà solamente fisico, voi proverete uno di quegli avvilimenti morali che provocano delle profonde tristezze. E se voi volete scrivere un capitolo di un romanzo popolare, più innanzi, molto più innanzi di questo tremendo vicolo Barre, attraversate il vico dei Cangiani, col suo relativo supportico. Esso è costeggiato, a manca e a dritta, tutto da piccole locande, dove si pagano quattro o cinque soldi per dormire, ove si dorme in quattro o cinque in una sola stanza: queste locande hanno una clientela speciale, quella dei carrettieri di Calabria, di Basilicata, del Cilento, di Terra di Lavoro, coloro che si chiamano nel popolo, vaticali, da viatico, certo: e questi contadini stanno, di giorno, sui portoncini di queste locande da quattro soldi, stanno, vestiti dei loro panni pesanti e di taglio contadinesco, coi loro cappelli di strana foggia, coi loro mantelli, seduti per terra, seduti sovra una pietra, aspettando di rimettersi in cammino. Io ho attraversato questo vicolo, fermandomi a guardare quei volti adusti, immobili di espressione, pazienti sotto le fatiche e sotto i disagi, quelle labbra mute: ho vissuto dei lunghi minuti in questo vicolo nerastro, tutto disselciato, pieno di acque luride, pieno di una melma attaccaticcia, in questo vicolo talmente tetro che sembra una tomba, e, a un certo punto, sono stata presa dal delirio di fuggire, di fuggire, per non vedere più, per non udire più, per non avere più lo spettacolo della più amara delusione, nel mio cuore di napoletana, per non soffrire delle sconosciute sofferenze altrui, da niuno consolate, poichè quella gente vive e muore, laggiù, alle spalle dei superbi palazzi, ignota, obliata, disdegnata, disprezzata!
Lo slivello fa paura. Le colmate dovrebbero arrivare ai primi piani di queste catapecchie: e a pianterreno, ai primi piani di queste catapecchie, abita gente, ha bottega, vive, muore; e così sarà, per moltissimi anni ancora, così sarà, forse, per sempre! Lo slivello pauroso si prosegue da Porto, a Vicaria, a Mercato, sino alla fine, e in fondo a questi pozzi, in fondo a queste cantine, in fondo a questi sotterranei esiste tutto quello che esisteva prima, purtroppo, peggiorato! Le antiche arti, gli Orefici, gli Armieri, i Lanzieri, i Taffettanari, son là, coi loro piccoli opificii malsani, oscuri, miserabili; sono ancora lì le straduccie affogate, fra le case, gli antichi portoncini larghi settantacinque centimetri, le antiche finestre dai vetri sporchi, gli antichi cavalcavia sui quali pare si abbattano le vecchie case crollanti, gli antichi vicoli ciechi, ricovero di ogni sporcizia: tutto, tutto è restato com’era, talmente sporco da fare schifo, senza mai uno spazzino che vi appaia, senza mai una guardia che vi faccia capolino.
Tutto si fa, nelle piazzette, nei vicoletti: tutti vendono il vendibile, erbe, frutta, carne, pesci, nel fango eterno della strada; e vi sono le antiche osterie, ancora, ove si vendono le zuppe di pasta e fagioli, le fritture, di cento cose fritte, dai panzarotti ai peperoni, le insalate di scapece, il zoffritto a porzione di tre soldi, di due soldi, persino di un soldo! Come un tempo! Peggio di un tempo! A dieci passi dal Rettifilo, caldaie di patate, caldaie di polipi, caldaie di spighe bollite, caldaie di castagne, e il più acre odore, intorno, da queste cucine, dalle piccole fucine degli Orefici,e degli armaioli, dalle marmitte dei tintori! Pieno di colore? Già: ma orribile! Io rammento tre punti, fra gli altri. Una piccola regione chiamata Tentella: cioè un intrico quasi verminoso di vicoletti e vicolucci, nerastri, ove la luce meridiana mai discende, ove mai il sole penetra, ove per terra la mota è accumulata da anni, ove le immondizie sono a grandi mucchi, in ogni angolo, ove tutto è oscuro e tutto è lubrico, ove, a un crocicchio, vi è un’ostessa dai folti capelli neri, a un crocicchio, donde, in penombra si vede ancora il fondaco Tentella, una ostessa che vende ogni sorta di mangiare in grandi piatti di rame lucido, dalla fragaglia fritta alla spiritosa di pastinache. E m’incoraggia ad andare verso il fondaco Tentella, l’ostessa, con la bonomia napoletana, m’incoraggia, poichè vede che io esito, innanzi a tutte quelle sporcizie, lungo quelle mura trasudanti umidità, con quegli odori nauseanti: mi incoraggia, mentre io esito, fissando gli occhi in quella oscurità – e siamo nel paese dell’azzurro, del sole! – mentre sul suo viso giallastro, sulle sue labbra violette, nei suoi denti neri, io leggo tutte le traccie di quella vita sprofondata nel lezzo e nei contatti costantemente malsani, tre o quattro persone, in una stanza, e che stanza, e le ore del giorno, in una cucina affumicata, a preparare le vivande male olenti, da vendere! Da quanti anni non viene, qui, un sindaco, un assessore? Da quanti anni non si lavano, queste vie? Da quanti mesi non si spazzano? Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie, qui, sull’orlo della civiltà novella, dietro ai palazzi sontuosi – andate laggiù, cercate del vicolo Barre: esso dovrebbe corrispondere a una colmata che non si è fatta, a una traversa che non si è mai aperta. È un vicolo strettissimo, lunghissimo, con case altissime, disseminate di balconi, di finestrelle: i due lati sono legati fra loro da cavalcavia, da ponti di pietre, da ponticelli di legno, il che ne aumenta l’oscurità: i due lati, anche, sono legati da corde, da funicelle a cui pendono panni, di tutti i colori, rappezzati, stinti: e questo lunghissimo vicolo Barre, i cui portoncini sembrano caverne, non ha un lampione: è una vera sentina di ogni cosa più ignobile: ed è pericoloso a esser attraversato anche di giorno, tutto abitato da donne di mala vita, da camorristi, da ladri, e l’orrore che ne proverete non sarà solamente fisico, voi proverete uno di quegli avvilimenti morali che provocano delle profonde tristezze. E se voi volete scrivere un capitolo di un romanzo popolare, più innanzi, molto più innanzi di questo tremendo vicolo Barre, attraversate il vico dei Cangiani, col suo relativo supportico. Esso è costeggiato, a manca e a dritta, tutto da piccole locande, dove si pagano quattro o cinque soldi per dormire, ove si dorme in quattro o cinque in una sola stanza: queste locande hanno una clientela speciale, quella dei carrettieri di Calabria, di Basilicata, del Cilento, di Terra di Lavoro, coloro che si chiamano nel popolo, vaticali, da viatico, certo: e questi contadini stanno, di giorno, sui portoncini di queste locande da quattro soldi, stanno, vestiti dei loro panni pesanti e di taglio contadinesco, coi loro cappelli di strana foggia, coi loro mantelli, seduti per terra, seduti sovra una pietra, aspettando di rimettersi in cammino. Io ho attraversato questo vicolo, fermandomi a guardare quei volti adusti, immobili di espressione, pazienti sotto le fatiche e sotto i disagi, quelle labbra mute: ho vissuto dei lunghi minuti in questo vicolo nerastro, tutto disselciato, pieno di acque luride, pieno di una melma attaccaticcia, in questo vicolo talmente tetro che sembra una tomba, e, a un certo punto, sono stata presa dal delirio di fuggire, di fuggire, per non vedere più, per non udire più, per non avere più lo spettacolo della più amara delusione, nel mio cuore di napoletana, per non soffrire delle sconosciute sofferenze altrui, da niuno consolate, poichè quella gente vive e muore, laggiù, alle spalle dei superbi palazzi, ignota, obliata, disdegnata, disprezzata!
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E, in ultimo, sapete che è accaduto? Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto, dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il Censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo, è poco abitata, e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! In quell’intrico che va da Porto a Mercato, a Vicaria, si aggroviglia una folla spaventosa; non vi sono che poche fontanelle di acqua e le case, che debbono essere, demolite (?), ne mancano; non vi sono fognature regolari, non vi sono lampioni, poichè il piano stradale, è assolutamente dissestato: tutto ciò che serve alla vita, vi manca. Se una epidemia, lontana sia, dovesse capitarci, impossibile circoscriverla, impossibile dominarla: in quei quartieri farebbe novellamente strage, come venti anni or sono; e i nostri edili nulla ne sanno; e nessuno vuol saperne niente. E quel popolo che è stato tradito, poichè non ha avuto quanto la nazione gli aveva donato, per redimerlo igienicamente e moralmente, quel popolo che è abbandonato, che lo sa, che un po’ ne ride, un po’ ne sospira, un po’ ne digrigna i denti, questo grande popolo che noi dobbiamo amare, che noi amiamo, perchè ci sentiamo affratellati con esso, perchè anche noi siamo popolo, perchè noi siamo come esso e figliuoli del medesimo Iddio di giustizia e di clemenza, questo popolo non resiste agli antichi istinti, al bisogno di vivere come che sia, al bisogno di vendicarsi di questa società ingrata e traditrice: non resiste alla suggestione del vizio, del male: e giuoca: e ruba: e si vende: e ferisce: e uccide: e colà, di giorno, di notte, appena dietro il paravento, o nel Rettifilo istesso, il crimine, il delitto, si espandono, fioriscono, eterna rampogna, eterno rimorso a coloro che, fedifraghi al Re, ad Agostino Depretis, a Niccola Amore, a Guglielmo Sanfelice, alla Nazione, commossa di orrore e di pietà, mancarono ai patti giurati e ruppero ogni promessa, lasciando il popolo napoletano a languire, a struggersi, a patire, ad agonizzare, nella più profonda ignavia del corpo e dell’anima.
III. Le case del popolo
Una delle nobilissime, pietose ma fallaci utopie di tutti coloro che hanno voluto o vogliono salvare il popolo napoletano dalla miseria, dal vizio, dal delitto e dalla morte, è stata, è quella di dare a questo popolo, delle abitazioni fatte per esso. E, difatti, nessuna compassione e nessun ribrezzo più grande che il cacciar il viso a fondo in questi bassi ove vive e mal vive il popolo, in questi bassi che sono già oscuri, oppressi, angusti nelle vie più grandi e che nei vicoli, in cento vicoli, in mille vicoli diventano delle stamberghe sotterranee, quasi diventano degli antri ove si agitano e brulicano le vite umane, piccole, grandi, decrepite. Il basso è una bottega rudimentale, un terraneo, piuttosto, senza finestra, senza cesso, senz’altro sfogo che una porta, talvolta angusta che, d’inverno, deve star chiusa, che, di notte, non può stare aperta; e appena la primavera viene, chi lo abita, si trasporta nella via, sul marciapiede, vivendo sulla soglia, fuori della soglia, occupando il terreno pubblico, coi suoi figli, col suo fornello da stirare e da cucinare, con la sua macchina da cucire, quando non la occupa col suo banchetto da ciabattino, col suo banchetto di venditrice di castagne e di spighe allesse. Nel basso dormivano – dormono! – tre, quattro, sino a sette persone e nelle notti estive, due, tre di essi, soffocando di caldo, trascinano uno strapuntino fuori della porta, mettono una sedia, o addirittura si gittano sul lastrico, dormendo all’aria aperta. Non essendovi cessi ognuna di queste persone, grandi e piccole, va a scegliere un angolo remoto, vicino o lontano, di cui forma il proprio water closet e, talvolta, le madri accompagnano i piccini e le piccine, apposta, perchè non siano disturbate: così, molte strade di Napoli sono trasformate, appunto in water closet di padre in figlio, immancabilmente, senza che questa barbarie indecente, oscena possa essere sradicata. Io citerò e mi si perdoni l’insistenza brutale ma necessaria – la salita della Paggeria, le rampe di Brancaccio, e ahimè, purtroppo, l’elegantissimo parco Margherita, e le squisite traverse Partenope, donde si scopre tanto divino paesaggio di mare e di cielo, sono anche destinate a tale uso. Io ho nominato solo quattro o cinque vie, perchè esse appartengono, è triste il dirlo, ai quartieri più civili di Napoli, cioè di san Ferdinando e Chiaia, poichè, essi appartengono al famoso rione della Beltà, cioè dove abita la nobiltà e dove vengono a dimorare i forestieri. Delle viottole e viuzze ammorbate, ammorbanti dei quartieri popolari, non parlo; dovrei nominarne a centinaia. Ciò è immondo; ma è la verità. Or dunque, ogni salvatore di Napoli, tutti i salvatori di Napoli hanno pensato, hanno detto: diamo al popolo napoletano delle case al primo piano, al secondo, al terzo, al quarto, delle case piccole, pulite, con la cucinetta, col rubinetto di acqua del Serino, col cesso; diamo loro delle case ove entri l’aria, entri il sole, ove ci si possa lavorare ampiamente, bere in abbondanza, e ove la primissima decenza, la primissima igiene siano rispettate. E ciò è stato fatto; e tre o quattro grandi o piccoli quartieri di case pel popolo sono sorti, e ciò è stato fatto con tale imprevidenza, con tale ignoranza presuntuosa, con tali calcoli sbagliati, che questi quartieri non sono serviti a nulla, a nulla, e sorgono, nei sobborghi della città, sulla riva di santa Lucia, enormi, massicci, brutti, già lerci, già quasi cadenti, mentre il popolo non vi abita!
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Citiamo il Borgo Marinai, a santa Lucia, posto che si dovevano abbattere, sino da venti anni, tutte le case pittoresche e sporchissime dell’antico rione santa Lucia, case che, oh ironia, si vanno abbattendo solo da un anno, e si era preoccupati dove si sarebbero allogati quei pescatori di polipi, quelle venditrici di acqua sulfurea, quegli intrecciatori di nasse, quei sommozzatori o palombari, si pensò e si costruì, sulla lingua di terra che parte dalla sinistra, di Castel dell’Uovo, un gruppo di casette a un piano, sulla riva del mare. Costavano, costano diciotto lire, una stanzetta con la cucina, e ventisette lire due stanzette con la cucina. Irrisione! Nonsenso! Non vi è pescatore, non vi è palombaro, non vi è barcaiuolo di santa Lucia che guadagni più di venticinque o trenta soldi al giorno e volete che ne spenda diciassette soldi, al giorno, solo per la casa? Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano, non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione – è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! – e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell’Eldorado, che prendono i...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Pagina del Titolo
- Colophon
- Introduzione
- PARTE PRIMA: VENT'ANNI FA. Capitolo I: Bisogna sventrare Napoli
- II. Quello che guadagnano
- III. Quello che mangiano
- IV. Gli altarini
- V. Il lotto
- VI. Ancora il lotto
- VII. L'usura
- VIII. Il pittoresco
- IX. La pietà
- PARTE SECONDA: ADESSO. Capitolo I: Il paravento
- II. Dietro il paravento
- III. Le case del popolo
- IV. Che fare?
- PARTE TERZA: L'ANIMA DI NAPOLI. Capitolo I: L'onore
- II. Il rione della bellezza
- III. La Gran Via
- IV. Guerra ai ladri
- V. Cristo dice...
- VI. Il pane dell'anima
- VII. Il padre del popolo
- VIII. Una donna
- Indice
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